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Cento grammi di pane nero
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E-book538 pagine7 ore

Cento grammi di pane nero

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Info su questo ebook

Letizia Rocchi osserva, con gli occhi della bambina che è stata prima e quelli dell’adolescente che è divenuta dopo, lo svolgersi della vita familiare nel quartiere Esquilino di Roma, a partire dai primi anni del 1930 fino a quelli successivi la Seconda guerra mondiale. Il suo sguardo retrospettivo ripercorre con emozione gli accadimenti del contesto familiare e quelli più vasti del mondo che la circonda per descrivere con puntualità i tempi, rievocati dalla memoria, destinati a risvegliare ricordi comuni a molte persone. Odori e suoni susciteranno memorie in chi leggerà queste pagine, come le sirene che, rompendo il silenzio, annunciavano distruzione e morte. La descrizione molto viva delle abitazioni del tempo, del mercato e dei negozi del quartiere, i particolari della vita quotidiana di una famiglia numerosa, quando essere sorelle, figlie, amiche e compagne di scuola aveva un valore determinante, si fonda con elementi storici dell’epoca, a volte nei tempi recenti dimenticati, dando completezza e sapore al racconto. Il ciclo dei ricordi delle distruzioni della guerra mondiale coinciderà con quello della dolorosa e inevitabile disgregazione della famiglia, lasciando un senso di amaro e di nostalgia a cui si affianca anche una speranza per il futuro.

Letizia Rocchi (Roma, 1927), scrittrice, pittrice e scultrice autodidatta, ha svolto con passione l’insegnamento e il volontariato. Dopo essersi occupata per alcuni anni, in età giovanile, della famiglia d’origine, con il matrimonio è divenuta madre e, dedicandosi completamente alla famiglia, ha dovuto sacrificare le sue naturali passioni artistiche. In età avanzata ha scritto questo libro per raccontare e trasmettere il vissuto di una famiglia nell’epoca storica del fascismo e della Seconda guerra mondiale. Vive in Svizzera, circondata dai suoi affetti e dai suoi cani. Benché ipovedente, scrive ancora racconti e fiabe.
LinguaItaliano
Data di uscita29 feb 2020
ISBN9788830618374
Cento grammi di pane nero

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    Anteprima del libro

    Cento grammi di pane nero - Letizia Rocchi

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-1837-4

    I edizione elettronica febbraio 2020

    www.letiziarocchi.com

    A rispetto della privacy i nomi delle persone citate nel libro sono di pura fantasia ed ogni omonimia è puramente casuale

    Alla memoria di mia sorella Anna e a tutti coloro che ho amato e amo

    Il ricordo della felicità non è più felicità. Il ricordo del dolore è sempre dolore.

    Lord Byron

    Introduzione

    Nell’attuale solitudine dei miei ottantasei anni spesso il pensiero mi riporta a immagini del passato vissuto assaporando, nel riso e nel pianto, i momenti di cui è stato costellato.

    Volendo fissarne la memoria ne ho voluto scrivere gli argomenti in brani leggibili anche singolarmente. Il mio lavoro è iniziato con l’intenzione di dare alla presenza del pane il compito di fare da filo rosso lungo un percorso con e tra immagini rievocate dalla memoria. Lì, in un tempo ormai per me molto remoto, i ricordi sono stati depositati in assenza di coscienza, senz’alcun intervento della mia volontà. Coprono un tratto di tempo, che va dal 1934 al 1946, vissuto da una bambina che tra tante vicissitudini cresce per affacciarsi alla soglia della maturità.

    Per fare riaffiorare alla memoria eventi così remoti ho operato come un’archeologa. Ho frugato nei labirinti cerebrali e, con emozione, li ho trovati ed estratti dai meandri nei quali erano annidati per portarli in superficie. Li ho spolverati dagli eventuali e possibili inganni della memoria per vederli e riviverli con maggiore nitidezza. Poi ho dovuto inserirli nel tempo a cui appartengono per poterli a quel punto osservare nei particolari. Li ho risuscitati per risentirne le emozioni con cui i diversi momenti sono stati allora vissuti. Rievocandoli ho potuto considerarli con la consapevolezza e le conoscenze intervenute nel tempo e con gli occhi di oggi ho ricostruito i sentimenti di una bambina. Infine li ho riordinati per poterli raccontare cercando di proporli in maniera da farne partecipe chi leggerà queste righe.

    Eventi e momenti della mia vita, di diversa natura, sono raccontati percorrendo, ove possibile, un quadro cronologico che non segue un intreccio studiato e preordinato. Spesso racconto episodi che nel tempo della formazione giovanile di una identità personale hanno finito per condizionare inevitabilmente atteggiamenti della vita futura.

    Ho anticipato che la presenza del pane fa da filo conduttore al mio raccontare perché durante quegli anni il pane visse una profonda trasformazione nell’aspetto e nella quantità disponibile per persona. Altrettanto si deve dire per la sua presenza come alimento indispensabile allo sfamarsi, al crescere e al vivere degli individui. Quando ero ancora molto giovane, poco più che bambina, a mia sorella Anna espressi il desiderio, da lei condiviso, di raccontare della nostra vita giovanile, dei nostri sentimenti e delle nostre impressioni, dei nostri desideri e delle nostre delusioni. Mi ripromettevo di scrivere dei progetti realizzati e di quelli irrealizzati, dei successi raggiunti nella vita, che avevano ricevuto una gratificazione, e degli insuccessi, che l’avevano mortificata. Infine, alla conclusione del nostro percorso giovanile, avrei voluto volgere lo sguardo ai risultati positivi, ottenuti dal nostro impegno per il raggiungimento delle nostre aspettative, e a quelli negativi, che le avevano deluse.

