Full Metal Mind. Storie di elmetti e menti
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Anteprima del libro
Full Metal Mind. Storie di elmetti e menti - Carmine Ciaccia
Indice
PREFAZIONE
CRONACHE DI UN MILITE NOTO
LA DONNA DELLE PULIZIE E IL GENERALE
LE PAROLE CHE VORREI DIRTI
COMMIATO (Per aspera ad astra)
È MORTA LA GIUSTIZIA
LA CADUTA DI ROMA
ESSERE DONNA LONTANO DALLA CIVILTÀ
COSA SCATTA NELLA MENTE
COGITO, ERGO JIHAD
INTROSPEZIONE
IL COPIONE
LE DONNE LO SANNO
ENIGMATICHE ESPRESSIONI
IN MISSIONE SI STA AL SICURO
LA DENUNCIA
SOMMERSO DAL BUIO
ONORE A ME
RINGRAZIAMENTI
Carmine Ciaccia
FULL METAL MIND
Storie di elmetti e menti
Youcanprint Self-Publishing
Titolo | Full Metal Mind. Storie di elmetti e menti
Autore | Carmine Ciaccia
ISBN | 9788827852958
Prima edizione digitale: 2018
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Youcanprint Self-Publishing
Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce
www.youcanprint.it
info@youcanprint.it
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Ad Arianna
Ho avuto ufficiali competenti che, di fronte ad un plotone, non vedevano altro che un plotone, un gruppo di soldati. Ma ho avuto anche leader che di fronte ad un plotone vedevano 44 individui, ciascuno dei quali aveva aspirazioni e sentimenti, ciascuno dei quali voleva vivere, ciascuno dei quali voleva far bene"
N. Schwarzkopf
Io sogno di dare alla luce un bambino che chieda: Mamma, che cosa era la guerra?
Eve Merriam
Anche una guerra santa è una guerra. Per questo forse non dovrebbero esserci guerre sante.
Umberto Eco
E tu la chiami guerra. E non sai che cos’è.
Fabrizio De André
Rifiutate di accedere a una carriera solo perché vi assicura una pensione. La migliore pensione è il possesso di un cervello in piena attività che vi permetta di continuare a pensare usque ad finem
, fino alla fine.
Rita Levi Montalcini
La mente che riesce ad allargarsi non torna mai alla dimensione precedente.
Albert Einstein
Questo libro è il frutto della fantasia dell’autore.
Ogni riferimento a fatti o persone reali, vive o defunte, è puramente casuale.
PREFAZIONE
di Irene Pivetti
Essere soldato e volerlo raccontare, senza filtri, semplicemente, senza un briciolo di retorica.
Niente più silenzio, che sta al posto della discrezione, e niente celebrazioni alla memoria, ma la vita immediata cosi com’è. Un diario, vorremmo dire, anche quando l’autore racconta vicende accadute ad altri, o scrive in persona di donna, o quando fantastica del futuro, dando corpo concreto alle paure che noi tutti abbiamo di un mondo diverso e peggiore.
Il libro di Carmine Ciaccia è fatto di vita reale, niente che non sia o non possa essere davvero accaduto, esattamente così, esattamente in quella sequenza, quella sera o quel giorno in quella stanza o su quella strada.
Perché c’è anche questo di bello nella narrazione per mano di chi fa dell’obbedienza, dell’onore, del sacrificio sconosciuto un lavoro come gli altri: che quando descrive vede, e fa vedere, con gli occhi al lettore quello che accade, le nostre orecchie sentono ed è il nostro cuore che sobbalza o che soffre, mentre sobbalza il loro, che sono uomini (e donne, oggi si aggiunge sempre, come se ci fosse il dubbio di dimenticarlo) perfettamente normali, e pure unici.
In che consista l’unicità di questa vocazione non oso definirlo io, ma certo è giusto ricordare, nel pieno delle nostre giornate di civili da proteggere (diciamola, questa cosa fuori moda, diciamolo che i civili sono da proteggere e i militari sono lì per fare esattamente questo), nel pieno delle nostre giornate ordinarie, c’è comunque qualcuno che fa del proteggerci un mestiere.
Come c’è chi prega per noi mentre siamo indaffarati, chi ci cura quando siamo ammalati, e chi sempre sullo stesso campo coltiva il grano che ci nutrirà, mentre corriamo con i nostri impegni da tutt’altra parte sulla faccia della terra.
Ascoltare, vedere, partecipare attraverso questo libro alla vita quotidiana di chi di solito non parla di sé, anzi non parla affatto, ha il salutare effetto di farci scendere dal gradino solo leggermente più alto rispetto al resto dell’umanità sul quale abbiamo deciso di collocare la nostra percezione di noi stessi. Noi autonomi, noi veloci, noi intelligenti e in qualche caso anche benestanti, noi, semplicemente, non siamo autosufficienti. Non bastiamo a noi stessi per nutrirci, se non c’è chi combatte con la natura tutto l’anno per l’acqua, per il freddo, il caldo, la fatica, noi non possiamo badare alla nostra salute come se fossimo invulnerabili, noi non possiamo andare in paradiso con le nostre sole forze, ma sostenuti dalla marea potente della preghiera universale, mai spenta di fronte a Dio. E noi non possiamo garantire la nostra sicurezza, quella dei nostri figli e delle nostre case, se non c’è qualcuno che in un paese infinitamente lontano e, ai nostri occhi borghesi e distratti, sostanzialmente nell’indifferenza, rischia la vita, la famiglia e il suo futuro senza nemmeno l’ardire di un grazie
.
