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Il Junzi ovvero l'uomo ideale secondo Confucio
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Il Junzi ovvero l'uomo ideale secondo Confucio
E-book275 pagine3 ore

Il Junzi ovvero l'uomo ideale secondo Confucio

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Info su questo ebook

È un’abitudine inveterata dei cinesi di dividere le persone in due categorie: i junzi (galantuomini, persone per bene, gente che ha il senso della giustizia, uomini nobili di animo) e i xiaoren (uomini dappoco, uomini meschini, che guardano solo al profitto personale e mai al bene comune). Anche quest’abitudine è un’eredità di Confucio, che ha trasformato il significato dei due appellativi.
Il termine junzi - giapponese kunshi, coreano kwunca, vietnamita quân tử - esisteva già prima di Confucio, e aveva un significato semplicemente di indicazione dello stato sociale di una persona. Come indicazione dello stato sociale, junzi significava figlio (zi) di un signore feudale (jun) o di un aristocratico, e quindi un membro della classe nobile che in quel regime governava.
La società dei tempi di Confucio era suddivisa in due classi: i junzi (gli aristocratici) e i xiaoren (la gente comune, il popolino).
Il significato originale affiora ancora occasionalmente nei Dialoghi, come a suo luogo faremo notare. Ma nella maggior parte dei casi il termine viene usato con un altro significato. È stato trasformato da Confucio in una qualifica morale: da “figlio di un signore feudale (o di un aristocratico)” a “persona che ha le qualità ideali di un signore feudale o di un aristocratico.”
Da una qualifica sociale (“uomo nobile di sangue”) a una qualifica etica (“uomo nobile di animo”).
Il junzi è l’essere umano ideale secondo Confucio.
E naturalmente il suo opposto, il xiaoren, non significa allora (nella gran parte dei casi) persona del popolino, ma uomo meschino, uomo egoista, che non sa vedere più in là del proprio piccolo interesse personale. Come vedremo, il junzi di Confucio non è una condizione ereditaria; è un ideale di vita, un traguardo da conquistare, al quale ovviamente può aspirare qualsiasi persona, non solo chi appartiene alla classe nobile.
Le descrizioni della personalità del junzi, o del suo contrario il xiaoren, che Confucio ci offre sono di fatto delle definizioni da parte sua dell’essere umano ideale, di come secondo lui un essere umano degno di questo nome “dovrebbe” o “non dovrebbe” comportarsi.

Umberto Bresciani, nativo di Cremona, ha conseguito il dottorato in Lettere cinesi alla National Taiwan University di Taipei, Taiwan. Attualmente è docente presso l’Università Cattolica Fujen di Taipei. Esperto dei temi attinenti al dialogo religioso e culturale con il mondo cinese, ha pubblicato, in particolare, ReinventingConfucianism. The New Confucian Movement (2001), tradotto in italiano come La filosofia cinese nel ventesimo secolo. I nuovi Confuciani (2009). Per Passerino Editore ha pubblicato Il primo principio della filosofia confuciana (ebook, 2014); WangYangming: An Essential Biography (ebook, 2016).
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita21 giu 2020
ISBN9788835852902
Il Junzi ovvero l'uomo ideale secondo Confucio

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    Il Junzi ovvero l'uomo ideale secondo Confucio - Umberto Bresciani

