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Del che è & che non è
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E-book423 pagine6 ore

Del che è & che non è

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Praticare l’evenienza in quanto animato concerto di mondi, menti e linguaggi è ciò che l’essere umano di solito sa fare abbastanza bene, indipendentemente da quanto sa dirne, poiché il mutevole divenire delle cose naturali e umane lo insegna e lo pretende. Altrimenti si rischia la sconfitta in ciò che più sta a cuore, il senso che giorno dopo giorno si desidera dare alla propria esistenza. Pensare l’evenienza richiede invece un particolare impegno, un effettivo disciplinamento mentale e culturale, dato che in ogni tradizione e civiltà la massima parte delle energie è sempre stata spesa, e ancora lo è, per afferrare e confinare, quando non per impedire, l’inafferrabilità dell’evenienza che è conseguenza e manifestazione dell’umana libertà. I modi del confinamento si rivelano peculiarmente subdoli perché fanno appello a idee di razionalità e di socialità che, per quanto in apparenza tra loro diverse, considerano tutte quell’afferrare come indispensabile e doveroso, rifuggendo dal nativo essere & non-essere delle cose umane. In questo libro, come in 'Essere al mondo', l’Autore indaga l’originaria libertà della triplice relazione tra mondo, mente e medio, chiedendosi se sia concesso conoscerla nell’immediatezza del suo darsi, senza possederla e senza rifuggirne.

LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2013
ISBN9781301174997
Del che è & che non è
Autore

Paolo-Ugo Brusa

Italian by family and citizenship, born (1950) and living in San Marino, SM. School years in Rimini, 1958 to 1965, and Bologna, 1966 to 1974. Doctoral degree in Philosophy from Bologna 'Alma Mater' University in 1974 (master thesis on the education of James Joyce). Enrolled in San Marino public schools as a teacher of Italian, History and Geography in junior high (1974-1995); then of History and Philosophy in high school until retirement in 2010. In the early 80’s, I was involved in developing computer apps in a ground-breaking field, at the time: individualized teaching aid for Down children. Works include 'Parentesi', 1983, a collection of free verse; 'Ripeness Is All', 2012, a red carpet of pictures; 'La cura di sé (in giovane età)', 2018, a bildungsroman; 'Genesi. L'origine qui e ora' (my fifth philosophicsl essay, to be published 2023).

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    Anteprima del libro

    Del che è & che non è - Paolo-Ugo Brusa

    "PRIMA ch’i’ parle bisogna ch’i’ m’iscuse", così Giordano Bruno nel proemio a Candelaio. Meglio non nasconderselo, Del che è & che non è offrirà al lettore, se vi esigerà eleganza e tendenza, scarso diletto. Quanto ai contenuti, come svolgere un tale argomento senza irritare i più? Bruno consiglia bene, meglio scusarsi subito per non doversi discolpare poi. Queste laboriose annotazioni sono state per l’autore anzitutto uno strumento di studio, uno scavo avviato per cercare di capire e per provare a dire ciò che giorno per giorno si vive, ciò che precede l’essere logico-ontologico e ogni altro costruito che è (o che non è). In un’epoca che dà tutto scontatamente per culturale e relativo, o se no per tecnico e scientifico, trattare di ciò che tutto precede originando i differenti saperi, inclusi i loro limiti, sembrava a lui stesso per primo un’impresa non solo in controtendenza e perfino spericolata ma facilmente contestabile, legata a un programma di ricerca obsoleto. Eppure c’era non solo l’intera storia del pensiero a testimoniare un bisogno inesauribile di conoscere l’origine dell’essere al mondo, ma anche un effettivo, urgente e contemporaneo chiederselo, in modi certo nuovi e talvolta inaspettati ma affini a quelli di sempre. Così la visione d’insieme ha preso corpo lentamente, scrivendo e riscrivendo, esitante tra convincimenti e dubbi. La prima redazione, terminata nel febbraio 2009, portava chiari segni di quella fatica e non soddisfece i pochi che la lessero; tra questi il più scontento fu l’autore che la tenne per sé e si mise a riscrivere tutto daccapo. I motivi di insoddisfazione erano diversi, ma tra gli altri soprattutto i seguenti: debole la introduzione del concetto-chiave di triseminalità; tortuoso il procedere della riflessione; incerta la coerenza di alcuni termini; discontinuo lo stile. Il secondo tentativo ha ragionevolmente beneficiato delle lezioni apprese grazie al primo; ne è sortito un testo alquanto diverso, più coeso e meglio impostato, meno indocile. Pubblicato a stampa nel 2012 col titolo Essere al mondo [ISBN 9788866189978] esso è ora disponibile anche nei formati ebook [ISBN: 9781301571178, download gratuito su http://www.smashwords.com]. Perché allora tornare a occuparsi della prima versione? Perché il pensare qui detto prosofico che, in quanto riflesso spontaneo dell’essere al mondo, si mostra nativamente intuitivo in ogni essere umano, necessita invece in quanto proposta concettuale di introduzione, anzi di varie e sempre nuove introduzioni, dato che per la sua neutrale onnilateralità non si conforma ad alcuno schema preconcetto, comprendendoli tutti. Esso non appaga bisogni di comprensione localmente urgenti, anzi delude tutte le esigenze di afferramento e di conseguenza è destinato a rimanere nell’ombra di un’apparente futilità se non ci si fa carico di esporre in molti modi differenti il suo minuto contessersi a ogni aspetto e caso dell’esistenza.