    Poi lo scorrere degli eventi impedì la realizzazione del progetto che ci accomunava. Diversi anni fa, sollecitata dalla mia giovane amica Monica, avevo iniziato a scrivere qualcosa cominciando dagli eventi di Via Enrico Cialdini, i primi che i miei ricordi mi restituivano con un senso compiuto e non solamente come flashback. In quella occasione Anna che, più grande di me di quattro anni, aveva ricordi più chiari dei miei, mi mandò la piantina della casa di via Cialdini. Poi, ancora una volta, i problemi quotidiani e gli avvenimenti che nella vita si susseguono incalzanti, con soluzioni buone o cattive, spesso inevitabilmente anche molto dolorosi, mi hanno allontanato dal mio proposito di dedicare del tempo alla rievocazione di ricordi lontani per poterne scrivere. E poi ancora: cambiamenti di vita, nuove iniziative e impegni hanno sempre finito per prevalere sul vecchio caldeggiato proposito, obbligandomi a relegarlo tra le buone intenzioni irrealizzate.

    Ma dal momento che non è mai detta l’ultima parola, infine, in età molto avanzata, mi sono accinta a realizzare il vecchio progetto che mi accomunava ad Anna.

    Purtroppo da sola e non con lei, come desideravamo, avendomi Anna lasciata nel 2005, per tentare, anche se tardivamente, di realizzare il vecchio desiderio. E soddisfare, allo stesso tempo, la richiesta insistente, intervenuta più recentemente, di mia figlia Valeria perché non andasse definitivamente perduto un passato di vita che ha visto il susseguirsi di fatti e cambiamenti storici, sociali e culturali.

    Se avessi scritto insieme ad Anna della nostra vita giovanile, certamente il lavoro, oggi sottoposto agli occhi del lettore, ne avrebbe tratto un vantaggio considerevole. Sarebbe risultato sicuramente più ricco e completo anche per merito delle sue innegabili capacità. Ai miei si sarebbero aggiunti i suoi ricordi, così come lei li aveva vissuti. Avremmo potuto parlare di esperienze comuni ma anche dei sentimenti personali, diversi, con cui ciascuna di noi ha vissuto il proprio passato.

    I più lontani dei miei ricordi, di certo sono molto imperfetti, soprattutto rispetto ad alcune date in cui i fatti riferiti accaddero, altri incompleti rispetto a come gli altri membri della famiglia li hanno vissuti e fissati nei loro ricordi.

    Il mio viaggio nel passato, partito da un progetto limitato, ha però messo in moto la memoria, che ha rischiato di essere travolta dai tanti ricordi che hanno richiesto con insistenza il loro spazio e gridato il loro diritto ad esistere. Dipanarne la matassa non è stato compito facile, ma sarò lieta se alla fine sarò riuscita a non perderne la ricchezza e a dare colore ad immagini sbiadite dal tempo.

    Sbiadite come le sequenze di una vecchia pellicola che mostra le rughe degli anni trascorsi nel ritratto di persone e di ambienti. Sequenze destinate a denunciare il passato a cui appartengono nelle tonalità smorte e imperfette dei contorni, dei colori, dei chiaroscuri; nel tono delle voci che, non potendo più essere riascoltate dal vivo, appartengono ormai irrimediabilmente ad un ieri lontano, finito.

    Visioni, intraviste come attraverso un vetro appannato, degli usi e costumi superati dai tempi che continuamente trasformano il modo di vivere e la mentalità dell’uomo.

    Mi sono domandata: la memoria, che è sempre stata utilizzata dagli uomini per la trasmissione della storia, per favorire l’arricchimento del genere umano, anche degli usi e delle tradizioni, delle esperienze e del sapere, a quale utilità è destinata per la singola persona? Forse a morire con essa, se non se ne scopre prima il valore? Quale enorme materiale e ricchezza di esistenze è finito nel chiuso e nel nulla oscuro della terra e delle tombe nel corso dei millenni? Cosa vuol dire a me la memoria di un passato ormai remoto? E, infine, per quale personale utilità nella mia memoria è registrato un enorme bagaglio di eventi passati con le sensazioni, il pensiero, le emozioni, le esperienze, la sensibilità e le conoscenze di allora?

    A queste domande è possibile dare risposte diverse.

    Io so solo che, nell’accingermi a realizzare un proposito giovanile, ho potuto, in un certo qual modo, far rivivere un tempo che diversamente avrebbe avuto ben poche motivazioni per esistere ancora, vista la forte propensione dell’uomo al presente e all’avvenire.

    So però che, rievocando il mio passato, ho potuto donare, sia pure temporaneamente, una sorta di nuova vita alle persone che popolano la mia memoria, risvegliandone o ravvivandone la presenza con le immagini ricordate, riprovando sentimenti affettivi da tempo sopiti e chiarendo quelli fraintesi.

    Il riesumare episodi che hanno visto il ruolo svolto nella mia vita da persone che con la loro presenza l’hanno influenzata e addirittura determinata, mi ha fatto scoprire a volte valori che li riguardavano, che prima non avevo avuto la possibilità di mettere adeguatamente a fuoco.

    Questo ha agevolato la facoltà di approfondire il senso di alcuni rapporti che diversamente non avrei avuto modo di riesaminare, considerare e valutare nella giusta luce. Perché quando i ricordi rimangono soffocati, costretti come sono, molto spesso, a restare relegati in un angolo buio della nostra memoria, non consentono di essere rivissuti con un’ottica diversa che favorisca nuove considerazioni, lasciando così immutato il nostro vissuto a quando non si era in grado di valutarlo con maggiore consapevolezza. E sono contenta dell’opportunità che mi è stata offerta per rivolgere un pensiero grato a quelle persone cui forse a suo tempo, negli anni giovanili, non l’ho espresso sufficientemente.

