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Il maestro di Auschwitz
Il maestro di Auschwitz
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E-book296 pagine4 ore

Il maestro di Auschwitz

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Basato sulla storia vera del famigerato Blocco 31

Alex Ehren è uno dei prigionieri di Auschwitz-Birkenau. Ogni giorno che passa la lotta per sopravvivere all’orrore del campo di concentramento si fa sempre più dura. Eppure Alex ha deciso di contravvenire agli ordini dei suoi spietati aguzzini e, di nascosto, dà lezione ai bambini raccolti nel famigerato Blocco 31. È un piccolo gesto di coraggio, che ha però un incredibile valore sovversivo, perché è il solo modo per tentare di proteggerli dalla terribile realtà della persecuzione che sperimentano sulla propria pelle. Eppure, insegnare ai bambini non è l’unica attività proibita a cui Alex si dedica… Questo romanzo è ispirato alla vera storia di Otto B Kraus, che durante la prigionia nel campo di concentramento osò sfidare le inflessibili regole imposte dai nazisti e creò per i suoi piccoli allievi un’oasi di normalità. 

«C’era così poco spazio sulla cuccetta che, quando uno di noi voleva riposare il fianco, dovevamo girarci tutti in un intreccio di gambe, di petti e di pance vuote come se fossimo un’unica creatura dai molteplici arti, una sorta di divinità indù o di millepiedi. Fra noi nacque una certa intimità, non solo nel corpo ma anche nella mente, perché sapevamo che, pur non essendo nati dallo stesso ventre, saremmo di certo morti insieme.» 
Otto B Kraus

La vera storia dei bambini ebrei che vissero nel famigerato Blocco 31 ad Auschwitz 

Una pagina che getta una nuova luce sulla resistenza degli ebrei durante l'Olocausto e merita di essere conosciuta
 «Il maestro di Auschwitz è la lettura perfetta per il Giorno della Memoria.»
La Repubblica Milano«Il romanzo ispirato alla vera storia del maestro che dava lezione ai bambini del Blocco 31 di Auschwitz, scala la classifica.»
Corriere della Sera«Un romanzo ispirato alla storia autentica di Otto B Kraus, che durante la prigionia nel campo di concentramento osò sfidare le regole imposte dai nazisti. Una storia nella quale la realtà supera tragicamente la fantasia.»
L’Espresso
 
«Otto B Kraus ripercorre la sua esperienza di insegnante dei bambini individuati dal dottor Mengele come vittime per i suoi esperimenti.»
La Stampa
«Impressionante. Quando ho letto il manoscritto ho pensato che dovesse essere assolutamente pubblicato.»
Elie Wiesel

«Otto Kraus unisce un talento narrativo eccezionale alla potenza di un’esperienza personale incredibile, tra le baracche immerse negli orrori di Auschwitz. Da oggi in poi il suo nome entrerà di diritto tra gli scrittori fondamentali del ventesimo secolo.»
Antonio Iturbe

Otto B Kraus
È nato nel 1921 a Praga. Lui e la sua famiglia furono deportati nel maggio 1942 nel Ghetto Terezin e da lì ad Auschwitz. Fu tra i mille uomini inviati nel campo di concentramento di Schwarzheide-Sachsenhausen in Germania. Dopo la guerra, tornò a Praga dove apprese che né i suoi genitori, né suo fratello erano sopravvissuti. Si iscrisse all’università per studiare Letteratura, Filosofia, Inglese e Spagnolo. Ricevette una modesta borsa di studio e iniziò a ricostruire la sua vita. È morto il 5 ottobre 2000, a casa, circondato dalla sua famiglia.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2019
ISBN9788822739872
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    Anteprima del libro

    Il maestro di Auschwitz - Otto B Kraus

    Capitolo 1

    Auschwitz-Birkenau

    L'idea di una rivolta era venuta ad Alex Ehren in maniera quasi spontanea. Fu come una bolla d’aria che risaliva a galla dal fondo di uno stagno o come una farfalla che emerge dalla crisalide.