Ecco, questo libro è semplice e forte, è militante e vero. È onesto e diretto, per dire senza false accomodanti verità, senza finzione o arzigogoli acrobatici che quella vita è aspra, che può far paura a volte, far sentire soli o stanchi, ma che può anche commuovere e nutrire di speranza, che quella vita vale la fatica di viverla, per tutte quelle donne e uomini che se la sono scelta.
Non cercate questa vita perché è stabile, perché non lo è. Non cercatela perché è un posto sicuro, sarebbe un errore irrimediabile, è il monito sotteso a molte pagine di questi brevi racconti, perché nulla che non venga dal profondo, da una considerazione seria di tutto ciò che questa scelta implica per noi, per le nostre famiglie, per tutti coloro che amiamo e che ci amano, può dare un senso, una proporzione sufficiente a questi sacrifici. Questo dice l’autore ad ogni pagina. Ma dice anche: non abbiate paura di abbracciare una scelta molto forte ma possibile, nobile, gratificante come questa, se siete capaci di vedere quanto possa essere alta, e profonda, e stabile, in questo caso sì, nei frutti buoni che può generare per tutti.
Si rimane sorpresi, quando il libro finisce. Ci si era affezionati, ci si sentiva un po’ parte di questi frammenti che ci erano stati regalati, ad ogni episodio un poco di più, di questa vita e di questo cuore e testa, ci sentivamo accompagnati anche se mai il narratore si era voltato a guardarci negli occhi, mai un ammiccamento, mai un fronzolo per accattivarsi la nostra simpatia: l’io narrante ci ha portati in giro per il campo, sulle strade, nella corsia dell’ospedale quasi senza curarsi di noi, solo dicendo ciò che gli appariva di fronte, e permettendo alla nostra mente di raffigurarlo. Ora, che il suo racconto si interrompe, desidereremmo continuare a sentirlo, immaginando la sua voce lineare e chiara che descrive il suo mondo mentre ci vive dentro.
Anche per questo non vogliamo dirgli addio ma arrivederci. Aspettiamo il prossimo racconto, la prossima normale straordinarietà, vogliamo poter di nuovo condividere il suo punto di vista, e non nel senso metaforico di opinione
, ma proprio nel senso letterale di luogo fisico a partire dal quale si guarda ciò che ci circonda
. Un punto fermo. Per guardare il mondo. E per farsene, e farne condividere, un’opinione.
Ci auguriamo che le sue parole riprendano, e presto, da dove si sono interrotte.
Noi lo aspetteremo, perché non abbiamo fatto in tempo a dirgli la cosa più importante: grazie.
CRONACHE DI UN MILITE NOTO
«Come sta? Se la caverà…? Che vuol dire che non respira autonomamente…? No, non mi calmo affatto, mi avevate detto che c’erano buone speranze e io vi ho creduto!»
Bugiardi. No, non è vero. Non è colpa dei medici o degli infermieri. Perché me la prendo con loro? Appena tornano fuori da quella sala operatoria li fermerò e chiederò scusa ad ognuno di loro. Cazzo succede? Che mi prende? Non riesco a fermare i pensieri, vanno liberi, da soli, forse rincorrono un barlume di speranza.
Stefano è passato dalla branda accanto alla mia a questo letto di ospedale in meno di ventiquattro ore. Soltanto ieri sera stavamo discutendo se fosse più forte Messi o Ronaldo mentre ascoltavamo "Rag doll" degli Aerosmith.
Ho raccolto quasi tutto di quello che gli è caduto dalla mimetica e …
«Come? Certo che posso confermare che è Stefano Ricci! Un documento? Dove vuole che lo trovi un suo documento? Potete riconoscerlo dalla piastrina! Ce l’aveva legata tra i lacci dell’anfibio des…». Cazzo, non ha più l’anfibio destro. Stefano non ha più il piede destro!
«Cerco nel suo zaino, vi faccio sapere».
Dovrò chiedere di nuovo scusa a quell’infermiere. Un documento serve, è chiaro. Devono registrare il suo numero di matricola. Devono essere certi che qualsiasi notizia esca fuori da quella stanza sia diretta alle persone giuste, senza creare allarmismi.
Coltello, magliette verdi, cambio intimo per due giorni, sciarpa vegetata, minolux… non lo trovo…. Cyalumi, occhiali da sole, resti di cibo… cazzo non c’è un documento…GPS, guanti… forse ho trovato…. Matite, agenda…niente! Forse nell’agenda avrà messo la tessera dei prigionieri di guerra
, è pur sempre un documento.