    Così dico che, se la memoria registra, nostro malgrado, quanto è stato vissuto ed è in grado di restituircelo con sufficiente vivezza, la cosa non è fine a se stessa e vale la pena di ripercorrere ‘con l’aiuto dei ricordi’ il tempo della vita trascorsa, scrivendone per non fare morire con noi anche il nostro passato inserito nella storia.

    La storia del mondo e quella delle singole persone devono molto alla memoria da queste trasmessaci.

    Spero con questo mio lavoro, per quanto imperfetto, di riuscire a darvi un mio piccolo e modesto ma personale e appassionato contributo.

    Anno 2013

    C’era una volta una bella famiglia comunque felice,

    poi la mamma gravemente s’ammalò e tutto cambiò.

    La nuova abitazione

    Il primo cambiamento di casa, di cui ho il ricordo, si colloca intorno al 1934/35. La famiglia si trasferiva da Via Enrico Cialdini a Via Principe Amedeo. Ancor prima che a Via Cialdini, il nucleo familiare aveva abitato, a partire dal matrimonio dei miei genitori, sempre a Roma, provenendo da Palermo, dove risiedevano le loro famiglie d’origine. La giovane coppia di sposi inizialmente aveva abitato in Via dei Gracchi, credo con i genitori e il fratello più piccolo di mio padre. Lì la nuova famiglia con la nascita dei primi tre figli si era rapidamente ampliata. Prima che il nucleo familiare crescesse ancora di un altro componente avvenne il trasferimento in Piazza dell’Unità, non molto distante dalla precedente abitazione nel quartiere Prati. Praticamente solo un cambiamento di locali, non certo di quartiere. Nella seconda abitazione ho emesso i primi vagiti: mi chiamarono Letizia. La famiglia vi si trattenne solo due, al massimo tre anni. Non ne conservo che brevi deboli ricordi come tracce di un sogno in dissolvenza. Anche del successivo trasloco il ricordo è abbastanza vago. La famiglia andò a vivere in Via Enrico Cialdini, nel quartiere Esquilino, sorto sull’omonimo colle, presumo più affollato del precedente, ai margini della movimentata Stazione Centrale delle Ferrovie Romane, com’era stata chiamata la Stazione Termini fin dalla fine dell’ottocento. Le sue origini risalgono al 1862, al tempo di papa Pio IX. Lì i miei primi significativi ricordi coprono un arco di tre, quattro anni.

    Successivamente, presi di nuovo ‘armi e bagagli’, ancora un cambiamento. Un grande evento, significativo per la stabilità futura che prometteva.

    Ancora una volta, con la nuova abitazione in cui si entrava, ci si spostava solo di pochi isolati in direzione del complesso della Stazione Termini, che ha preceduto l’attuale, e più precisamente in direzione del suo ingresso a destra, aperto sulla Via Giovanni Giolitti, rispetto a quello centrale e principale sulla Piazza dei Cinquecento. Una grande costruzione alla quale da tutti i lati convergevano molte strade, sulle quali circolavano diversi tram, e in seguito, col crescere della città, anche autobus. All’uscita centrale della stazione parcheggiavano numerosi taxi e qualche carrozzella in attesa di clienti. Una grande confusione di gente che entrava, usciva o sostava e un via vai di facchini frettolosi carichi di bagagli ingombranti. Opposto a quello sul lato destro, un terzo ingresso, adiacente alle vecchie Mura Aureliane, consentiva, come gli altri, l’accesso alla biglietteria e ai binari provenendo da Via Marsala. Solo due strade, le attuali Via Giolitti e Via Amendola, si frapponevano tra la stazione e la fila degli edifici dove era il nostro portone. Sulla Via Principe Amedeo, data la prossimità alla stazione, un non indifferente andirivieni di persone di passaggio animava la strada.

    Anche qui ultimo piano, il quinto. Sotto, sulla strada, su una linea tranviaria a un unico senso, i tram rallentavano il loro sferragliare prima della fermata per caricare e scaricare i passeggeri di turno.

    Bambina, pensavo che quella stazione della mia città si chiamasse Termini perché era la stazione principale e perché da lì partivano e arrivavano tutti i treni che facevano i percorsi più lunghi nella penisola permettendo anche con le coincidenze di andare oltre i confini nordici dell’Italia. Dopotutto nel nome della stazione ravvisavo il senso del detto Tutte le strade conducono a Roma. Mi sbagliavo, come credo ancora oggi faccia la maggior parte delle persone che vi giungono. Non era quello il motivo che ne aveva suggerito il nome. Quel nome le deriva dal luogo, prossimo alla stazione, nei pressi della cosiddetta ‘fontana delle Naiadi’, nell’attuale Piazza della Repubblica, ove ancora negli ultimi decenni del 1800 giungeva l’acqua di un ramo dell’Acqua Marcia, destinato a rifornire una cisterna chiamata Botte Termini, per l’afflusso e l’accumulo dell’acqua necessaria alle Terme di Diocleziano. Il vocabolo ‘Terme’, comune anche ad altre antiche strutture romane, costruite come luoghi di pubblico incontro e utilizzo di piscine calde e solarium, sussiste ancora oggi, pur se deformato, nel toponimo ‘Termini’ della Stazione centrale di Roma.