    Va detto che lui sognava una fuga ogni notte, perché nell’oscurità tutto sembrava possibile, perfino oltrepassare il recinto elettrificato, scalare il fossato, evitare l’ostacolo dei cani e le sentinelle. Di notte non era mai completamente buio perché i fari spazzavano il campo con un fascio accecante e la recinzione era costellata di luci su colonne che si curvavano in avanti come serpenti. Lui chiudeva gli occhi e pensava alla libertà. Eppure mai prima di allora aveva osato sognare una ribellione, una lotta armata contro i tedeschi.

    Alex Ehren era arrivato nel Campo famiglie di Birkenau nel dicembre del 1943. I 5007 prigionieri – uomini, donne e bambini – avevano viaggiato a bordo di due treni, partiti dal ghetto di Theresienstadt uno il 15 del mese e l’altro il 18. Dopo tre giorni chiusi in un vagone merci puzzolente, i prigionieri erano arrivati a Birkenau la vigilia di Natale. Là erano stati spogliati degli scarsi beni in loro possesso, era stato tatuato sul loro braccio un numero di serie e avevano marciato avvolti in stracci cenciosi verso la sezione BIIb, il Campo famiglie ceco. La BIIb era una delle sette aree recintate di Birkenau. Accanto c’era il Campo della quarantena e, dall’altra parte, c’era il campo in cui le SS rinchiudevano le giovani donne ungheresi prima di mandarle ai lavori forzati in Germania. In un altro campo vivevano settemila famiglie di zingari in baracche di legno e, ancora oltre, si trovavano il Campo degli uomini e quello delle donne. Infine, all’estremo più lontano, si ergeva il Campo ospedale dove i dottori delle SS eseguivano i loro orrendi esperimenti. Quando i trasporti di dicembre giunsero al Campo famiglie ceco, si incrociarono con i contingenti precedenti da Theresienstadt che erano stati mandati a Birkenau tre mesi prima, nel settembre del 1943.

    I prigionieri di settembre avevano un vantaggio rispetto ai nuovi arrivati, perché fu loro permesso di tenere alcuni dei propri abiti – sporchi e trasandati dopo tre mesi di vita nel campo, ma pur sempre di loro proprietà. Più di mille erano già morti per fame, malattie e lavori forzati, ma chi era ancora vivo ormai aveva compreso quali fossero le indicibili condizioni di un campo di concentramento.

    I due gruppi vissero insieme nei Blocchi sovraffollati per altri tre mesi. Il primo giorno di marzo a entrambi i carichi – quello arrivato a settembre e quello dei nuovi, di dicembre – fu concesso di scrivere una cartolina di venticinque parole in stampatello. Una settimana dopo, il gruppo di settembre fu selezionato per marciare verso l’adiacente Campo della quarantena. Durante il giorno, ebbero il permesso di andare in giro e gridare messaggi ai propri amici dall’altro lato del recinto elettrificato. Di sera vennero chiusi nelle baracche e di notte furono caricati su grossi mezzi militari e portati via.

    Durante quella terribile notte nessuno degli appartenenti al carico di dicembre riuscì a dormire. Alex Ehren osservò il Campo della quarantena attraverso una crepa nel muro, rannicchiato a quattro zampe come un animale. Fino a quella notte c’era stata la gente di settembre al comando: erano stati designati come responsabili dei Blocchi, scrivani, kapò, cuochi e capi delle varie squadre di lavoro, mentre i nuovi arrivati lavoravano sulla strada e dragavano i fossati. Le voci dicevano che i prigionieri nel Campo della quarantena sarebbero stati mandati in un campo di lavori forzati in Germania, ma allo stesso tempo giravano sussurri, cupi e spaventevoli, secondo i quali sarebbero stati messi a morte. Giravano sempre delle voci. Come le maree, andavano e venivano ogni mattina. Si diffondevano di bocca in bocca e di orecchio in orecchio finché non morivano e non venivano sostituite da altre.

    «Un uomo in guardiola ha sentito parlare le sentinelle tedesche».

    «Che cosa dicevano?»

    «Che andranno a Heydebreck. Un campo di lavoro».

    «Mietek il polacco dice che non c’è nessun treno. E non ci sono uniformi da prigioniero. Non farebbero mai partire un carico con indosso solo stracci».

    «Daranno loro dei vestiti quando arriveranno al nuovo campo».

    «Perché le cartoline?»

    «Per dimostrare che i morti sono ancora vivi», disse Fabian. «Perché mai altrimenti ci avrebbero ordinato di datare le cartoline una settimana più avanti?»

