Respiri: Racconti dall’isolamento
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Limitati i movimenti, si vive come in quarantena dentro una palude. Proprio dentro, la palude. Dentro ciascuno di noi è la palude. E più si cerca di uscirne, più si sprofonda”.
I racconti qui raccolti cercano, secondo scritture e prospettive diverse, di rompere l’isolamento. Raccontare: dare respiro a sé, con e per gli altri.
• Claudio Cuccia
• Gian Luca Favetto
• Antonio Pascale
• Walter Gomarasca
• Paola Carmignani
• Tino Bino
• Gionata Mazzara
• Claudio Gasparotti
• Giuseppe Raspanti
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Anteprima del libro
Respiri - Claudio Cuccia (a cura di)
Respiri
Racconti dall’isolamento
Claudio Cuccia (a cura di) Gian Luca Favetto Antonio Pascale Walter Gomarasca Paola Carmignani Tino Bino Gionata Mazzara Claudio Gasparotti Giuseppe Raspanti
Il testo «Per favore, respiri», curato da Claudio Cuccia, è espressione del progetto «Ospedale, luogo di cura e di cultura», dell’Istituto Ospedaliero Fondazione Poliambulanza di Brescia.
5
L’arca di Scholé
e-book
Copyright Editrice Morcelliana © 2020
Via Gabriele Rosa 71 – 25121 Brescia
www.morcelliana.com
ISBN 978-88-284-0216-9
Prima edizione digitale giugno 2020
Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore. È vietata ogni riproduzione anche parziale non autorizzata.
Indice
Claudio Cuccia, Introduzione
Gian Luca Favetto, I giorni e i draghi
Gian Luca Favetto, Contro l’invisibile
Gian Luca Favetto, L’uomo che corre
Antonio Pascale, Al supermercato
Antonio Pascale, Sport e virus
Walter Gomarasca, Ho pensato
Paola Carmignani, Stilnox
Claudio Cuccia, Il sequestro del nonno
Claudio Cuccia, La Lambretta
Claudio Cuccia, La febbre
Tino Bino, Il dialogo
Gionata Mazzara, Nomi, librerie
Claudio Gasparotti, Giorni mischiati
Claudio Gasparotti, Recinti
Giuseppe Raspanti, Oggi, 30 Aprile
Giuseppe Raspanti, 30 Aprile, Oggi
Claudio Cuccia, Un inchino al virus?
Risvolto di copertina
Gli autori
Collana L’arca di Scholé
Claudio Cuccia, Introduzione
«Bisognava soltanto cominciare a camminare in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentar di fare del bene».
A Orano, «una città delle solite, null’altro che una prefettura francese della costa algerina», nel 194… scoppia la peste. I sorci escono dai tombini e cadono a terra, vomitando sangue; poi le persone, a lungo incredule che esista un male invisibile, muoiono in silenzio. E i giornali a parlarne, a seminare dubbi, a creare tensione, sciacalli tra gli sciacalli. Si stamperà Il Corriere dell’epidemia «che si propone d’informare i nostri concittadini, con una preoccupazione di scrupolosa obiettività», ma che «in realtà - aggiunge la voce narrante - si è preoccupato di pubblicare in gran fretta gli annunci di nuovi prodotti, infallibili per prevenire la peste».
Bernard Rieux entra in scena il 16 aprile, inciampando in un sorcio morto, fuori dal proprio studio. Lui per primo, il giovane medico, intuisce di cosa si tratti, lui sa con quale malattia si dovranno fare i conti, lui, Rieux, che insieme a un vecchio medico, Castel, riuscirà a porre rimedio al male, dopo mesi di sofferenza di una città che via via scompare, nella storia, mentre restano vivi i personaggi che la compongono.
194… 2020, Orano, Bergamo, Brescia…
La storia è la stessa, le tensioni le stesse - anche allora tutto era reale, la peste metafora del male, la guerra, i milioni di morti… -, il racconto è il medesimo, e gli stessi sono i protagonisti e la ricerca di un senso.
Tra i personaggi di allora c’è un aspirante scrittore, Joseph Grand, alle prese con l’incipit del suo romanzo. È l’unica distrazione, uno svago, in un racconto di morte.
«M’intenda bene, dottore - diceva Grand, lo scrittore -. A rigore, è assai più facile scegliere tra ma ed e; la difficoltà aumenta con i poi e quindi; ma certamente la cosa più difficile è sapere se bisogna mettere una e o se non bisogna».
Parole sacrosante. Avete amici scrittori? Chiedeteglielo.
Son stranezze da scrittore, direte voi.
Non è vero, sappiatelo, tra un ma e una e non è facile scegliere, niente affatto. Un conto è il ma, uno la e. Pensateci.
«Sì - disse Rieux -, capisco».
No, il dottore non capiva! L’impiegato, l’aspirante scrittore, poneva una domanda giusta, e il dottore (… o ma il dottore?), non capiva, ma (… o e?) risponde ugualmente Sì, capisco. Eppure si tratta di Rieux, proprio lui, il dottor Bernard Rieux, che altro non è che l’autore che decide di raccontare, sotto mentite spoglie, la storia di un dramma, il suo dramma (i drammi, per immensi e catastrofici che siano, sono sempre personali). Forse quel Sì, capisco lo pronunciava per quel suo animo generoso, gentile, quella premura che in un medico si vorrebbe fosse sempre accesa. Una piccola luce, una bugia, una bugia innocente, com’è giusto che sia, a volte.
«Bisognava soltanto cominciare a camminare in avanti - scriveva Camus -, nelle tenebre, un po’ alla cieca, e tentar di fare del bene».
Allora come ora, bisognava non star fermi, non chiudere gli ambulatori o gli ospedali, «camminare in avanti», al buio, nel vuoto di una scienza chiacchierona, senza strumenti né protezioni, al solo scopo, ingenuo e sincero, «di tentar di far del bene».
Bisognava farlo in una prefettura francese della costa algerina, dove la gente lavorava dalla mattina alla sera e poi sceglieva «di perdere, con le carte, al caffè e in chiacchiere, il tempo che le rimane per vivere», ed è stato indispensabile farlo ora, da noi, a Bergamo, a Brescia e altrove, dove… la gente lavora dalla mattina alla sera e poi sceglie «di perdere, con le carte, al caffè e in chiacchiere, il tempo che le rimane per vivere».
A Orano, come nelle nostre valli, ha ragione di scuotersi il dottore, quando, sentendo il rumore di una sega meccanica, ammette che «… là era la certezza, nel lavoro di ogni giorno. Il resto era appeso a fili e a movimenti insignificanti, non ci si poteva fermare. L’essenziale era far bene il proprio mestiere».
Far bene il proprio mestiere, ripetono Bernard Rieux e Albert Camus, ecco cosa chiedere al dottore e cosa allo scrittore, farlo bene, questo dannato mestiere. E se per l’incipit di Joseph Grand il dramma