    L’espressione che è & che non è indica qui, per i motivi che diremo, non il dialettico o il contraddittorio o l’assurdo, ma l’universale condiviso, ossia ciò che unisce tutti gli esseri umani al di là di ogni separazione ideologica o distanza culturale o diversità di esperienza e di visione. Li accomuna inoltre con ogni altro vivente e in particolare con tutte le forme di intelligenza dell’universo, quali che siano e da qualsiasi mondo provengano. Ciò che per un essere vivente è al mondo possiede immediatamente una sua realtà. Ma questa realtà o verità, spesso momentanea e puntiforme, normalmente viene contraddetta da altre realtà appartenenti ad altre esperienze. Ciò genera il che è & che non è delle cose. Esso include tutti i vissuti esperienziali in qualsiasi modo vengano interiorizzati o esteriorizzati, dati per dati o criticamente confrontati. Include anche il che è (o che non è), ovvero quanto si replica in parte o del tutto uguale da un caso all’altro e da un individuo all’altro, quanto è localmente concordato. Il che è & che non è sconcerta in quanto responsabile dell’infinità delle opinioni, ma sembra al tempo stesso comodamente aggirabile concordando o imponendo convenzioni, comportamenti, procedure, norme, simboli che in effetti permettono di gestirlo, benché sempre localmente e per il momento e finché la convenzione regge o le forze che l’hanno imposta prevalgono su quelle che puntano a indebolirla. L’illustrazione dell’universale condiviso, cioè del meta-orizzonte comune a tutte le verità locali, è il più impegnativo obbligo morale di ogni libera intelligenza, il dovere che la filosofia ha sentito come peculiarmente suo. Ma com’è evidente dalla sua storia lo ha di buon grado frainteso. Le scuole lo hanno interpretato come un includere/escludere, un dar torto e aver ragione, un avanzare la propria visione del mondo in opposizione alle altre. In definitiva, bisogna ammettere che la filosofia – pur con tutti gli immensi meriti esplorativi che volentieri le si concedono – ha rinunciato al suo scopo ultimo mettendo avanti tutto le ragioni della ragione (o di qualsiasi altro nume vicario) come se quest’ultima potesse davvero porsi fuori dell’essere al mondo e studiarlo con i suoi strumenti.

    Questo testo è stato dunque recuperato perché fornisse anch’esso il suo contributo per quanto modesto alla riflessione prosofica. Non mancava infatti anche di qualche pregio: l’immediatezza di alcune intuizioni, il coraggio della sperimentazione, il laboratorio dei termini, la citazione del vissuto, la stessa franchezza un po’ molesta di certi passi. Naturalmente la stesura del 2009 è stata riveduta estesamente, nella speranza di attenuarvi i difetti sopra elencati. La revisione non ha fatto miracoli, ma permette intanto la circolazione di un’opera che testimonia della fatica di pensare prosoficamente e che proprio per questo potrà forse apparire meno ostica del successivo e più strutturato Essere al mondo. Alcune inusuali caratteristiche stilistiche e grafiche, strettamente connesse alla trattazione, sono da segnalare. Introdurre al pensare prosofico senza un linguaggio adeguato (il più vicino, ma spesso in controcanto, essendo quello della filosofia) ha comportato una quantità di adattamenti. Tra l’altro ha richiesto un certo dispendio di elencazioni precisazioni opposizioni limitazioni spesso riunite di necessità nello stesso periodo sintattico. Ne sarebbe derivato un eccesso di punteggiatura fastidioso. La scelta è stata di lasciare spesso senza virgole le mere enumerazioni, ritenendo che il lettore possa farci l’occhio. Un’altra esigenza connessa all’introduzione di termini nuovi e accezioni inconsuete è quella di riservare il corsivo nel testo quasi soltanto all’evidenziazione, rinunciando ad adoperarlo come è consuetudine per parole e locuzioni in altre lingue. Conseguenza del tema trattato, il più generale che possa darsi, era anche il rischio che le parole sconfinassero, trascinate dalla loro storia passata, verso una particolare visione del mondo a scapito delle altre. Per evitare fraintendimenti v’è un lessico ragionato in appendice, ma l’espediente più largamente usato allo scopo è stata la ripetizione frequente degli stessi vocaboli- o espressioni-chiave in contesti esplicativi ed esemplificativi differenti. Questa replicazione assidua di sicuro non giova alla piacevolezza della lettura, ma garantisce in cambio al lettore l’opportunità di esaminare con attenzione la coerenza dei significati e la tenuta degli assunti.