    Umberto Bresciani

    Il Junzi ovvero l'uomo ideale secondo Confucio

    The sky is the limit

    UUID: 72c2c0ec-1aaf-449d-af29-bf1b6d681313

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Introduzione

    Il Termine Junzi

    Retroscena storico

    Breve Sintesi del Concetto di Junzi

    Dialoghi, 1: 1

    Dialoghi, 1: 2

    Dialoghi, 1: 8

    Dialoghi, 1: 14

    Dialoghi, 2: 12

    Dialoghi, 2: 13

    Dialoghi, 2: 14

    Dialoghi, 3: 7

    Dialoghi, 3: 24

    Dialoghi, 4: 5

    Dialoghi, 4: 10

    Dialoghi, 4: 11

    Dialoghi, 4: 16

    Dialoghi, 4: 24

    Dialoghi, 5: 3

    Dialoghi, 5: 16

    Dialoghi, 6: 4

    Dialoghi, 6: 11

    Dialoghi, 6: 18

    Dialoghi, 6: 26

    Dialoghi, 6: 27

    Dialoghi, 7: 26

    Dialoghi, 7: 31

    Dialoghi, 7: 33

    Dialoghi, 7: 37

    Dialoghi, 8: 2

    Dialoghi, 8: 4

    Dialoghi, 8: 6

    Dialoghi, 9: 6

    Dialoghi, 9: 14

    Dialoghi, 10: 6

    Dialoghi, 11: 1

    Dialoghi, 11: 20

    Dialoghi, 11: 26

    Dialoghi, 12: 4

    Dialoghi, 12: 5

    Dialoghi, 12: 8

    Dialoghi, 12: 16

    Dialoghi, 12: 19

    Dialoghi, 12: 24

    Dialoghi, 13: 3

    Dialoghi, 13: 23

    Dialoghi, 13: 25

    Dialoghi, 13: 26

    Dialoghi, 14: 5

    Dialoghi, 14: 6

    Dialoghi, 14: 23

    Dialoghi, 14: 26

    Dialoghi, 14: 27

    Dialoghi, 14: 28

    Dialoghi, 14: 42

    Dialoghi, 15: 2

    Dialoghi, 15: 7

    Dialoghi, 15: 18

    Dialoghi, 15: 19

    Dialoghi, 15: 20

    Dialoghi, 15: 21

    Dialoghi, 15: 22

    Dialoghi, 15: 23

    Dialoghi, 15: 32

    Dialoghi, 15: 34

    Dialoghi, 15: 37

    Dialoghi, 16: 1

    Dialoghi, 16: 6

    Dialoghi, 16: 7

    Dialoghi, 16: 8

    Dialoghi, 16: 10

    Dialoghi, 16: 13

    Dialoghi, 17: 4

    Dialoghi, 17: 7

    Dialoghi, 17: 21

    Dialoghi, 17: 23

    Dialoghi, 17: 24

    Dialoghi, 18: 7

    Dialoghi, 18: 10

    Dialoghi, 19: 3

    Dialoghi, 19: 4

    Dialoghi, 19: 7

    Dialoghi, 19: 9

    Dialoghi, 19: 10

    Dialoghi, 19: 12

    Dialoghi, 19: 20

    Dialoghi, 19: 21

    Dialoghi, 19: 25

    Dialoghi, 20: 2

    Dialoghi, 20: 3

    ​Glossario delle Parole Cinesi

    Passerino Editore

    Gaeta Taipei

    2020

    Introduzione

    I Dialoghi

    Leggere per la prima volta i Dialoghi di Confucio è una delle esperienze di lettura più deludenti che possano capitare. I Dialoghi sono una raccolta di massime composte nella Cina del nord qualche secolo prima dell’era volgare, cioè più di venti secoli fa. Rispecchiano quindi una cultura quanto mai lontana dalla nostra nel tempo e nello spazio. E poi si sa che la lingua cinese fa a meno degli articoli, dei plurali e dei pronomi relativi; fa a meno perfino della coniugazione dei verbi (persona, tempo e modo); per non dire che nel cinese classico mancano diverse altre cose ancora. A peggiorare la situazione c’è infine l’ordine dei Dialoghi, voglio dire il disordine. Infatti le varie massime di Confucio sono disposte nel relativo libro – che noi chiamiamo i Dialoghi (in cinese Lunyu) e in passato era spesso chiamato Analetti (dal latino Analecta) - senza alcun ordine logico di contenuto.

    Per tutte queste ragioni la traduzione dei Dialoghi dal cinese classico in un’altra lingua diventa un compito molto arduo. Le traduzioni che capita di avere tra le mani sono state realizzate da studiosi che da persone serie hanno cercato di essere fedeli al testo originale, evitando il più possibile di immettervi degli elementi interpretativi personali. In questo modo la traduzione che ne risultava era, a dir poco, estremamente vaga e di fatto poco comprensibile. Nulla di strano allora che la lettura dei Dialoghi, dopo aver scorso alcune pagine, diventi noiosa o perfino insopportabile.

