L'ultimo incubo di Kafka
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Praga, 1914.
Il giovane Jozef Drohac, membro del Klub Mladych, un’associazione di ispirazione anarchica e pacifista, viene trovato impiccato. Suicidio, conclude la polizia. Una spiegazione che sembra convincere tutti, inclusi gli altri membri del Klub. Tutti, tranne Franz Kafka. Lo scrittore non riesce a capacitarsi. Jozef non aveva alcun motivo di togliersi la vita, e nella dinamica del suo supposto suicidio ci sono diversi particolari che non tornano. Ma Franz sembra essere il solo a notare queste stranezze: che siano solo il frutto della sua mente troppo immaginifica? Quando altri due membri di spicco del Klub muoiono in circostanze poco chiare, Kafka capisce che qualcosa di oscuro è all’opera, una macchinazione che sembra voler colpire tutti i principali oppositori del governo militarista imperiale. E mentre le notti praghesi si ammantano di sospetti e di paranoie, Franz si rende conto che anche lui potrebbe essere in pericolo…
Paolo Cortesi
È scrittore e saggista. Il suo romanzo Il patto ha riscosso un notevole successo di critica e pubblico. Tra i numerosi libri pubblicati con la Newton Compton ricordiamo: Misteri e segreti dell'Emilia Romagna; Forse non tutti sanno che in Emilia Romagna…; Guida insolita ai misteri, ai segreti e alle curiosità dell'Emilia Romagna, Luoghi segreti da visitare in Romagna e Le grandi profezie che hanno cambiato la storia.
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L'ultimo incubo di Kafka - Paolo Cortesi
Indice
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
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Prima edizione ebook: luglio 2021
© 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-5147-8
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma
Paolo Cortesi
L’ultimo incubo di Kafka
OMINO.jpgNewton Compton editori
L’unica cosa giusta è quella di contentarsi della situazione esistente. Anche se fosse possibile migliorare alcuni particolari – ma è un pregiudizio insensato – nella migliore delle ipotesi si potrebbe ottenere qualcosa per casi futuri, mentre si danneggia se stessi smisuratamente perché si è attirata la particolare attenzione della burocrazia, sempre vendicativa. Mai attirare l’attenzione! Starsene tranquilli, anche se si va contro ragione! Cercare di capire che questo grande organismo in un certo senso resta sempre in sospeso e che, se si muta qualcosa in modo autonomo, ci si scava il terreno sotto i piedi e si rischia di precipitare, mentre il grande organismo anche per il piccolo incomodo trova facilmente la soluzione – poiché tutto è collegato – e resta immutato, quando non diventa, ciò che è probabile, ancora più chiuso, ancora più attento, ancora più forte, ancora più malvagio.
Franz Kafka, Il processo, cap. VII
Al lettore: Tutte le notizie e i personaggi storici presenti in questo romanzo, come pure i riferimenti biografici di Kafka e della sua famiglia, sono autentici.
Veritiera è pure la ricostruzione della Praga del 1914; per ricreare un’ambientazione più completa e fedele alla realtà, anche dettagli quali i giornali, le marche di sigarette o i tipi di automobili non sono di fantasia, ma documentati.
La vicenda di cui Kafka è protagonista è finzione narrativa, tuttavia filigranata da elementi storici reali come, ad esempio, il Klub Mladych, il giornale «Pijemont», l’assassinio del re di Serbia e le grandi manovre militari in Bosnia del giugno 1914.
L’autore ha inventato un universo parallelo in cui Franz è stato, oltre al meraviglioso scrittore dell’assurdo, un eccellente investigatore.
1
Nel tardo mattino di sabato 28 marzo 1914, a Praga, nel cimitero Vysehrad, si tenne il funerale di Jozef Drohac.
C’erano quasi tutti i soci del suo club, il Klub Mladych. La madre era al braccio di Klara, la sorella di Jozef. Ogni tanto, la donna era come sommersa da un’enorme onda invisibile e iniziava ad afflosciarsi; così la ragazza la sorreggeva, la stringeva a sé cingendole la vita con le braccia, e questo era come un segnale per la madre: si sforzava di restare in piedi, apriva gli occhi e riprendeva a guardare davanti a sé.
C’erano molti parenti di Jozef, cugini, zii.
Non c’era suo padre Viktor, e non perché non avesse retto allo schianto per un figlio di trentun anni che si suicida impiccandosi, ma perché non voleva partecipare al funerale di chi – così atrocemente, pensava – lo aveva per anni disonorato.
Viktor Drohac era il proprietario di un grande negozio di scarpe, lucente su due piani di vetri e ottone, sulla bella Ferdinandstrasse.
Per Viktor fu sempre incomprensibile come suo figlio, il suo unico maschio, fosse diventato socialista e antimilitarista.