    «È perché la posta passa per le mani di un censore».

    «Un po’ di tempo fa un ufficiale tedesco ha fatto scrivere un rapporto a Fredy Hirsch, il responsabile del Blocco dei bambini. Perché un ufficiale delle SS dovrebbe fare tutta quella strada da Berlino per sapere come stanno dei mocciosi ebrei?»

    «Un ufficiale?»

    «L’Obersturmbannführer delle SS Eichmann, dicono. Ha parlato con Miriam e ha portato una lettera a Edelstein, l’ex dirigente del ghetto. Forse i bambini verranno scambiati».

    «Con cosa?»

    «Con dei prigionieri di guerra tedeschi. Con degli autocarri. Non ci hanno forse permesso di tenere i capelli? E poi non indossiamo le uniformi a righe dei prigionieri».

    Fabian serrò le labbra. «Indossiamo degli stracci con una riga di vernice rossa sulla schiena».

    «Non hanno separato le famiglie».

    «Così potranno mandarci insieme su per il camino».

    A volte Alex Ehren si stancava di Fabian e delle sue oscure profezie. Fabian era un ometto con il naso appuntito e gli occhialini, che era riuscito a conservare dopo le docce. Una delle lenti era rotta e lui la puliva sempre come se potesse riparare la crepa. Tutti cercavano di farlo stare zitto, di evitare la sua compagnia, ma la baracca era affollata e dovevano sopportarlo così come si deve sopportare un mal di denti.

    Quando i prigionieri di settembre furono rinchiusi nel Campo della quarantena, seguirono ore di caos, ma verso mezzogiorno Willy, il responsabile del campo tedesco, nominò dei nuovi dignitari tra chi era rimasto del contingente di dicembre. La domenica prima Willy aveva organizzato una partita di calcio sulla strada fangosa del campo e ora stava nominando i giocatori e le rispettive mogli come nuovi responsabili di Blocco, cuochi e capisquadra delle squadre di lavoro. Alex Ehren osservò il nuovo responsabile del Blocco arrampicarsi sul comignolo orizzontale e camminare su e giù, agitando il bastone a destra e a sinistra. Era un eccezionale giocatore di calcio, un ragazzo massiccio con un ciuffo di capelli biondi che gli ricadeva sulla fronte.

    «Chiunque verrà sorpreso fuori dal Blocco verrà giustiziato a colpi di pistola».

    Non era abituato alla sua nuova autorità e aveva la voce tesa e squillante. Picchia o vieni picchiato, pensò, osservando i volti nelle cavità delle cuccette. Aveva a malapena diciott’anni e se non avesse ricevuto il nuovo incarico sarebbe morto lavorando nei fossati. Guardò i propri zoccoli di legno, che ben presto avrebbe sostituito con scarpe vere e proprie. Ora era ricco perché quelli del suo grado ricevevano la zuppa prima che i prigionieri avessero la propria razione. E in cambio di una ciotola di zuppa avrebbe potuto avere una donna. Era ancora vergine e quando pensava a una ragazza non ne vedeva il viso e non ne udiva la voce, ma si concentrava sui seni e sulle parti intime. E più pensava alle donne, più il suo tono di voce si faceva alto e febbrile.

    Non avevano il permesso di uscire dalle baracche, ma attraverso la crepa Alex Ehren vide il fumo azzurro degli autocarri nel Campo della quarantena. Le SS si spostavano in gruppo e i kapò con le casacche a strisce battevano sulle porte delle baracche.