    Effettivamente tutto questo è vero. Anche il disordine in cui si trovano i detti di Confucio è un dato di fatto. Tanti si sono cimentati a trovarvi una logica - come sempre c’è nei libri, in quanto sono prodotti dell’ingegno umano - senza alla fine riuscirvi. Nel caso dei Dialoghi è evidente che deve esserci stata una ragione per la mancanza di ordine, o forse più di una ragione. [1] A mio parere, la ragione più ovvia potrebbe essere che le varie massime o mini conversazioni che compongono il libro sono state raccolte in un secondo momento – dopo la morte di Confucio; anzi, con molta probabilità dopo la morte dei principali discepoli – in base ai vari contributi che gli editori avevano ricevuto e che, per un dovere di rispetto verso il Maestro, non volevano assolutamente manipolare. È infatti evidente che se qualcuno si fosse seduto a mettere in ordine i vari detti, li avrebbe radunati attorno a dei criteri ben chiari, magari in ordine di tempo, oppure più probabilmente secondo gli argomenti, e sicuramente avrebbe eliminato le ripetizioni.

    Come leggerli

    I Dialoghi di Confucio sono una miniera di saggezza, che ha ispirato i popoli dell’Estremo Oriente per millenni. Ma si tratta di un libro molto speciale, da accostare nel modo giusto.

    Per riuscire a penetrare in questa miniera occorre per prima cosa aver tra le mani una buona traduzione, meglio ancora se due o tre diverse buone traduzioni. Ancora più necessario è avere in mano una traduzione che sia accompagnata da un commentario adeguato. Anche per un madrelingua cinese il testo originale necessita di traduzione e commento. Senza aiutare il lettore a percepire, almeno per sommi capi, il contesto storico, la situazione esistenziale in cui un detto fu pronunciato – quello che nell’esegesi biblica si chiama il Sitz im Leben – non è possibile leggere il libro con profitto.

    Nel mettersi a leggere i detti di Confucio si sconsiglia di leggerli in continuazione uno dopo l’altro, dal primo all’ultimo. Una tale lettura non è molto proficua, tende solo ad annoiare.

    Il metodo di lettura consigliato lungo i millenni è stato quello di leggere e rileggere un detto singolo e cercare di assaporarlo, esplorandone le dimensioni attraverso la meditazione. Si tratta di riflettere sulla propria esperienza di vita e di cercare di comprendere quale eventuale relazione il detto può avere con la propria vita. Nella mente di Confucio, e dei discepoli che hanno stilato questi Dialoghi, le dottrine che via via vengono sottoposte a dibattito hanno lo scopo di indirizzare il lettore a maturare la cosiddetta coltivazione morale. Secondo la linea tradizionale dei pensatori confuciani, il vero significato dei detti si riesce ad afferrarlo solo applicandosi seriamente alla pratica effettiva della coltivazione morale e poi magari condividendo i risultati con i compagni di studio e con il proprio maestro.

    Un ausilio quanto mai valido, e direi indispensabile, per potersi addentrare nel mondo ideale dei Dialoghi è di perseguire un argomento ben definito, esaminando contemporaneamente due o più detti che si riferiscono a quel determinato argomento. In questo modo, il contenuto dei discorsi di Confucio comincia ad affiorare. Si tratta perciò di usare il metodo della esegesi incrociata, cioè di cercare la spiegazione a un detto in altri detti che si riferiscono allo stesso argomento.

    Non si può negare che sussista una notevole difficoltà nella comprensione del testo dei Dialoghi, dovuta alla sua origine così lontana nel tempo e nello spazio, all’estrema concisione delle sue frasi lapidarie e ad altri problemi creati nella trasmissione dei testi su un arco di tempo così lungo. Tuttavia usando gli accorgimenti sopra menzionati si potrà riuscire a cogliere non poco dell’eredità di pensiero di Confucio, questo pensatore insieme così antico e così moderno.

