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Come il cuore di un bambino
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E-book88 pagine1 ora

Come il cuore di un bambino

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Info su questo ebook

E’ iniziato tutto con una piccola bugia, una fesseria su un esame non superato. Ora rischiano la vita perché hanno infilato il naso in qualcosa che non capiscono. Sandro e Vince, in una Cagliari che non riconoscono più, si trovano ricercati, braccati, inseguiti. Ma soprattutto soli. E’iniziato tutto con una bugia. E nessuno di loro sa come andrà a finire. Di certo, dei due vecchi amici, non resterà altro che un ricordo puro come il cuore di un bambino.

LinguaItaliano
Data di uscita12 mar 2012
ISBN9788897543114
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    Anteprima del libro

    Come il cuore di un bambino - Vincenzo Saldì

    roses)

    1

    Domani ho l’esame. 

    Non ho ancora abbastanza sonno da mettermi a letto, se no mi viene da pensare e se penso domani l’esame non lo do. E poi è un po’ di tempo che non mi addormento bene se non sono veramente stanco, tipo metto la testa sul cuscino e crollo.

    È l’una di notte. Il dito fisso sul tastino + del telecomando. Ovvero zapping selvaggio.

    Presentatore, topolona, film pizzoso, televendita, televendita, televendita, film vecchio, film brutto, lesbiche sadomaso, tette, culi, presentatore, topolona, film pessimo, televendita...

    eccetera eccetera. È mezz’ora che faccio così ed ormai non vedo più nulla tanto mi fanno male gli occhi.

    È l’una e tre quarti quando la vescica sta per scoppiare.

    Il televisore è basso, anche se a casa ci sono io da solo. Più per abitudine che per altro. E poi quella di sopra, stronza vecchietta rompipalle, è capace di farmi un pistolotto appena mi incontra nell’ascensore se il volume della televisione, a quest’ora tarda, le sveglia i gatti. I gatti. Per fortuna che nel condominio è vietato tenere animali!

    Mi alzo, vado a pisciare e tornando butto un occhio alla città, giù, oltre la finestra. Abito al settimo piano e la vista da qui è ottima. Soprattutto della figlia di quelli che abitano di fronte: fa la doccia con la portafinestra del bagno aperta. Sempre. Ormai non me ne perdo neppure uno di questi spettacolini a luci rosse più o meno involontari. Laggiù in fondo c’è l’aeroporto.

    Qui sotto i lampioni illuminano un banale scorcio urbano: piazzetta, macchine parcheggiate una sull’altra, strade vuote e brina. Ogni tanto un piccolo rovescio d’acqua. E domani ho l’esame.

    Sono le due quando gli occhi si chiudono da soli. Quasi quasi vado a letto. Poi penso che se vado a letto mi sa che mi sveglio di nuovo e devo ricominciare a fare zapping di là, sul televisore davanti al mio lettuccio. No, stanotte dormo qua. E pazienza per il mal di schiena che domani mi torturerà.

    Presentatore, topolona, film pizzoso, televendita, televendita, televendita, film vecchio, film brutto, lesbiche sadomaso, tette, culi, presentatore, topolona, televendita... diventa tutto una macchia scura quando definitivamente mi addormento.

    Sono le tre quando mi sveglio di soprassalto.

    Il telecomando mi è scivolato di mano. L’ultimo programma sul quale si è fermato è un film.

    Ci impiego un istante a capire che il film è I tre giorni del condor. Eppure c’è qualcosa che stona.

    Mi ha svegliato un rumore. Forse qualcosa nel film? Forse una pubblicità a volume sparatissimo? No, era diverso.

    Chissene, già che ci sono me ne vado a letto.

    Raccolgo il telecomando e spengo la tele. Poi lo sento di nuovo.

    È il netto e terrificante trillo del citofono. Alle tre di notte.


    Peggio dello squillo del telefono.

    Nel silenzio ho fatto un salto, ancora un po’ e mi attaccavo al lampadario come Gatto Silvestro nei cartoni.

    Il coso continua a trillare. Non solo qualcuno sta bussando, ma ha appiccicato proprio il dito sopra il mio campanello. E chi cazzo è a quest’ora?

    E soprattutto, che vuole da me?

    Aspetto.

    Il citofono gracchia ancora. Pur di farlo smettere lo faccio.

    Allora vado a rispondere.

    Niente.

    Nessuno dice nulla.

    Non so cosa sia peggio.

    - Chi è? - continuo a chiedere. La paura mi ha stretto i testicoli.

    Niente.

    Sto per mettere giù quando la sento.

    È una voce terribilmente flebile: sembrano le ultime parole emesse con l’ultimo filo di voce.

    - Ti prego, aiutami... ti prego... aiuto... aiuto... ai....


    Ho visto troppi film.

    Prendo le chiavi di casa, apro il portoncino blindato e me lo tiro dietro (tanto non c’è bisogno di chiuderlo) mentre scendo a rotta di collo per le scale. In pantofole e vestaglia non credo che sembrerò molto macho ma non ci posso fare nulla. Mentre sto saltando gli scalini a due a due la luce della tromba si spegne. Mi toccherebbe fermarmi al pianerottolo e cercare la lucina rossa del pulsante condominiale. Ma non ho tempo, quindi giù, al buio, e gli occhi, piano dopo piano, si abituano alla luce che viene delle finestre della tromba, cosicché arrivo al piano terra senza essermi rotto nulla.

    Non ho più sonno.

    L’androne è immerso nel buio più assoluto. Sembra di stare dentro una boccetta di inchiostro nero di china. Dove si accende la luce quaggiù?

    La prima porta è chiusa. Dietro non c’è niente e nessuno. L’androne sarà al buio finché non arriva l’elettricista che è stato chiamato tre settimane fa. C’è qualcosa che fa contatto da qualche parte e quaggiù salta sempre tutto.

    Esco?

    Mi avvicino al portoncino. Ho una chiave in mano, la più affilata che ho trovato nel mazzo.

    Non è molto, lo so, ma se te la infilo in un occhio forse fa male. Ve l’ho detto, ho visto troppi film.

    Apro il portoncino.

    Mi avvicino al cancello. Il lampione qui davanti, ovviamente è saltato. L’unica luce e quella della luna, poca, e di un paio di luminarie del palazzo di fronte, sporche. Con un ccccclik sepolcrale faccio scattare la serratura del cancello.

    C’è una sagoma per terra.

    Mi chino su di lei.

    È morta.

    Una lama lunghissima le spunta dal collo. L’impugnatura è per metà dentro la carne.

    Faccio un salto indietro e mi cadono le chiavi per terra.

    Sul citofono una strisciata di sangue.

    Un paio di fari compaiono dal nulla.

    Vedo la morte sul viso della ragazza (non scorderò mai quel viso), gli occhi spalancati e immobili come quelli delle teste appese dentro le macellerie. È riversa per terra, sull’antisdruciolo davanti al cancello.

    Io mi sento come un coniglio abbagliato dai fari in piena campagna.

    Sta iniziando a piovere: l’acqua fa uno strano effetto passando tra i fari e me. Non sento nulla, non vedo più nulla.

    Se

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