Eppure, pensava di avergli dato la migliore istruzione. Gli aveva insegnato il saluto alla bandiera e a buttare baci all’immagine dell’imperatore Francesco Giuseppe che teneva appesa in sala da pranzo. Al figlio diventato ragazzo, Viktor aveva spiegato come si sta al mondo. Pensa, gli diceva, a una scala altissima: in alto, proprio in cima, c’è l’imperatore perché lì ce lo ha fatto nascere il nostro Signore Iddio, e se ce lo ha messo vuol dire che ci deve stare per il bene di tutti. Poi si scende, giù giù giù, e si arriva all’ultimo gradino dove stanno i socialisti e gli anarchici.
Un giorno, quando il padre gli parlò con più foga degli anarchici e dei socialisti che volevano uccidere tutte le famiglie come la famiglia Drohac, Jozef gli chiese come si potevano riconoscere questi nemici, per potersi difendere.
«Sono i poveri», disse Viktor. «I poveri ci odiano. Per fortuna c’è chi ci difende: i soldati e la polizia».
Gli anni passarono; la rabbia cieca di suo padre contro i poveri diventava più maligna e ossessiva, ma Jozef vide anche che non accadeva mai nulla di quello che il genitore diceva fosse imminente e inevitabile: nessuno tagliava le gole dei ricchi, nessuno depredava negozi, nessuno buttava bombe contro le caserme. Così, a vent’anni, Jozef Drohac cominciò a pensare che le certezze livorose di suo padre fossero solo idee sue, fossero il mondo che aveva in testa, non quello vero. Iniziò a leggere i libri che gli aveva proibito: così Jozef Drohac diventò socialista, apprezzò l’anarchia e riconobbe l’orrore del militarismo.
Fu tra i fondatori del Klub Mladych, un’associazione di giovani praghesi socialisti e anarchici che discutevano sulla necessità della rivoluzione e su come si poteva realizzarla, tra i cui soci più assidui c’era Franz Kafka, che era stato incaricato di tenere il discorso funebre per Jozef.
Nonostante fin dalle prime ore del mattino fosse certo che quella sarebbe stata una giornata calda, Kafka aveva scelto un completo di mezza lana tutto nero. Era l’abito più scuro che possedeva. Sulla figura nera, esile e immobile, si stagliava, all’occhiello, un garofano rosso che sembrava il buco in un muro nero dietro il quale ardevano braci.
Franz Kafka aveva un anno più di Drohac, eppure sembrava molto più giovane. Jozef era robusto; qualche ragazza lo avrebbe definito anche troppo robusto. Collo grosso, mascella larga e tonda, mani grandi e spesso sudate. Aveva la barba fitta, ispida.
Kafka era piuttosto scuro di pelle, non solo perché amava la vita all’aria aperta, era un bravo nuotatore e giocava a tennis. Lui stesso era incuriosito da questa stranezza; quand’era di buon umore, diceva di essere un pellerossa americano e come un pellerossa era quasi glabro. I capelli, nerissimi e lucidi per un velo di brillantina, avevano la riga al centro. Il naso aquilino era piuttosto grosso alla fine, largo tra gli zigomi pronunciati. Le orecchie erano grandi e ben distaccate dal cranio, e grandi erano pure i piedi, che si notavano subito anche per la magrezza delle gambe.
Trasformate dalla gran luce del sole alto, le lapidi del cimitero davano l’impressione di essere leggere, fragili addirittura. La pietra, il marmo, i mattoni sembravano scenografie di teatro e si poteva credere che se si fosse levato il vento, avrebbe disperso tutto. Anche gli alberi e i cespugli erano come trapassati e svuotati di materia dalla luce, che nemmeno una nuvola rallentava giù dal cielo.
Stranamente, Kafka non sudava. A un cenno dell’amico Max Brod, andò accanto alla tomba coperta da mazzi e corone di fiori, quasi tutti rossi. Mise le mani una sull’altra, le braccia distese davanti al corpo. Senza guardare nessuno dei presenti, senza chinare la testa, era rivolto a un punto così lontano e indistinto che pareva parlasse al morto.
«Ogni giorno, da oggi, sarà più difficile per ciascuno di noi. Chiunque ha avuto il privilegio e la gioia di conoscere Jozef sa quanto sarà dolorosa la sua mancanza».
Parlava a voce appena più alta del solito. Chi non sentiva, avrebbe chiesto più tardi cosa aveva detto, ma non avrebbe mai osato disturbare quel momento di commozione.
«Ciascuno di noi, da oggi, è ancora più impegnato a sostenere gli ideali ai quali Jozef ha dedicato la sua vita».
Per mostrare che aveva finito, Kafka si allontanò di un passo dal luogo che aveva occupato parlando.
Il discorso fu davvero troppo breve. Qualcuno disse sottovoce al vicino che era stato un errore incaricarlo come oratore, si sapeva che era timido. E tuttavia molti furono segretamente contenti che la cerimonia fosse finita, perché il caldo era sempre più forte; l’aria sembrava uscire dalla bocca di un forno rovente.