    I Dialoghi si chiamano appunto giustamente dialoghi perché piuttosto che detti sono una serie di mini conversazioni, ognuna delle quali su un argomento ben definito. Suddividere i passi dei Dialoghi in base all’argomento a cui si riferiscono equivale ad individuare in ogni passo la presenza di parole chiave ( keywords). Sono quelle parole che ritornano abitualmente e che mettono a fuoco la forma mentis di Confucio. Una di queste è il termine junzi, che in inglese è stato regolarmente tradotto con gentleman, e in italiano con gentiluomo, finché in anni recenti sono venute di moda altre traduzioni, tipo the superior man, the mature person, the profound person, the exemplary person, the paradigmatic individual, the perfected person, the noble man e in italiano l’uomo nobile di animo di Tiziana Lippiello. La varietà delle traduzioni fa capire subito la complessità del concetto. Lascio al lettore di decidere quale di queste traduzioni sia la più valida. Noi qui useremo la parola junzi, seguendo una moda che sta affermandosi, che è di mantenere il termine originale cinese quando fosse troppo complicato tradurlo.

    Nel leggere i Dialoghi si tratta di riuscire - come consiglia Tu Weiming, il più noto confuciano dei nostri giorni - ad entrare a far parte di una conversazione che si sta svolgendo tra Confucio e i suoi discepoli o tra i discepoli fra loro. È stato ancora Tu Weiming a sottolineare che i Dialoghi sono i ricordi vivi di una comunità di persone, dove l’intento non è tanto di presentare delle teorie o registrare degli eventi, ma di invitare il lettore a prender parte ad una conversazione già in corso.

    Proprio per cercare di rendere questa idea, in questa traduzione dei detti dei Dialoghi, contrariamente alla prassi generale dei traduttori, noi useremo il passato prossimo invece del passato remoto. Ho seguito in questo l’idea di alcuni sinologi - ad esempio la recente traduzione francese di Jean Lévi (2018), o quella russa di V. M. Alekseev (1881-1951) - che hanno di proposito fatto questa scelta, pensando in tal modo di rendere meglio l’attualità delle conversazioni che erano in corso. [2] Invece di il Maestro disse, tradurremo con il Maestro ha detto, il Maestro ha risposto, e così via, per far capire come la mini conversazione in questione fosse appena avvenuta – il giorno prima o poche ore prima (o pochi anni prima...) – e i discepoli ora si ritrovavano insieme a discuterne animatamente i contenuti e talvolta anche ad aggiungervi qualche loro commento personale.

    Nota: I vari capitoli dei Dialoghi, venti in tutto, tradizionalmente vengono chiamati libri, mentre i singoli passi vengono chiamati capitoli. Chiunque si metta a consultare diverse edizioni o traduzioni dei Dialoghi facilmente s’imbatterà in qualche leggera discrepanza di numeri dei capitoli tra un’edizione e l’altra. Nulla di preoccupante: le discrepanze sono dovute al fatto che qualche detto (pochi casi) da alcuni commentatori viene considerato come un detto singolo, da altri invece come due detti separati, che nel corso dei secoli nella trasmissione del testo sono finiti insieme, ma originariamente erano distinti.

    Scopo e Fonti di questo Libro

    Questo libro sulla Via del junzi non intende essere l’ultima parola in fatto di esegesi dei Dialoghi. Intende solo offrire una lettura un poco approfondita dei detti di Confucio che riguardano il concetto di junzi. Esiste una notevole – per non dire immensa - ricchezza di fonti bibliografiche, specialmente in cinese, giapponese e coreano, ma anche in inglese e nelle altre lingue occidentali. Ecco una lista delle principali fonti da cui ho attinto:

    Fu Peirong, Lunyu sanbaijiang (Trecento Conferenze sui Dialoghi), 3 volumi, Linking Books, Taipei, Taiwan, 2011.

    Gao Xitian, Junzi zhi dao (La Via del Junzi), Taipei: Shibao wenhua chubanshe, 2013.

    Huang Chichung, The Analects of Confucius: A Literal Translation with an Introduction and Notes, Oxford University Press, 1997.

    Lau, D. C., Confucius, The Analects, New York: Penguin Books, 1979.

    Leys, Simon, The Analects of Confucius, New York: Norton & Company, 1997.

    Lippiello, Tiziana, Confucio, Dialoghi, Torino, Einaudi, 2006.