    L’edificio dei Beni Stabili in cui ci si spostava era più ampio del precedente dovendo accogliere, con i miei genitori Luigi e Giulia, una famiglia che, sviluppatasi nel giro di pochi anni, aveva nuove esigenze da soddisfare. S’imponeva la disponibilità di ambienti più idonei a quattro ragazzini in crescita: mio fratello Valerio e noi tre sorelle, Giovanna, chiamata semplicemente Anna, Laura ed io. Con noi abitava anche il fratello di mio padre, Gaetano, di poco più di diciotto o diciannove anni.

    Le scale si snodavano intorno ad un ampio spazio quadrato, nel cui interno, protetto da una struttura di ferro, correva l’ascensore che portava ai diversi piani. Per ogni piano le scale si articolavano in tre tratti, con diversi gradini, intervallati tra loro da due piccoli pianerottoli posti ad angolo, tra un tratto e l’altro, e di uno, lungo ed abbastanza ampio, sul quale si trovavano i portoncini di tre appartamenti, disposti a ‘C’ e il cancello dell’ascensore che si apriva di fronte all’ingresso dell’appartamento centrale. Dalla tromba delle scale, buia al pianterreno perché senza fonte di luce naturale, l’ascensore si spostava dal primo al quinto piano ricevendo, nel corso della giornata, sempre maggior quantità di luce dal grande lucernaio che sovrastava la struttura. Le pareti dell’ascensore, in vetro, permettevano di guardare le scale e i pianerottoli, che nel salire e nello scendere sfuggivano rapidamente alla vista. Non potendo fino ad una certa età prendere l’ascensore da sola, scendendo le scale gareggiavo in velocità col meccanismo nel frattempo messo in moto da qualche passeggero.

    Gli scuri portoncini delle abitazioni erano formati da due ante: una più stretta ed un’altra più larga. Quest’ultima parte normalmente consentiva l’accesso alle abitazioni. Uno zerbino, dinanzi all’uscio, aveva il compito di trattenere il fango e i detriti portati dalle scarpe, spesso imbrattate o grondanti acqua piovana. L’anta più stretta era mantenuta fissa, all’interno delle abitazioni, da grossi chiavistelli, a muro e al pavimento, e da una grossa sbarra di ferro orizzontale, trasversale tra il muro e quel segmento breve della porta, per impedirne lo spostamento. Questa anta veniva però aperta durante i traslochi per consentire il passaggio di mobili voluminosi e, ahimè, in occasione del trasporto di bare che lasciavano mestamente l’abitazione per raggiungere l’ultima e definitiva dimora.

    Sul nostro pianerottolo, il penultimo, immediatamente dopo aver salito l’ultima rampa che permetteva di raggiungerlo, sul lato destro, c’era l’accesso al nostro appartamento. Continuando lungo il pianerottolo, di fronte al cancello dell’ascensore, vi era l’ingresso dell’abitazione della famiglia Fusco. A differenza degli altri inquilini, questa famiglia nel tempo giocò un ruolo non trascurabile nella vita della nostra. Sul lato sinistro v’era invece l’ingresso all’appartamento di due svizzeri. Di lei, donna matura e austera (così la vedevo con i miei occhi di bambina), si diceva essere la zia d’un giovanottone, bel ragazzo con caratteristiche più italiane che svizzere, che viveva con lei nello stesso appartamento. Il giovane lavorava presso un ristorante, che il suo aspetto ben curato e prestante faceva ritenere trattarsi di una certa classe, richiedente una bella presenza. Lo si vedeva poco. Usciva al mattino, rientrava sul tardi la sera o durante la notte.

    Oltre il quinto piano, per raggiungere quello superiore, dove una porta sulla destra del pianerottolo consentiva l’accesso alla terrazza comune, si dovevano salire, solo percorrendoli a piedi, gli ultimi tre segmenti di scala. L’ascensore fermava la sua corsa al quinto piano mentre gli ingranaggi si trovavano al sesto, al di sotto del grande lucernaio che sovrastava la tromba delle scale.

    Di fronte al portoncino della terrazza un altro, sempre chiuso. Entrambi più rozzi di quelli degli appartamenti. A quello di sinistra poteva accedere solo il portiere ed eventuali tecnici idraulici, e chi sa chi altro, per risolvere problemi che in uno stabile non mancavano mai di presentarsi.

    La terrazza comune era disponibile per le famiglie in differenti giorni della settimana, a turno. Nei giorni stabiliti era necessario chiederne la grossa chiave al portiere, che la conservava, appesa tra altre, ad un lato della porta della guardiola collocata a destra dell’ingresso principale che immetteva nell’androne.

    Oltrepassato il portoncino a destra del pianerottolo, per raggiungere il cancello che permetteva l’accesso alla terrazza, si doveva percorrere un lungo silenzioso corridoio in cui l’aria risultava pesante per la scarsa circolazione. Insufficientemente illuminato, sulla destra apparivano i grezzi portoncini delle singole soffitte disponibili per i diversi inquilini. Al termine dell’articolato corridoio, che nella parte terminale prendeva luce e aria da un cancello in ferro, finalmente la terrazza comune, attrezzata per lo sciorinamento del bucato e lo spolvero di abiti, coperte e tappeti. Nei pomeriggi caldi e assolati i fili in ferro tesi da un muro all’altro si arroventavano al sole cocente. La biancheria, appesa di solito per gli angoli con laccetti o mollette in legno, vi si asciugava rapidamente al sole e al vento che la scuoteva vigorosamente. Una volta asciutta, ripiegata con cura, la biancheria veniva man mano raccolta in una grande tinozza di zinco. Allora la terrazza, libera da ostacoli svolazzanti, si trasformava per me, secondo le intenzioni, in una palestra o in un palcoscenico all’aperto, isolato dal mondo circostante, a contatto diretto col cielo, dove i rumori della strada e del cortile non riuscivano a raggiungermi, se non soffocati, a contaminare gli scenari suggeritimi dalla fantasia. Unici spettatori gli uccelli danzanti nel cielo. Nella primavera si potevano osservare rondini che tornavano ai nidi e, quando all’estate subentrava l’autunno, stormi di storni che, nel loro volteggiare, ingrigivano il cielo disegnando diverse affascinanti figure. Salto con la corda e in alto, palla a rimbalzo e capriole, scaricavano le mie esigenze di movimento; canzoni, romanze e poesie soddisfacevano le diverse necessità di esprimermi. Avevo per auditorio le alte pareti dei muri, in cui la terrazza risultava incassata, senza che questi si rivelassero cassa di risonanza. Dalla terrazza il mio sguardo avrebbe voluto poter varcare l’orizzonte limitato dai tetti delle case che circondavano il cortile. Mi rendevo conto che non bastava salire in alto per guadagnare il maggior senso di libertà che avrebbe potuto offrire la vista di un più ampio panorama. Un limite l’avrebbe sempre ridotto solo ad un ‘senso’, perché, come tutte le cose, tutto nella vita avrebbe presentato il suo ‘limite’.