    «Guarda», disse Beran, con la voce intrisa di paura, «se ne vanno». Illuminati dalle chiazze di luce, i kapò guidavano le mandrie di prigionieri verso gli autocarri. Non era una partenza ordinata, ma piuttosto una fuga dai bastoni e dai denti dei pastori tedeschi. I prigionieri inciampavano nell’improvviso bagliore accecante e svoltavano a destra e a sinistra nel tentativo di restare vicini ai propri amici. I kapò li colpivano per radunarli e, quando un autocarro era ormai stipato di uomini, donne e bambini, chiudevano il portellone sul retro e frustavano gli altri per dirigerli verso un altro veicolo. Era una scena di caos e disperazione e Alex Ehren sentiva il cuore in gola. C’era un bambino che era rimasto solo in mezzo alla strada e il kapò lo sollevò per restituirlo alla madre. Una donna con i capelli che le fluttuavano intorno alla testa come un alone cupo cercò di forzare il cerchio delle sentinelle, ma un soldato la colpì con il calcio del fucile e il suo viso si tinse del rosso cremisi del sangue. Si udì un frastuono, un tumulto che raggiunse le baracche laddove Alex Ehren teneva l’occhio premuto contro la crepa. Era un rumore di disintegrazione e confusione totale, di autocarri che si sforzavano di liberarsi dalla melma, di kapò che gridavano, una Babele di lingue, di ordini in tedesco e latrati di cani, sempre più agitati. Ma soprattutto era il rumore della gente, un rumore che, come l’acqua che cade da una scogliera, era carico di terrore e dissonanze. Gli autocarri partirono e il Campo della quarantena, illuminato dai fari, rimase deserto. Eppure si percepiva ancora la loro presenza sul terreno, disseminato di cappelli stracciati e scarpe e cappotti, di ciotole per il pranzo e un giocattolo lasciato indietro da un bambino.

    «Ascolta», disse Beran sollevando il mento. «Cantano».

    E in effetti, dagli autocarri stipati di persone, sotto i teloni grigi, si levavano le note di un canto. Non era una melodia sola, ma un suono fatto di tre inni diversi: l’inno ceco Kde domov můj, quello ebraico HaTikvah e L’internazionale comunista. I tre canti trasportavano sonorità diverse, erano in tonalità dissonanti e seguivano ritmi divergenti, ma secondo Dezo Kovac, che era un musicista, erano una sorta di fuga, che si intrecciava e si fondeva e creava una spirale di suoni sempre più forte. Gli autocarri ormai erano così lontani che Alex Ehren non riusciva più a sentire il rombo dei motori. Eppure il canto era ancora là, come il ronzio di una zanzara, e si faceva più acuto e più debole come se provenisse da una grande distanza. E poi ne rimasero soltanto l’eco e il ricordo, come se quelle persone non avessero cantato con la voce, ma con le proprie vite, le anime e i cuori che si rifiutavano di essere dimenticati. Quando moriranno, pensò Alex Ehren, non lasceranno niente dietro di sé, a parte le loro scarpe rotte e una bambola nel fango della strada del campo. Non una tomba, né una lapide, perché anche noi, che siamo stati gli ultimi a sentire il loro canto, li seguiremo. E anche quelli dopo di noi moriranno e si trasformeranno in fumo, finché non sarà rimasto più nessuno a ricordare. Era sopraffatto dal terrore del non essere, dal vuoto della morte, dall’oblio più totale, e così disse: «Io non canterò».

    Fu in quel momento che l’idea dell’insurrezione nacque nella mente di Alex Ehren. Non avevano armi, né un’organizzazione, né un leader. Lui era malnutrito ed esausto per via del freddo e della fatica di trasportare in spalla grosse pietre. Eppure continuava a ripetere, ancora e ancora: «Io non canterò».

    «Sciocchezze», ribatté Fabian, allontanandosi dalla crepa. «Alla fine tutti cantano. Alcuni prima e altri dopo, ma quando esce il tuo numero ti tocca andare. Guarda la storia. Non ho mai sentito parlare di qualcuno che non sia morto. Prima o poi. Non fa alcuna differenza».

    Beran, che conosceva la matematica e aveva la capacità di pensare in maniera ordinata e consapevole, si stese supino nella sua cuccetta.

    «I tedeschi non sono stupidi. Perché uccidere della manodopera a basso costo se possono metterci al lavoro? Hanno una guerra da combattere e hanno bisogno di mani che lavorino nelle loro fabbriche. O nei campi. Non nutrirebbero dei prigionieri per sei mesi per poi spedirli su per il camino. Non ha senso».