La apro. Pagine fitte di parole, ordinate orizzontalmente, hanno reso la carta meno morbida, ruvida al tatto. Ad ogni modo cerco la tessera tra le pagine. Invano. L’infermiere è sparito. L’importante è che i medici facciano il loro dovere. Che l’assistente di sanità si arrangi a trovare il numero di matricola di Stefano. Gli chiederò scusa anche per questa affermazione però non so come rimediargli un documento.
Quell’agendina ha colpito la mia attenzione d’altronde. So che a Stefano piace scrivere e suppongo che in quel diario siano raccolti i suoi pensieri. Non dovrei allungare l’occhio, ma non vorrei che in qualcuna di quelle pagine ci siano le sue ultime volontà. Prima di partire per questa missione è necessario stilare una specie di testamento.
Le luci al neon e il corridoio di questo ospedale da campo mi innervosiscono. C’è uno strano silenzio e l’odore di alcool etilico picchia sulle pareti del mio naso lasciandomi l’amaro non solo in gola.
Vaffanculo, mi devo distrarre! Apro la copertina in cuoio lavorato dell’agendina di Stefano. Sembra un diario. No, una raccolta di pensieri, di considerazioni. Dovrei trattenermi, ma non ce la faccio. Inizio a leggere con il cuore proteso verso qualche speranza.
24 settembre: IL NEO ASSEGNATO
L’assegnazione ad un reparto, che sia esso il primo oppure uno diverso, rappresenta una giornata fondamentale nella vita militare di ogni soldato. La prima impressione che si riceve dell’ambiente circostante influisce in maniera preponderante sul comportamento del nuovo assegnato e indubbiamente sulle dinamiche sociali e relazionali che si vengono a creare.
La predisposizione iniziale, quindi, può essere o meno favorevole in considerazione degli stimoli che si ricevono dall’organizzazione a cui si approccia. La neo assegnazione deve essere considerata come una pietra miliare della carriera militare: sia essa agognata ovvero non desiderata, ad ogni modo rappresenta un cambiamento, e i cambiamenti portano con loro potenziali aspetti positivi che bisogna soltanto e necessariamente trasformare in cinetici; rappresentano quindi una possibilità, un confronto con sé stessi e quindi hanno un valore intrinseco.
Il periodo che si trascorrerà al reparto potrà avere risvolti variegati e, affinché questi siano esaltanti e ricchi di soddisfazioni, dipende anzitutto dal neo assegnato, ma anche da coloro che lo accolgono nella nuova famiglia.
La struttura di rapporti sociali che si crea in una caserma è certamente gerarchica e il suo fallimento o il suo successo è una diretta conseguenza del comportamento di ogni uomo che ne fa parte. Ogni soldato pertanto deve sentirsi parte integrante e partecipante della squadra-caserma
in cui presta servizio.
Quindi ciò che agevola questi legami e li consolida nel tempo trova le sue fondamenta nel nucleo familiare, nelle capacità professionali e nella morale condivisa. Il primo inteso come sfera personale di affetti ed interessi che hanno risvolti da un punto di vista sociale. Bisogna coltivare tutto ciò che influisce sulla nostra serenità, con maturità ed intelligenza.
Le capacità professionali sono direttamente connesse ai risultati in campo lavorativo. Maggiori saranno le conoscenze e migliori saranno gli effetti e le risposte agli input ricevuti. Ciò significa che le capacità professionali, utili per iniziare a svolgere un incarico, non devono rimanere chiuse in un cassetto pronte a farne uso quando viene richiesto: lo studio e l’apprendimento devono essere parte del percorso formativo di un professionista, soprattutto nel mestiere delle armi.
È un dovere morale offrire il meglio di sé per chi serve lo Stato. Essere un professionista nelle Forze Armate significa conoscere le proprie mansioni, il proprio posto nell’organizzazione ed essere in grado di assumere l’iniziativa nei momenti in cui è richiesto farlo. Chi non è competente è moralmente incompleto e incosciente, poiché si sottopone a degli azzardi che non riesce a stimare.
La professionalità è altresì un moltiplicatore di fiducia reciproca sia in addestramento che in operazione. Essere consci di avere al proprio fianco un soldato qualificato, esperto e capace, accresce la sicurezza e l’empatia di un ambiente lavorativo, di una squadra, di una pattuglia.
La morale condivisa rappresenta l’insieme di regole non scritte che indirizzano i nostri comportamenti in ogni situazione in base al nostro pregresso lavorativo o personale. Affinché ci sia unità d’intenti un soldato deve riconoscere i fondamenti dell’Istituzione e farli propri. Non c’è peggior tortura che lavorare con apprensione, svogliatezza e mancanza di fiducia nel collega e soprattutto sapere che bisognerà farlo per molti anni. L’umiltà, in questo contesto, è una chiave universale per aprire molti caratteri