    Una difficoltà più di contenuto che di forma potrà risultare dalla presupposizione che la storia della filosofia occidentale sia sufficientemente nota al lettore tanto da consentire accenni rapidi e riferimenti volanti utili alla discussione, ma per il resto di scarso aiuto a recuperare autori e argomenti. Lo specialista troverà però anch’egli molto da ridire. Egli scorge qui ben poco di quanto si attende: non discreti aggiustamenti relativi a un paradigma condiviso, introdotti con larghezza di erudizione e sostenuti da un vasto apparato bibliografico e abbondanti citazioni, ma un sovvertimento dell’intera discussione che gli parrà a tratti irriverente nei modi e dal suo punto di vista oppugnabile nella sostanza. In effetti questo lavoro, anche prescindendo dai suoi difetti, non ha e non può avere un lettore ideale (oppure chiunque lo è) a motivo dell’argomento stesso che svolge: il darsi originario considerato astrattamente prima che una tradizione qualsiasi lo scomponga e ricomponga per soddisfare esigenze locali, ovvero concretamente esaminato dopo che tutte le tradizioni sono venute equiparandosi nella globalizzazione che al tempo stesso provvede ad estinguerle lasciando un vuoto di concezione avvincente ma pericoloso. Sulla condizione alquanto insolita in cui viene a trovarsi rispetto al suo tema, condizione che non va persa di vista se si vuole inquadrare correttamente il suo stesso procedere, lo scritto procedendo torna spesso a riflettere.

    Quanto agli assunti, sono sei in tutto quelli distintivi della posizione prosofica: ¹. il pre-paradigma come limite della filosofia; ². la triplice radicalità del darsi originario; ³. l’insussistenza separata delle radicalità (mondo mente medio); ⁴. l’opposizione senso/significato; ⁵. l’irriducibilità & trasducibilità radicale; ⁶. l’ulteriorità del giusto. Non serve aggiungere che si tratta di assunti molto impegnativi. Lo sono però meno di quanto sembra, dato che in prosofia non si dimostra ad excludendum, per negare l’altro e il diverso, ma ci si interroga su come comprendere insieme tutte le versioni del mondo, formulate o no, in quanto espressioni di un unico essere al mondo condiviso da tutti i viventi e consapevolizzabile nell’essere umano. Come ogni altra attività umana il filosofare subisce le opposte tensioni proprie di ogni essere al mondo, basilarmente l’adattarsi a e l’assimilare a sé [cfr. Piaget, L’épistémologie génétique, 1970]. Non c’è di che stupirsi quindi se nella storia del pensiero si scoprono due contrarie tendenze, quella della scoperta e della disponibilità, da un lato, e quella dell’afferramento e dell’appropriazione dall’altro. La filosofia non ha ben distinto il comprendere, inteso come afferramento, a cui si è soprattutto dedicata, dal comprendere il comprendere che decisamente è rimasto marginale nella sua storia perché non permette l’appropriazione, l’asservimento del concetto a un qualsiasi scopo, tantomeno quello (consolatorio per il filosofo che con esso si giustifica) della razionalizzazione dell’intero. Il pensare prosofico non è che una ripresa del filosofare ascettico a partire dal suo aspetto più trascurato. Una ripresa vigorosa. Non sono da confondere l’evitamento della appropriazione e la debolezza del pensare: il pensiero ha il dovere di essere forte, altrimenti prevalgono altre forze molto meno governabili, ma l’appropriazione va lasciata alle logiche e alle tecniche.