    Ni Peimin, Understanding the Analects of Confucius, State University of New York Press, 2017.

    Qian Mu, Kongzi yu lunyu (Confucio e i Dialoghi), Taipei, Lianjing chubanshe, 1978.

    Qian Mu, Lunyu xinjie (Nuova Spiegazione dei Dialoghi), Taipei, Sanmin Bookstore, 1978.

    Rosemont, Henry, Jr., A Reader’s Companion to the Confucian Analects, New York, Palgrafe MacMillan, 2013.

    Slingerland, Edward, Confucius Analects with Selections from Traditional Commentaries, Cambridge: Hackett, 2003.

    Waley, Arthur, The Analects of Confucius, London: Allen & Unwin, 1938.

    Yang Bojun, Lunyu yizhu (Interpretazione e commentario sui Dialoghi), Beijing: Zhonghua shuju, 1958.

    Nel commentare i passi dei Dialoghi, a volte compariranno i nomi di certi filosofi o esegeti del passato o del presente, personaggi illustri della tradizione confuciana. Elenco qui i nomi che possono ricorrere con più frequenza. [3]

    Mencio (c. 371-289 a.C.). Nome latinizzato del filosofo Mengzi, vissuto circa un secolo dopo Confucio. È il secondo grande saggio del Confucianesimo, autore del libro omonimo, il Mengzi, in cui principalmente illustra le idee di Confucio.

    Kong Anguo (c. 156-100 a.C.). Discendente di Confucio all’undicesima generazione. Importante figura di esegeta.

    Giardino delle Persuasioni (Shuoyuan). Libro di aneddoti riguardanti in prevalenza filosofi confuciani compilato a scopo didattico da Liu Xiang (77-6 a.C.).

    Huang Kan (488-545 d.C.). Pensatore vissuto nel periodo del sapere misterioso ( xuanxue, secoli III-VI d.C.). Era un fervente buddhista. Scrisse un commento esegetico ai Dialoghi di Confucio ( Lunyu yishu, cioè Elucidazione del significato dei Dialoghi), dove per i commenti al testo usa non solo i metodi tradizionali, ma gran quantità di idee daoiste o altre idee correnti al suo tempo.

    Zhu Xi (1130-1200). Principale filosofo confuciano dell’ultimo millennio, considerato il terzo saggio, dopo Confucio e Mencio. È ritenuto la figura rappresentativa del Neoconfucianesimo. Dal secolo XIV fino ad oggi i suoi commentari ai classici hanno fatto testo, in Cina come in Giappone e in Corea.

    Wang Yangming (1472-1529). Filosofo, la quarta figura per importanza nel Confucianesimo, dopo Confucio, Mencio e Zhu Xi. Ha avviato una scuola filosofica alternativa a Zhu Xi, nota come Scuola della Mente.

    Liu Baonan (1795-1855). Letterato e studioso dei classici, libero da pregiudizi di parte. È ricordato soprattutto per un suo valido commentario ai Dialoghi di Confucio.

    Cheng Shude (1877-1944). Giurista e uomo politico della fine della dinastia Qing, era anche un ottimo studioso. È ricordato soprattutto per un’edizione annotata dei Dialoghi di Confucio ( Lunyu jishi) particolarmente ricca di contenuto. Raccoglie le migliori annotazioni di oltre seicento esegeti lungo i secoli.

    Tu Weiming (1940-). Nato in Cina, cresciuto a Taiwan, dopo una vita di docenza negli USA, si è ritirato a Beijing, dove dirige l’Istituto di Studi Umanistici Avanzati ( Institute for Advanced Studies in Humanities). È la figura attualmente più nota di studioso e promotore della filosofia confuciana.

    [1] Secondo una delle tante spiegazioni, quella di Shi Hongmao (1909-1975), il disordine dei detti di Confucio sarebbe dovuto a una ragione molto concreta: gli antichi testi venivano scritti talvolta su pezze di seta, più comunemente su listelle di bambù legate fra loro con uno spago e arrotolate a formare un volume. Deve esser successo che il libro dei Dialoghi, scritto su listelle di bambù, si slegò e le listelle finirono nel disordine e in tale disordine vennero conservate. (Cf. Ni Peimin, p. 445). Ma a dir il vero ci voleva poco, in un secondo momento, a rimettere un po’ di ordine, eliminando ad esempio i doppioni; ragion per cui anche questa spiegazione non convince più di tanto.