    Si voltò dall’altra parte e chiuse gli occhi. Pensò alla moglie, al suo collo e al suo addome e alle poche volte che erano stati insieme. Si erano sposati in tutta fretta quando lui era stato convocato, perché era l’unico modo per permettere a Sonia di unirsi al convoglio. Non erano nello stesso Blocco ma si incontravano dopo il lavoro sulla strada del campo. Beran pensava alla moglie con affetto e quando lei gli portava una ciotola di zuppa, che nascondeva sotto il cappotto, parlavano insieme del futuro. Che tipo di appartamento avrebbero affittato, quali quadri avrebbero appeso alla parete e quali piatti Sonia avrebbe preparato. Lei aspettava, piegando il capo nella pioggerella leggera, finché Beran non finiva di mangiare. Era addetta al trasporto del cibo, quindi aveva il permesso di grattare i barili prima di riportarli in cucina. Era un lavoro duro perché gli addetti dovevano indossare delle imbragature di tela e sollevare i barili su pali di legno. Arrancavano in mezzo alla melma della strada da una baracca all’altra per distribuire il tè e la zuppa di mezzogiorno e, la sera, di nuovo il tè surrogato. Era freddo e gli zoccoli di Sonia erano incrostati di fango. Spesso era esausta e tutta dolorante, ma attendeva sempre con ansia la sera, quando Beran mangiava la sua ciotola di poltiglia fredda.

    Talvolta, nelle giornate buone, trovava un pezzo di patata sul fondo del barile, ma alcune donne erano come uccelli rapaci e arraffavano sempre le barbabietole prima che lei potesse accaparrarsele. Beran divorava la zuppa riparato dal corpo di lei e, nell’intimità dei muri tra le baracche, lei gli posava la mano sul polso. Sapeva di essere una ragazza semplice, con un ammasso di capelli selvaggi e il naso grosso, ma in quel momento si sentiva quasi bella, perché il contatto delle loro mani era un vincolo d’amore. Era appena un contatto leggero, il tocco di una farfalla, perché nel campo donne e uomini non avevano il permesso di entrare in intimità. Eppure lei si sentiva confortata come se la forza di lui le scorresse nel sangue. «Un giorno», le diceva lui a bassa voce, «la guerra finirà. Corre voce che i tedeschi siano stati sconfitti a Stalingrado».

    Lei non mangiava mai la zuppa che grattava via dal fondo del barile, la portava sempre a Beran. A volte, quando non ce n’era abbastanza per riempire la ciotola, ne aggiungeva un po’ prendendola dalla propria razione. Amava osservarlo mangiare, perché in quel momento era solamente e squisitamente suo.

    La notte degli autocarri portò dei vantaggi al contingente di dicembre. Non sapevano quante persone fossero state portate via ma Rudi, l’archivista slovacco del Campo della quarantena, sosteneva di aver visto le liste.

    «C’è sempre un numero», disse. «I tedeschi sono ossessionati dai dettagli e dal fatto che tutto venga registrato. C’erano tremilasettecentonovantadue prigionieri in partenza per Heydebreck».

    Contorse la bocca in un sogghigno.

    «Heydebreck, dicono loro, ma chi ci crede alle SS?».

    Era un giovane con il collo e le spalle massicci e pensava alla ragazza che aveva cercato di attaccare un soldato prima di essere uccisa. Soltanto una manciata di prigionieri si era ribellata alle sentinelle ed erano tutti stati picchiati a morte.

    «Non ha alcun senso combatterli», disse. «Bisogna solo scappare».

    «Come si fa a scappare da qui?». Alex Ehren osservò il recinto, il fossato e i soldati sulle torrette di guardia.

    «Tu guarda me», disse Rudi, sorridendo.

    D’un tratto c’era abbastanza spazio nei Blocchi. Alex Ehren si spostò insieme a Fabian e a Beran in una cuccetta vuota con un mucchio di coperte abbandonate. Se ne avvolse una intorno al corpo e si distese sotto il tessuto morbido, al caldo, comodo e compiaciuto, senza preoccuparsi del fatto che la lana avesse ancora addosso il respiro del precedente proprietario. Un proprietario che avrebbe potuto essere ancora vivo, pensò, e magari tornare la mattina seguente a reclamare la coperta. Si tenne la lana stretta al petto, riluttante all’idea di separarsene. Non provava rimorso, né pena, né compassione per il morto. Che cosa sono, pensò, un uomo, un mostro, una pietra? Come parlerei a quell’uomo se d’un tratto si presentasse alla baracca?

    «Non tornerà. Una volta che sei morto, sei morto per sempre», disse Fabian.