    All’origine del pensare prosofico v’è un’osservazione che vale in ogni caso (per qualsiasi cosa possa esser detta, fatta, tentata, immaginata ecc.), una triplice constatazione riguardante in generale il rapporto tra vivente e ambiente: non si dà organismo senza ambiente, né ambiente senza organismo, né ambiente e organismo senza modalità di comunicazione dall’uno all’altro. Nello specifico dell’essere umano l’interdipendenza si applica eminentemente alla relazione tra psichico, fisico e linguistico. Separatamente questi fondamentali del vivere non possono darsi. Il loro apparente sussistere è un prodotto illusorio della riflessione. Niente di tutto ciò che accade prescinde dal concorso della terna radicale mente mondo linguaggio. Questo vale per ciò che appare logico naturale esatto sbagliato piacevole doloroso desiderabile ingannevole ecc. Affinché qualcosa si dia è indispensabile il concorso obbligato di quelle tre reciproche radicalità la cui interazione o concorso o concerto genera ogni cosa, inclusa la loro apparente separata cosalità. Consapevolmente o meno le dottrine sofiche (postulatrici di saperi risolutivi) hanno sempre cercato di aggirare questa evidenza, sentita come ingestibile e quindi insoffribile; hanno inteso porvi riparo introducendo soluzioni che inevitabilmente diventano però anche costrizioni. Il pensare prosofico si compone pertanto di due momenti principali: la riscoperta razionale dell’essere al mondo come triradicalità originaria e l’esplorazione dei modi del sapere e dell’agire connessi con il riconoscimento e la libera accettazione di quella condizione universale che accomuna tutti gli esseri umani e i viventi sulla Terra e altrove. Questo scritto, come il gemello Essere al mondo, si occupa essenzialmente del primo momento, se si eccettua l’ultimo capitolo che riguarda la manifestazione del giusto come conseguenza di tale accettazione.

    Una facile obiezione è la seguente: com’è possibile che di prosofia – improbabile apparizione lessicale che pretenderebbe indicare un risoluto riorientamento del pensare – non si sia discusso prima, se è vero che i suoi assunti di base, pur relativizzando ogni prospettiva localmente impiantata, abbracciano ogni comprensione e valgono in ogni caso del vivere? Anticipando questa perplessità il saggio inizia proprio occupandosi dell’evitamento o confinamento del prosofico a vantaggio di una configurazione dell’essere al mondo più sicura affidabile gestibile. Di una qualche stabilità non si può fare a meno. L’opposizione senso/significato si occupa di sostenere concettualmente la compossibilità di un sapere localmente affidabile e una cognizione onnicomprensiva dell’essere al mondo. Un’opposizione (di fatto non si danno né puri sensi né puri significati, ma una sempre varia commistione di entrambi) indispensabile non solo a capire le contraddizioni del sapere esistenziale, o sapere-agire, ma anche a inquadrare correttamente il sapere non-esistenziale o positivo (logico-matematico, tecnico-scientifico) usandolo quanto serve senza concedergli di sopraffare l’altro. Le questioni più difficili toccano invece come praticare e come amministrare la riflessione prosofica. Naturalmente si ha da fare qui con un pensiero che non è gestibile alla maniera del pensiero logico, il quale lo è di suo, presuppostamente, per stretta aderenza al mero significare. Il pensare prosofico riguarda i sensi e la sensatezza dell’essere al mondo, si presenta pertanto sempre sfuggente, non però assurdo. Il libro non affronta direttamente le due questioni, per le quali occorrono ancora molte e differenti indagini, condotte a partire dalla gamma più ampia possibile di punti di vista.