    [2] Cf. Christof Harbsmeier, The Authenticity and Nature of the Analects of Confucius, in Journal of Chinese Studies, n. 68 (January 2019), p. 173.

    [3] I profili di questi personaggi sono dei riassunti delle rispettive voci nel Dizionario di Confucianesimo online . Cf. Umberto Bresciani, Dizionario di Confucianesimo, Gaeta, Passerino Editore, 2019.

    Il Termine Junzi

    È un’abitudine inveterata dei cinesi di dividere le persone in due categorie: i junzi (galantuomini, persone per bene, gente che ha il senso della giustizia, uomini nobili di animo) e i xiaoren (uomini dappoco, uomini meschini, che guardano solo al profitto personale e mai al bene comune). Anche quest’abitudine è un’eredità di Confucio, che ha trasformato il significato dei due appellativi.

    Il termine junzi - giapponese kunshi, coreano kwunca, vietnamita quân tử - esisteva già prima di Confucio, e aveva un significato semplicemente di indicazione dello stato sociale di una persona. Come indicazione dello stato sociale, junzi significava figlio (zi) di un signore feudale (jun) o di un aristocratico, e quindi un membro della classe nobile che in quel regime governava. La società dei tempi di Confucio era suddivisa in due classi: i junzi (gli aristocratici) e i xiaoren (la gente comune, il popolino).

    Il significato originale affiora ancora occasionalmente nei Dialoghi, come a suo luogo faremo notare. Ma nella maggior parte dei casi il termine viene usato con un altro significato. È stato trasformato da Confucio in una qualifica morale: da figlio di un signore feudale (o di un aristocratico) a persona che ha le qualità ideali di un signore feudale o di un aristocratico. Da una qualifica sociale (uomo nobile di sangue) a una qualifica etica (uomo nobile di animo). Il junzi è l’essere umano ideale secondo Confucio.

    E naturalmente il suo opposto, il xiaoren, non significa allora (nella gran parte dei casi) persona del popolino, ma uomo meschino, uomo egoista, che non sa vedere più in là del proprio piccolo interesse personale. Come vedremo, il junzi di Confucio non è una condizione ereditaria; è un ideale di vita, un traguardo da conquistare, al quale ovviamente può aspirare qualsiasi persona, non solo chi appartiene alla classe nobile.

    Le descrizioni della personalità del junzi, o del suo contrario il xiaoren, che Confucio ci offre sono di fatto delle definizioni da parte sua dell’essere umano ideale, di come secondo lui un essere umano degno di questo nome dovrebbe o non dovrebbe comportarsi.

    Nei suoi discorsi Confucio ha usato con molta frequenza il termine junzi. Il significato è particolarmente ricco, come si potrà osservare passando in rassegna i detti esaminati in questo libro. Nella gran parte dei casi il significato è ambivalente, cioè riguarda persone in posizioni di governo. E d’altronde a quei tempi l’istruzione era limitata a un numero molto ristretto di persone, che erano poi quelle che finivano per lavorare nella carriera politica. Forse volutamente Confucio usa il termine nel doppio senso (vuoi sociale che etico): cioè parla dell’uomo che di fatto è collocato in una posizione di governo (junzi) e che dovrebbe agire in un determinato modo - cioè con le caratteristiche di condotta che Confucio ritiene ideali - per poter meritare l’appellativo di junzi.

    Confucio non esclude comunque che l’appellativo possa appartenere anche a uno che non sia in una posizione di governo, cioè a un semplice cittadino, dato che lui era ben convinto che " amare i genitori e voler bene ai fratelli è già un partecipare al governo. (2: 21) E poi, quando i discepoli lo pressavano per una norma generale di comportamento, lui dichiarava questa: Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te." (12: 2) Una norma questa che vale ovviamente per chiunque, non solo per chi è al governo e non è legata ad alcuna classe sociale.

    Nei Dialoghi di Confucio, il termine junzi compare 107 volte

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