    Il grande lucernaio era destinato ad illuminare le scale durante le ore diurne, ma di fatto la luce naturale giungeva ai piani inferiori sempre più ridotta. Nei mesi estivi quelle del quinto piano divenivano particolarmente calde, un caldo avvolgente nell’aria che sembrava dilatarsi nel silenzio in un maggior respiro. Ancor più lo divenivano quelle da percorrere sempre a piedi, per raggiungere la terrazza, pienamente assolate così da ampliarle, illuminate com’erano totalmente, senza zone d’ombra intorno al mezzogiorno. Questa condizione conferiva un che di inesplicabile, suggestivo, surreale. Si avvertiva l’assenza degli appartamenti in un silenzio crescente che dava un’impressione di vuoto dilagante. Salendo le ultime rampe di scala, d’improvviso si provava la seducente sensazione di ascendere verso il cielo nello sfolgorio di luce, che, invadendoli, faceva brillanti gli spazi di una straordinaria illuminazione solare. Poi, varcato il portoncino sul pianerottolo per recarsi nel terrazzo, brutalmente e repentinamente la soave percezione si dissipava nella realtà del lungo semibuio corridoio che occorreva percorrere per raggiungere la luce piena del giorno, che incontenibile finalmente proveniva attraverso il cancello della terrazza.

    Di giorno, i piani inferiori dovevano essere illuminati elettricamente, soprattutto al ridursi della luce diurna, da lampade a soffitto che, poste nel punto centrale dei rispettivi pianerottoli, diffondevano una luce fioca del tutto insufficiente. La luminosità delle scale si uniformava solo all’accendersi delle luci al sopraggiungere del buio notturno.

    Essendo vietato ai bambini al di sotto di una certa età l’uso dell’ascensore, ero costretta a percorrere le scale sempre a piedi. D’inverno, il freddo dei marmi di cui erano pavimentate mi faceva rabbrividire, e d’estate, specialmente nelle giornate particolarmente assolate, il salirle, con il peso della cartella, me le faceva sembrare più lunghe. E, più salivo, più aumentava il fiatone e l’arsura facendomi giungere a casa con la lingua lunga e la gola secca. Ancora accaldata, mi precipitavo in cucina per bere, direttamente dal tubo flessibile in gomma che scendeva dalla cannella, lunghe sorsate d’acqua fresca, che a volte non mancarono di procurarmi acuti dolori alla bocca dello stomaco.

    Nonostante il vago senso di timore che mi pervadeva per la scarsa illuminazione, nel percorrere i piani più bassi, quelle scale mi offrirono l’opportunità di fare del piacevole esercizio fisico che serviva a scaricare l’esuberanza di energia giovanile, che non riuscivo a soddisfare in casa.

    Là dove abitavamo, gli appartamenti, tipici dei primi decenni del 1900, avevano, come del resto quelli della precedente abitazione, i soffitti molto alti, con stucchi moderatamente decorativi. L’altezza delle pareti impegnava penosamente il collo di chi, armato di buona volontà, decideva di mettersi di buzzo buono per rimuovere le resistenti ragnatele, che infaticabili ragni intessevano agli angoli delle pareti con il soffitto, trattenendo la polvere che inevitabilmente finiva per aderirvi sopra, sottolineandone la trama.

    I tre tratti di scala, a causa degli alti soffitti e dell’ampiezza della tromba della scala, esigevano diversi gradini, benché non molto alti, che terminavano nei tre pianerottoli necessari alla loro articolazione. Questi mi davano la possibilità di sfogare la voglia di volare. Il desiderio era così intenso da influenzare i miei sogni. Per molti anni, nei miei sonni notturni infantili e giovanili, ho provato l’ebbrezza di librarmi in alto e di muovermi al disopra delle persone e delle cose, sia in luoghi chiusi che aperti, osservandone dall’alto la vita dalla mia irraggiungibile posizione.

    Mentre scendevo canticchiando la scala, giunta verso il sestultimo gradino, tenendomi, di volta in volta, sul lato destro dei tre differenti tratti di rampa, spostavo in avanti, sul mancorrente della ringhiera, la mano destra per sostenere il mio corpo che s’inclinava, e spiccavo un salto che, facendomi superare gli ultimi gradini, mi consentiva di raggiungere con un discreto volo i pianerottoli che si aprivano al termine delle rampe.