    Il che è & che non è elude la presa ma si presta ad esser sfiorato in infiniti modi, dato che l’essere al mondo può solo accadere a sua immagine. La ricerca prosofica indaga anzitutto i tratti generalissimi di quell’immagine e li riassume nel concetto di darsi originario triradicale. Chi non fosse d’accordo non avrebbe da far altro che mostrare, con un detto o un gesto qualsiasi, che il dato originario è diverso – ma non potrà farlo: quali che siano il suo mondo, il suo io e il suo linguaggio, approderà al medesimo dato di fatto. Non esibisco dunque la triradicalità – secondo l’usanza debitamente invalsa tra studiosi allorché si discute di ogni altra cosa – come un’ipotesi di lavoro o una proposta di riflessione, ma appunto quale dato di fatto, più precisamente come l’additamento del fatto inevitabile che sorregge ogni atto. "È impossibile in effetti che l’animale esista – scriveva già Aristotele [Parva Naturalia, 458a 30-31] – senza le condizioni che lo costituiscono". Ovvietà circolare tanto imprescindibile quanto apparentemente inutilizzabile, ciò che sempre ha disturbato il piacere ingenuo di sapere. Negli ultimi decenni però quella stessa globalizzazione o meglio creolizzazione delle culture che ha spaesato tutte le visioni locali (inducendo peraltro anche a quel riflusso o rifiuto istintivo-isterico di cui narra per esempio Tom Wolfe nel suo ultimo romanzo, Back To Blood [2012]) ha spinto la ricerca, specialmente l’indagine mirabilmente sfaccettata dei migliori narratori contemporanei, verso quello stesso orizzonte multiprospettico del pensare che qui chiamo prosofico. Perché dunque non star buono ancora un po’ aspettando che qualcuno più addetto di me stenda un consuntivo migliore del mio? Ammetto allora che, se parecchi lavori sono dati alle stampe similmente orientati, nessuno mi ha convinto a gettare questo abbozzo, per quanto imperfetto. L’orientamento della saggistica post-filosofica mi pare tuttora legato a un qualche costitutivo o regolativo che è (o che non è). Vi si sente un residuo aroma di dottrina (anche se in forma di antidottrina o complessità o smarrimento o allegra ironia) e un’opacità enfatica verso quella che un tempo si diceva ipostatizzando la sostanza delle cose, come se rifuggendo da tutto ciò che subodora di essenziale si fosse obbligati a un pensiero dell’essere al mondo incapacitato e inconcludente.

    Più grave, l’impressione di felice prossimità a un nuovo e più comprensivo vero prodotta dalla straordinaria proliferazione di visioni del mondo si scontra ancora una volta con un sentimento amaro di sfiducia quando si osserva come l’umanità resti un’accolita di fazioni e gli ee.uu. non si intendano neppure su questioni assolutamente prioritarie. Eppure una simile impressione di prossimità al vero quale totalità comprensiva di ogni esperienza ci sarebbe sembrata palpabile anche in tanti altri momenti della vicenda umana, qualora fossimo stati là a scrutarli sotto quel profilo. Dell’intera bibliotheca occidentale e orientale quasi non si scorre pagina che non adombri il che è & che non è, perlomeno come utopia del giudizio. Il buddismo zen pare non conosca altro, anche se tende a mistificarlo come illuminazione circolarità assurdo. L’India vedica sosta nei paraggi della triradicalità originaria si può dire da sempre. A momenti, nelle ultime stazioni del pellegrinaggio del giovane Sudhana [Gandavyūha-sūtra] sembra svolgersi, per linee poetiche, quel che qui ci siam posti a investigare ben più prosaicamente. L’Occidente in particolare ha subito il fascino dell’illimite triradicale almeno tanto quanto ha provato con ogni mezzo a sopprimerlo. O forse non può darsi alcuna storia della filosofia se non tentando di sopprimere il darsi originario.

    Perciò potrei limitarmi a ripetere, per scusare i difetti di queste pagine, che l’argomento, se tocca ciò che tutti approssimano, pur risultando alla fin fine per tutti inabbordabile, non può che essere per diverso concorso di molti interminabilmente trattato e ritrattato. Quand’anche una bacchetta magica espungesse dal testo tutti i difetti imputabili all’autore, non sarebbe comunque possibile conseguire l’ottimo. E ciò non tanto per motivi estrinseci, i quali pur non mancano (ché in effetti, per le molte dimensioni del tema, un confronto esteso con la storia, un’esemplificazione esistenziale ampiamente convincente, un argomentare ovunque puntiglioso avrebbero riempito migliaia di pagine destinate ad apparire in ogni caso inconclusive), quanto per una singolare motivazione intrinseca: se quel che sostengo si potesse dimostrare, l’assunto stesso ne uscirebbe falsificato. È paradossale ma adamantino infatti che, qualora sul che è & che non è delle cose si giunga a proiettare un pensare corrispondente, questo debba risultare il più forte e, nel medesimo tempo, il più debole prodotto di ogni possibile riflettere. Il più forte, se dovrà scovare e darci il fatto originario, la prima scaturigine di tutto il poter essere e non-essere, ciò da cui promana ogni eventualità di pensiero e di azione, ciò da cui ogni caso procede; il più debole, perché tutti gli accadimenti anche i più minuti ed effimeri dispongono di un quid proprium, mentre quel pensare dovrà privarsi di ogni possibile determinazione e dimostrazione per risalire, vuoto di quiddità, all’interità ineffabile benché immanente dell’onnino-anodino. Insomma a dispetto di tutte le epistemologie esso resterà vero fino a che nessun essere al mondo potrà conclusivamente dimostrarlo, e dare con ciò al senso della vita un mero significato.