2
Tornava a casa da solo. Era quello che desiderava, e lo avrebbe detto anche al suo più caro amico perché non lo accompagnasse.
Franz Kafka camminava lentamente, non aveva voglia di rientrare a casa. Prevedeva ogni dettaglio del suo ritorno: il suono della serratura aperta, l’odore che lo avrebbe accolto, la sedia nella sua camera e il libro che vi avrebbe trovato dalla sera prima.
Camminava lentamente e ricordava, tra cento idee che si accavallavano e si disfacevano, che un tempo aveva pensato al suicidio, quando la teoria dei giorni che avrebbe dovuto vivere prigioniero di un lavoro odioso (nella fabbrica di amianto del cognato) gli appariva un’infinita sequenza di dolore. Ora che aveva avuto esperienza di chi si era ucciso veramente, Kafka comprendeva che non era mai stato intenzionato a sopprimersi davvero; era invece una rassicurazione, un’idea di fuga e di difesa. In effetti, non si era mai immaginato cadavere sfracellato dalla finestra. Non aveva cioè mai pensato davvero alla sua morte (al suo stato di cadavere), bensì alle conseguenze che avrebbe avuto sugli altri la sua spaventosa decisione: così, il suo suicidio, riguardava più la vita degli altri che la sua. Si domandò perché venisse considerato generalmente folle il suicidio, l’insano gesto; mentre tutto ciò che accadeva in vita, anche le condizioni più atroci, era ritenuto preferibile al darsi la morte.
Tutto ciò è assurdo, pensò Kafka, e un istante dopo si chiese se lo aveva solo pensato, o anche pronunciato. Si guardò attorno, per vedere se qualcuno lo stesse guardando.
Il caldo era aumentato. Nei caffè, sui tram, nei negozi e nelle birrerie l’argomento principe era la primavera straordinariamente calda. Kafka ascoltava con vero interesse le conversazioni che si accendevano; non gli interessava ciò che dicevano le persone (che del resto erano i soliti proverbi sul tempo), ma gli piaceva sentire come raccontavano e come sostenevano le loro opinioni, come queste si incontravano e si incrociavano e si trasformavano a vicenda, si fondevano e si scavalcavano come correnti diverse in uno stesso fiume.
Kafka allentò il nodo della cravatta e sbottonò il colletto della camicia. Solo ora cominciava a sudare. Imboccò una strada stretta tutta in ombra. Appariva come una fessura tagliata in mezzo a una alta collina. Sotto a molte finestre, pendevano panni ad asciugare; restavano immobili, verticali, nello spazio senza vento. Nella penombra sembravano tavole di legno, oggetti pesanti.
La frescura si distese sul suo volto come un velo bagnato. L’odore aspro di urina negli angoli gli fece accelerare il passo.
Vide il portone di casa. La mano destra, in tasca, stringeva le chiavi. Le chiavi che usava dal novembre 1913 e che avrebbe usato ancora per chissà quanto tempo. Le chiavi che teneva in un modo consueto, invariabile: quella del portone stretta fra pollice e indice, con l’impugnatura schiacciata da medio e anulare proprio sotto la base del pollice, mentre le altre due (il cancello di ferro battuto e la porta delle cantine) pendevano parallele sotto il mignolo ripiegato.
E sapeva precisamente come avrebbe infilato la chiave nella toppa, come avrebbe mosso braccio e mano, come avrebbe spinto la porta, come avrebbe fatto i primi tre passi entrando nel corridoio d’ingresso.
Una volta, proprio per spezzare questa sequenza di movimenti sempre identici, volle aprire con la mano sinistra ed entrò in casa camminando all’indietro.
Fu una sciocchezza, solo per riderne. Ma la sera stessa, in una delle tante lettere che scriveva tutti i giorni a Felice, la sua fidanzata, le disse che non avrebbe mai più ripetuto questo gioco.
3
Lo rinfrancava sapere che non avrebbe incontrato nessuno in casa. A quell’ora (era quasi mezzogiorno), sua madre Julie era ancora fuori per commissioni. Certi acquisti li voleva fare personalmente, e anche se la serva era una ragazza sveglia e capace, solo lei conosceva alcuni negozi e non glieli aveva ancora rivelati. Il padre, il difficile Hermann, era ancora al caffè, dove gli piaceva fare conversazione, anzi guidare la conversazione, dare pareri e giudizi, commentare e prevedere, convinto non solo di averne diritto per la sua qualità di commerciante di successo, ma sicuro che tutti i presenti glielo riconoscessero, con ammirazione, forse con invidia. La sorella Ottla (che nessuno in casa chiamava col suo nome Ottilie) era con la mamma, o con un’amica, o in biblioteca per i suoi studi di agronomia.
Ottla era la sorella preferita di Franz, che non avrebbe mai voluto cercare di spiegarsi perché. Era mite, serena, fiduciosa, indulgente. Era l’ultima delle sue tre sorelle; sebbene avesse ventidue anni, nove meno di