    Ai miei occhi, data l’età, quegli spazi, ad iniziare dall’ampio ingresso del palazzo a cui introduceva un grande portone, le scale e la stessa tromba e infine i pianerottoli, sembravano molto ampi. Di tutti, angusti mi parevano solo i locali delle soffitte, scure, opprimenti, piuttosto buie per la scarsa illuminazione elettrica o per la poca luce, che giungeva durante il giorno da una piccola, molto piccola finestra, poco più di una fessura, posta proprio sotto il margine estremo del tetto che, inclinato a causa del soffitto spiovente, costringeva tutti, anche me bambina, a curvarsi sempre più.

    La conoscenza con lo spazio delle cantine la feci solo più tardi, con l’inizio della guerra a causa delle incursioni aeree francesi su Roma.

    Col tempo, essendo stato installato in casa il termosifone, con una grossa caldaia in cucina ed elementi nelle stanze, tra le cose vecchie e dimenticate in soffitta, si dovette far posto al carbone. Il carbonaio, con neri sacchi impregnati dai polverosi residui del combustibile, depositativisi nell’uso, dal suo scantinato, a due isolati di distanza, sulla medesima strada, lo trasportava con un carretto di legno che avanzava spinto dalle sue robuste braccia. Giunto al portone, scaricati i sacchi, pesanti forse almeno cinquanta chilogrammi l’uno, se li poneva uno alla volta sulle spalle e saliva lentamente lungo i sei piani di scala per depositarne il contenuto, compresi gli eventuali scarafaggi (bacarozzi) ospiti che vi si annidavano, nella nostra soffitta, che già scura sembrava maggiormente buia. Ho ancora negli occhi il passo lento, regolato con il respiro che consentiva al carbonaio di portare avanti la sua fatica.

    Quando con alcuni secchi si provvedeva a portare il carbone necessario dalla soffitta alla caldaia in casa, gli sgraditi ospiti, le blatte, ne approfittavano nel tentativo di guadagnare una migliore sistemazione. Non immaginavano mai che un’orda di ragazzini armati di scope fosse pronta al loro sterminio: miserevole fine per insetti maleodoranti dall’aspetto disgustoso e primitivo.

    La sala da ballo

    Il nuovo appartamento era abbastanza ampio, con diversi e grandi ambienti. Alcune finestre rettangolari, di normale misura, si affacciavano sulla Via Principe Amedeo da un lato, mentre quelle dalla parte opposta, guardavano su un grande spazio aperto, racchiuso in un quadrato di case che lo circondava. Ai vari piani, finestre e terrazzini permettevano una circoscritta comunicazione di vita tra le abitazioni e tra queste e quella del cortile. Al centro, in basso, diversi spazi con alcune basse costruzioni coperte e altri a cielo aperto. Dalla parte delle nostre finestre all’interno del cortile, poco elevato sul piano, un grande lucernaio faceva da tetto ad un altrettanto grande ambiente sottostante, destinato, probabilmente fino alla caduta del fascismo nel luglio 1943, a sala ricreativa del Dopolavoro fascista. In seguito il locale, forse solo dopo la liberazione di Roma, nel giugno 1944, venne trasformato progressivamente in sala di ritrovo pubblico che consentiva, in alcuni giorni festivi, anche il ballo. Immediatamente sotto la tettoia in vetri si apriva un giro di finestrelle basculanti, che avevano il compito di dare aria e luce, sia pure in maniera insufficiente, alla sala.

    Alla sera la tettoia, che normalmente riceveva la luce diurna, s’accendeva di artificiale luce elettrica. Nei giorni festivi dalle finestrelle, oltre alla viva luce, iniziava a diffondersi per giungere discreto alle finestre delle case circostanti, il suono dei 78 giri di moda, al cui ritmo i convenuti nella grande sala trascorrevano il tempo lasciandosi trasportare dalla musica nei diversi passi di danza, facendo nuovi incontri, che potevano aprirsi a potenziali eventuali relazioni amorose, che poi, molto spesso, in breve tempo si esaurivano.

    Non più bambina, raggiunta dai ritmi e dalle musiche di alcuni ballabili, mi lasciavo trascinare in passi di danza del tutto spontanei e piroettavo su me stessa fino a perdere l’equilibrio. La fantasia mi trasportava in quella sala e potevo sognare. Favole! La vera realtà della vita mi era ancora sconosciuta.

    Nonna Adele

    La molla che condusse la mia famiglia nella nuova abitazione fu la morte di nonna Adele avvenuta nel 1934. Dove abitavamo prima, una mattina fui svegliata dal pianto soffocato dei miei genitori e dal singhiozzare incontenuto e disperato di Gaetano, un ragazzo di diciannove anni, l’ultimo dei fratelli di mio padre, più giovane di lui di vent’anni. Colsi un gesto di sgomento di mio padre: il viso sconvolto, le mani nei capelli. Nessuno badava a me che ero la più piccola della famiglia. Osservai mamma e papà aggirarsi per casa agitati e disorientati in cerca delle diverse cose occorrenti per un qualcosa da fare che sfuggiva alla mia comprensione: la sistemazione della camera ardente con candelabri e candelieri, in cui candele accese dovevano diffondere nell’ambiente con le loro fiammelle una luce fioca e tremula. Una cosa era certa. Inatteso e fulmineo un tristissimo evento: al mattino la mamma di mio padre, la nostra nonna Adele, era stata trovata fredda, senza vita, nel suo letto. Era morta nella notte, già da qualche ora senza che nessuno se ne fosse reso conto.