    Roma, 28 febbraio 2013

    Parte Prima. La consolazione della filosofia

    Ideazione [↑]

    TEMO che il cominciamento della filosofia non vada visto così santamente aureolato come per solito si celebra nei manuali scolastici e nei programmi educational. Anche in quei tempi remoti non meno che ai giorni nostri, a chi cercasse con bella intelligenza la via del sapere doveva parere evidente, anzitutto, un imbarazzante paradosso: se non sono gli altri (la vox populi, per esempio) a chiamarci sapienti, cosa su cui è da sciocchi contare, noi da noi stessi non possiamo farlo, pena non tanto il ridicolo, ma l’autoriferimento, cioè l’immediato logico, che è sempre fin troppo vero in quanto afferma se stesso. Bisognò dunque trovare abbastanza presto un nome che, pur connettendo la sapienza a chi a lei si consacrava, non sembrasse gratuitamente presupporre l’automatico aderire dell’una all’altro. Di qui la sagace invenzione del termine filo-sofia che consente non solo l’aggiramento della difficoltà psicologica, ma soprattutto, lasciando credere che in effetti la sapienza sussista per conto suo, indipendentemente da chi la ricerca, apre la strada, o piuttosto lastrica un gran viale di sfingi, aperto alle più diverse processioni di idee. Si dovrà attendere l’autocentricità dichiaratamente onnimolitoria del Nietzsche di Ecce Homo per sentire un intellettuale annunciare: Warum ich so weise bin. Warum ich überhaupt so klug bin. Warum ich Einiges mehr weiss. Warum ich so gute Bücher schreibe... [Perché sono così saggio. Perché sono così particolarmente accorto. Perché ne so qualcosa di più. Perché scrivo libri così buoni].

    È illuminante come il filo-sofo, colui che (eminentemente) idea, trovi sempre il modo di contentarsi delle sue costruzioni, del suo proprio ideato. Qualunque cosa creda (o non creda o asserisca doversi dubitare o criticare), egli prima di tutto si crede. Eppure dovrebbe saper bene come funziona l’ideazione, capirlo meglio di chiunque: averne esperienza, oltre che diretta, riflessa e meditata. L’orologiaio non ignora il limite d’accuratezza dei suoi cronometri e da che dipenda; il contadino sa fino a quale profondità dissoda la sua vanga. Soddisfatto dei prodotti della riflessione giudicante, in particolare della sua, a cui non può non prestar fede, l’ideatore non si lascia altrettanto affascinare da manifestazioni altre dell’umano, quelle in particolare ch’egli reputa infra- o preter-ideative, umane accidentalmente. Non le considera abbastanza speciespecifiche per l’animale razionale. Ma l’esperienza comune sa che, se il raziocinio è una risorsa preziosa e la poïesis ciò in cui l’e.u. eccelle, c’è tuttavia molto altro nel vivere che ci appartiene e designa. Gli atti di vita riverberano piacere e desiderio, sofferenza e dignità, entusiasmo e riluttanza, gioia e amarezza, impetuosità e tenacia, curiosità e divertimento, simpatia fiducia pietà… Per tacer delle speranze, della vocazione, delle angosce, dell’amore. E gl’incostanti registri delle appercezioni, gli specchiamenti e i tagli della memoria, il fondo inesauribile dei linguaggi appresi, le destrezze e le tranquille andature dei comportamenti acquisiti, i ritmi e le aritmie dell’in fieri individuale… Tutto quel che la persona ha di suo proprio non è ideabile, né potrebbe esserlo, sebbene sia proprio l’unico – ben oltre l’Einzige stirneriano e tutte le altre unicità messe insieme – ciò che a ciascuno più importa. Non è né la ragione né la passione quella che nel vivere si riflette, bensì l’essere umano. Perfino la mente (l’ubiqua mind del secondo Novecento) pare già per tanti versi un’estrapolazione. Il pensare è organato nel vivente, e le diverse modalità d’intelligenza sensibilità comprensione compassione ecc. compartecipano all’atto di vita.