    Per circa una settimana aleggiò sul campo un clima di abbandono. Ci volle un po’ di tempo per abituarsi allo spazio nelle cuccette, al calore delle coperte olandesi, al nuovo responsabile del Blocco, e persino al Blocco mezzo vuoto delle latrine, dove Alex Ehren di solito attendeva dolorosamente in fila per trovare un posto libero.

    «Goditela finché puoi», gli disse Fabian. «Un pezzo di pane, una coperta, un lavoro migliore. Per quanto ancora vivrò? Una settimana, un mese, un anno? Qualunque sia la risposta, la vita è troppo breve per sprecarla facendosi degli scrupoli. Perché inseguire la parte migliore di te stesso? Non esiste un io migliore o peggiore, esiste solo un unico io che merita di essere coccolato come un bambino. Finché dura. Perché angosciarsi per la coperta di un uomo morto? Ciò che conta è restare vivi, perché è tutta qui la questione. Che c’è di male nell’essere un furfante e restare vivo? Quando sei morto a nessuno importa un fico secco se eri un angelo o una canaglia. Coscienza? Moralità? Col cavolo. Guarda Madre Natura. Mostrami un ratto onesto, un lupo misericordioso, un rapace dall’animo gentile. O un albero. Gli alberi crescono e soffocano le margherite ai loro piedi. La considerazione e l’onestà sono un’invenzione dei deboli. Non hai mai camminato in una foresta? Le chiome sono verdi e sotto è un cimitero. Perché io dovrei essere diverso da un albero? È questione di vita o di morte e chiunque sia più forte prevale. Preferirei essere un albero piuttosto che un giglio morto della vallata. Onesto, modesto e morto».

    Fabian pensò a suo padre, che era deceduto quando lui era un bambino… aveva quattro o cinque anni, ma non lo ricordava con esattezza. Era cresciuto in un orfanotrofio in cui aveva imparato i trucchi della sopravvivenza. Si chinò in avanti come se stesse per svelare un segreto.

    «Approfitta di quello che c’è. È un posto marcio, ma in un certo senso è meglio del mondo là fuori. Almeno i tedeschi ci hanno resi tutti uguali. Il fumo del ricco puzza proprio come quello del mendicante».

    Fu un discorso lungo e Fabian si sentì imbarazzato per aver detto troppo. Si tolse gli occhiali e strofinò le lenti crepate.

    «A tutti capita di odiare il proprio padre a volte», disse Beran. Era alto e sgraziato e camminava come se avesse la testa un passo più in là del corpo. Però era gentile e sapeva ascoltare.

    L’indomani, a mezzogiorno, Fabian afferrò Alex Ehren per la manica. «Gli insegnanti se ne sono andati quasi tutti e servono nuove persone nel Blocco dei bambini. Sarò anche un furfante ma non dimentico gli amici. Dopotutto sei stato tu a trovare le coperte abbandonate». E rise.

    Era l’unico Blocco dei bambini di quel tipo ad Auschwitz. Non assomigliava affatto a quelli di Buna o di Monowitz, e nemmeno a quello del Campo centrale, dove le baracche erano costruite in solidi mattoni rossi e avevano finestre vere e proprie. C’erano altri campi, per esempio il Campo degli zingari o quello delle donne, in cui i bambini dormivano in baracche speciali prima di essere mandati a morire. Tuttavia nessuno di essi assomigliava al Blocco dei bambini del Campo famiglie ceco, dove i piccoli trascorrevano le giornate insieme agli insegnanti e alle guardiane.

    Mietek, che viveva nei campi di prigionia sin dalla guerra polacca, sosteneva che non esistessero campi simili da nessuna parte all’interno dei territori conquistati dai tedeschi, dalle ampie distese dell’Unione Sovietica ai deserti della Libia in Africa, fino all’Estonia e alla Lettonia nel Mar Baltico. Il Blocco dei bambini era stato istituito in ottobre, tre mesi prima che Alex Ehren arrivasse al Campo famiglie. Il dottor Mengele, il medico delle SS, aveva requisito le baracche più distanti della fila e incaricato Fredy Hirsch di gestirle. Arno Boehm, che indossava il triangolo verde in quanto condannato per omicidio, arrivò al Blocco, osservò le baracche e schioccò la

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