    Avevo sette anni e quella era per me la prima esperienza giunta a pormi repentinamente e drammaticamente di fronte ad una realtà inesorabile della vita, per me sconvolgente. Ricordando quei momenti posso provarne ancora i sentimenti di sbigottimento e d’incredulità, che s’accompagnavano ad un senso di dolore non ben definito, in considerazione della mia incapacità di realizzare pienamente quanto era avvenuto e le sue conseguenze. Mi fu difficile, nella confusione del momento, comprendere tutto il significato della nuova parola che veniva a far parte del mio vocabolario: morte. Non riuscivo a capire pienamente, infatti, cosa veramente significasse essere morti. Forse non volevo o non potevo accettare quel cambiamento repentino del nostro nucleo e della vita familiare; di come la morte potesse privare le persone a noi care della loro vita, come potesse esserci un sonno da cui non fosse più possibile risvegliarsi; come una persona che faceva parte della mia vita potesse non farne più parte sensibile. E fui lasciata sola a pormi domande a cui nessuno dava risposte. Poi le riflessioni giunsero ad una realistica conclusione. Una cosa sola restava: il ricordo.

    Mi rifugiai in un angolo della cucina, rannicchiata sul pavimento, con le ginocchia strette al petto dalle braccia, la testa inclinata a toccarle, lontana dalla stanza della nonna per non intralciare l’andirivieni degli adulti, che si aggiravano per la casa scomposti. In quella solitudine, sconsolata, iniziai a piangere sommessamente più per quella che avvertivo essere la mia penosa condizione di abbandono, piuttosto che per quanto era avvenuto, per me ancora oscuro. Ricorrendo a quel poco che avevo già appreso dalla vita mi sforzavo di comprendere da sola: È vero che nonna era stata, negli ultimi tempi, malata di pleurite, ma stava già meglio! L’avevo vista io stessa il giorno prima, in piedi, alzata dal letto, riordinare i suoi cassetti, e avevo pensato: Presto, certo domani, riprenderà ad affaccendarsi in cucina, intorno ai fornelli. Il solo pensiero mi rallegrava. L’avevo vista a letto per troppo tempo. È suo quel compito e, di certo, non vi verrà meno. Non ne vedevo il motivo. Così la sua morte mi colse, come avvenne per gli altri della famiglia, alla sprovvista. Addolorati tutti: mia madre, ma ancor più mio padre e Gaetano, che dormiva con la sua mamma nel lettone matrimoniale. Gaetano era proprio affranto, disperato, si sentiva colpevole. Dormendo il sonno dell’innocente non si era accorto che la mamma lo lasciava per sempre. Perché? Fino a ieri sera la mamma c’era per lui, così come c’era per tutti noi, ed era ancora con noi. Riflettei che però quell’evento che in quel momento mi turbava, perché incompreso, aveva colto la nonna quando era totalmente sola.

    Gaetano, a sette anni aveva già fatto l’esperienza della morte allorché era rimasto orfano del padre, Vincenzo. Ora anche della madre.

    Silenziosamente com’era vissuta, la nonna se n’era andata, senz’arrecare alcun disturbo a nessuno, e il lutto, un lutto più intimo che esteriore, era piombato come una pesante cappa sulla giovane famiglia. Fui così, col tempo, per la prima volta, costretta a rendermi consapevole, senza comprenderne bene il perché, del potere della morte e del perché la vita dovesse finire. La nonna era troppo stanca! E per stanchezza si poteva morire: non esistere più. Esistere vuol dire vivere! Fu un’amara prova, la prima dolorosa della mia ancor breve esistenza. La morte, con la sua inesorabile capacità di privarci definitivamente degli affetti più cari e cambiare l’abituale scorrere della vita, mi pose allora di fronte ad un’evidenza che fui costretta ad accettare. La quieta presenza della nonna doveva ormai irreparabilmente appartenere ai miei ricordi di bambina.

    Fu una esperienza che incise nella mia vita in maniera particolare dal momento che mi ha reso sempre molto difficile accettare la realtà crudele e dolorosa della conclusione dell’esistenza terrena.

    Nell’abitazione di Via Enrico Cialdini eccola la nonna in cucina. Nel ricordo la vedo occupata intorno ai fornelli, con Gaetano, l’ultimo figlio, praticamente un ragazzo, di soli sei anni più grande di mio fratello Valerio. Le girava intorno come un falco che cerca di cogliere la sua preda in un momento di distrazione della sorvegliante. Quando la madre cucinava, si aggirava pronto a carpire fulmineo e famelico qualcosa di quel che si andava accumulando invitante su di un grande piatto da portata. Inevitabile la reazione della nonna a difesa della sua preparazione. Ma l’attacco repentino, prevedibile, non la coglieva di sorpresa come la sua reazione voleva far credere. Di certo volutamente non difendeva efficacemente il frutto del suo lavoro e forse in cuor suo desiderava che la sua abilità culinaria, sottoposta alla prova di gradimento, venisse riconosciuta e apprezzata gratificandola. Gaetano le offriva immancabilmente quella opportunità. Ma, perché il suo intimo desiderio non fosse smascherato, la nonna alzava minacciosa il mestolo di legno che aveva a portata di mano, per proseguire, immediatamente dopo, nuovamente distesa, il suo lavoro di abile cuoca di fronte all’atteso apprezzamento di tutta la famiglia. Poteva tranquillamente continuare le sue cotture certa del buon risultato.

    Noi bambini non osavamo fare come Gaetano anche se i profumi che si sprigionavano nella cucina, solleticando le nostre narici, ci facevano venire l’acquolina in bocca. Gli odori però ci permettevano di conoscere e prevedere quel che sarebbe giunto in tavola: ricotta fritta, zucca e cipolline all’agrodolce, crocchette di patate e carne panata, supplì e mozzarella in carrozza, frittura di pesce, di baccalà e broccoli, ecc. a pranzo; frittelle di castagnaccio a merenda; zuppe e risotti a cena.