    Nella classifica dei sofismi la scissione della mente dal corpo merita senz’altro una menzione speciale. Per comoda consuetudine se ne addossa la colpa a Cartesio, ma a ben guardare egli ha gettato luce su quel che molti altri Occidentali, prima e dopo di lui, hanno più o meno genialmente oscurato, dico la triste solitudine della cosa pensante. Kant ritenne proponibile una ragione critica, giudice naturale di se stessa. Fece largo così, inavvertitamente, a una nuova idea della ragione, la trans-razionalità o assoluto trascendentale. Per tacere della virtus theoretica apparentemente illimitata che l’ideazione possiede in pensatori ancora vicini, sui quali s’è spesa senza sospetto parte della nostra giovinezza (tipo Marx, Nietzsche e Freud). La serietà del filosofo dipende da quella delle sue idee; ma la serietà delle idee a sua volta? O vogliamo ritenere, con Antistene ed altri, ben più recenti, che non si diano in alcun caso idee serie, tutt’al più provocatorie ironiche ciniche? Anche questa è un’idea. L’ideazione ama le opposizioni. E quindi predilige ogni sorta di dialettica, dalle più grezze, che sono tante, alle poche davvero elaboranti. Le ama perché in quanto partizioni del tipo tesi/antitesi può gestirle a piacimento, restituendo alla mente l’illusione di controllare l’intero. Ma l’intelligenza, fuori dei libri è facile notarlo, si dà genuinamente solo nella corrente promiscua del sapere & agire eventuale.

    La variegata molteplicità delle intelligenze modulantisi nella fisiologia stessa del vissuto individuale è un’acquisizione epistemologica, benché recente, ormai irrinunciabile [Fodor, J. A., The Modularity of Mind. An Essay on Faculty Psychology. Cambridge: The MIT Press]. Pertanto, per cominciare, non intendo adottare un unico ingannevole termine (computations cognitions constructions) per tutto quel che agli ee.uu. s’agita in testa. Certo, niente impedisce di adottare una convenzione semiotica del genere  : ‘treno’ (per cui «il  è in orario» significherà che ‘il treno è in orario’), convenzione in base alla quale denominare convenzionalmente ‘ideas’, come fece Locke, o in qualche altro modo, tutto ciò di cui l’e.u. risulta mentalmente capace; tuttavia, una tale operazione si svolgerebbe nell’ordine estrinseco del significare e non cambierebbe affatto i termini della questione. Appunto i treni, p.es., sono denotabili e connotabili perché la mente elabora sotto tale nome una molteplicità di raffigurazioni esperienziali e esistenziali: averne visti passare o sentiti fischiare in lontananza, esserci saliti una volta o mille, averne atteso il passaggio, averne letto e sentito dire e fantasticato su… Un tempo il 4 novembre in Italia gli scolari visitavano le caserme e salivano sui carri armati: se ne facevano, erano indotti a farsene, intanto, un’idea giocosa. La costruzione o piuttosto collage di una cosa avviene scontornandone e al tempo stesso aggregandone la rappresentazione complessa, in un confronto (intimo interpersonale storico-culturale) aperto al paragone con tutte le altre cose e in particolare con quelle associabili per forma uso scopo contesto analogia antilogia e via dicendo. Ne risulta un concetto, l’opposto di un’idea, una provvisoria confezione di aspetti, costrutto plastico e mobile nel tempo. Un luogo dell’intero intreccio, nodo di un tappeto doppiamente fatato: già vola da tempo immemorabile e ancora giace teso sul telaio, in continua lavorazione.