    I candidi capelli, accuratamente raccolti, conferivano alla nonna un aspetto ordinato che ne esaltava l’espressione serena, anche se non manifestava aperta felicità, nella consapevolezza del ruolo importante, anzi essenziale, svolto per la famiglia e in modo speciale per i nipotini, che con schiamazzi vari le giocavano intorno. Questi, sì, riusciva a tenerli lontani dai fornelli. Non era persona loquace, il suo parlare veniva contenuto nel necessario. Non assistetti mai a discussioni a cui lei partecipasse. Era riservata e non si frappose mai tra mia madre e mio padre.

    Purtroppo i ricordi della nonna sono veramente pochi e mi dispiace che ci abbia lasciati così presto. Doveva essere stata una donna accorta e previdente. Un tratto di questo suo aspetto fu reso evidente dal ritrovamento in un angolo della cucina di una busta contenente gusci d’uovo. A quei tempi vino, olio e aceto venivano quasi sempre acquistati in fiaschi impagliati da riadoperare che, per la loro forma arrotondata nella parte inferiore e il lungo collo sottile, erano difficili da pulire accuratamente. Si usava allora spingere attraverso l’imboccatura del fiasco una buona quantità di minuti frammenti di guscio d’uovo che, a forza di essere energicamente e a lungo scossi nel vetro con un poco d’acqua calda e soda, finivano per rimuoverne depositi e incrostazioni. Nonna si era preoccupata di aver dei gusci d’uovo sempre disponibili. Ma le sue qualità non si limitavano a quel genere di aspetti: era comprensiva e paziente, sofferente senza perdere la capacità di essere generosa.

    Mi rammarico di non averla potuta conoscere e amare di più, di sapere molto poco del suo passato e dei suoi sentimenti, di non aver contribuito concretamente a renderla felice. Quel poco che ho udito di lei, quando ero già più grande, mi fa pensare a quanto immenso debba essere stato il suo dolore e la sua sofferenza per la perdita dell’unica figlia, quando questa era ancora bambina. Tra le vecchie fotografie, conservate in una grande vecchia scatola, ve n’erano alcune, fatte da un fotografo, che la ritraevano, bella come un angelo, dopo che la morte le aveva rubato la giovane esistenza per una setticemia. Prima non le ne erano state fatte altre. In casa non ne circolavano. Di lei non si parlava. A parte quel che, di certo, rimase nel ricordo e nel cuore dei suoi genitori e dei fratelli, quelle immagini furono l’unica testimonianza destinata a documentare il suo passaggio su questa terra. La nonna, che ebbe solo altri figli maschi, riuscì a rispondere a quella durissima prova della vita con esemplare dignità e in seguito, forse per compensarne la perdita, con un gesto di grande generoso amore. Quel che in casa si diceva sottovoce ha suscitato sempre tutto il mio apprezzamento e il mio rispetto. Riuscendo a soffocare la grave offesa ricevuta come sposa, accolse in casa, per farla crescere con i propri figli, la figlia che il marito aveva avuto con l’amante, quando quest’ultima per una disgrazia morì, lasciando prematuramente la figlioletta Lina.

    Benché i rapporti con la nonna li abbia avuti quand’ero molto piccola, ancora altre tracce sono rimaste nei miei ricordi infantili. Mi prendeva per mano e mi conduceva con lei a fare la spesa al mercato di Piazza Vittorio¹ insegnandomi ad essere accorta nella scelta della qualità dei prodotti e ai loro prezzi.

    E non solo. Il ricordo più significativo mi riporta nella Chiesa di Sant’Eusebio, a pochissimi isolati di distanza dalla nostra abitazione. All’interno della chiesa, al calare della sera, luci fioche illuminavano gli altari laterali, che si alternavano a scuri confessionali. Il sacrestano, con una lunga asta che terminava con un lucignolo, accendeva le candele poste in alto lungo le pareti laterali da dove le finestrelle, con lo scendere delle tenebre, iniziavano a non trasferire più all’interno la luce del giorno morente. L’odore inconfondibile della cera stearica invadeva gli spazi della chiesa mentre si elevavano le preghiere e i canti delle numerose persone che vi si radunavano progressivamente per le funzioni serali. Sedutisi tutti i presenti sulle due serie di panche che, disposte in fila, riempivano la chiesa, il sacerdote avviava la preghiera del rosario che terminava immancabilmente con le litanie e i canti a Maria. Al mattino della domenica si partecipava alla messa e al pomeriggio ai vespri. Allora aspiravo il profumo dell’incenso che veniva sparso all’intorno dall’ondeggiare di un turibolo, mosso dal sacerdote per incensare l’altare e i fedeli presenti. Volentieri accompagnavo la nonna ai momenti di preghiera che seralmente vi si tenevano. Vi partecipavano persone di tutte le età, ma la presenza di anziani e vecchi era la più rilevante. Forse è a queste esperienze spirituali che risalgono le prime sensazioni provate in tal senso nella mia vita: profonde, emozionanti, misteriose, soffuse di misticismo. Quelle sensazioni, che allora iniziarono a suscitarsi in me, mi si ripropongono ancora oggi in occasioni che vedono atmosfere simili. Avvertivo l’intensità delle preghiere che provenivano da quelle persone semplici, che affidavano i propri problemi alla speranza di ricevere un aiuto verso la loro soluzione: ognuna con il proprio carico di pene si rivolgeva al Padre con la fiducia e l’abbandono di un figlio che non ha dubbi sul suo amore. Si trattava di una fede semplice che in quel luogo trovava come alimentarsi. E tornavano a casa nutrite

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