    Kant, nella Dialettica trascendentale, dimostra come certe vecchie idee cosmo- psico- teo-logiche implichino totalità inesperibili. L’incondizionato non si abbraccia. Nel minuto del vivere ci si rende conto che, come non lo è la totalità dell’intellegibile, in nessun caso sono propriamente rappresentabili concezioni a tutto tondo, a meno che non si decidano con un atto di costrizione le condizioni di cui tener conto e quelle da ignorare. Ciononostante, di idealità rotonde e di totalità, più o meno ingenuamente proclamate o negate, più o meno astutamente mascherate, ridondano le sophíai della storia (Aristofane [Rane, 676] usa ironicamente il plurale raro di sophía per dire ingegni profondi). Chi s’è provato a dare un nome e con ciò una denotazione a una qualsiasi totalità ideale è caduto o nella semplice semiosi, scambiata per nozione (lo strumento per il fine), o nella costruzione autoreferenziale, quale che fosse la sua idea di idea. Dio della luce per il pesce degli abissi è la lanterna che gli penzola davanti, propaggine della sua testa. La storia delle idee ha messo a nudo questa difficoltà e però anche la ripugnanza estrema del pensiero ad accettarla. L’apprensione dell’intero, anelito dei dogmatici, è anche il dogma occulto di scettici e sensisti, pragmatisti e strutturalisti, ermeneuti e analitici. Ciascuno offre una via, quale che sia, al suo intero o para-intero d’elezione. Hegel ci perdonerà: per quanto articolata, qualsiasi idea (un nodo stabile di cognizioni e, nel migliore dei casi, dei relativi modi del conoscere) è necessariamente ideotica. Necessariamente, perché dall’olos dentro cui si muove, la mente può solo farsi ospitare, confinata nei suoi limiti. L’opposto (abbracciare l’olos) è un pio desiderio intellettuale, che si scontra con la condizione di invaso dalla vita, propria di ogni stare al mondo. Il vero demone, di cui tra i primi Socrate sviandosi tentò la vestizione (e Nietzsche tra gli ultimi), è la nuda vita.

    Se l’ideazione dell’olos ci è preclusa, non va troppo bene neppure quando il pensiero si sofferma su qualcosa di circoscritto. Infatti l’idea di qual-cosa implica un’adeguatezza (rei et intellectus), diversamente non potremmo servircene come idea di quel quid, pur con tutte le limitazioni del caso (per quel che ne sappiamo, per quanto ci compete, per quel che ci interessa ecc.). Certo possiamo sospendere il giudizio. Abbiamo un’idea di ‘kazako’ ma in partenza per il nostro primo viaggio in Kazakistan saggiamente decidiamo di sospendere quell’idea pre-venuta e di ricostruirne daccapo il concetto. Nondimeno, non appena gettiamo un nuovo sguardo su questa che ufficialmente si denomina Qazaqstan Respublikasy i nostri sensori linguistici, mediamente approssimativi, registreranno sia quelle q senza u al seguito, che allontanano la cosa verso un incerto Oriente, sia l’evidente imprestito dal latino, che pone la questione dell’inaspettatamente vicino. Que sais-je? Nel giorno per giorno di un’esistenza non asservita, il gioco del prendere e lasciare le cose, del tendere e lascare i concetti, è una manovra ininterrotta, come accade su una vela ben governata. Quando cerchiamo di afferrare ciò che succede, per esprimerlo spiegarlo controllarlo servircene, non abbiamo altra scelta, dobbiamo, come si dice, fissare le idee. Eppure tanta ideazione non è affatto indispensabile a una vita felice, costituisce anzi a quello scopo o un triste ostacolo o uno scadente rimedio. La felicità del vivere è nella combinazione fortunata degli eventi e nell’accortezza degli atti, tra i quali ovviamente anche gli atti di pensiero (o concetti), ossia il pensare in quanto modalità dell’agire. I modi proprî dell’ideare riflettono invece altre esigenze, tra cui in particolare quelle che consentono l’evento ideativo stesso. Niente può accadere se non nelle regole del proprio attuarsi: la verticalità condiziona la poesia, né può esservi musica fuori del tempo. È un punto, questo, così ovvio che si può oltrepassarlo senza farvi caso. Occorre invece coglierne tutte le implicazioni. La prima esigenza intimamente connessa alla natura stessa dell’ideazione è la netta distinzione. Ideare è infatti delimitare, circoscrivere. L’ideare è radicato in un vedere, e di ogni visione è presupposto un certo mettere a fuoco. Il termine più interessante in quest’ottica è contemplare.

    Contemplazione [↑]

    Con la drastica contrapposizione tra vita attiva e vita contemplativa, corrispondente in filosofia alla reciproca alterità tra razionalità pratica e teoretica, si oscura la prima origine del termine ‘contemplare’, ove si allude propriamente a un atto, a un gesto creativo. Prima di significare tempio, edificio destinato al culto, o semplicemente luogo sacro, templum indicava nella latinità remota lo spazio circoscritto dal gesto dell’augure: Quelle regioni del cielo che disegnavano gli àuguri per prendere gli augùri, come ben dice il Vico. Munito del lituum o bastone da cerimonia, l’augure tracciava in aria una sorta di partizione o limite invisibile dentro cui sarebbe avvenuto il fatto sacro e accertato l’auspicio. Tale recinto consentiva al sacerdote di distinguere tra gli eventi quelli che comportavano signum da quelli irrilevanti. L’indovino comincia il rito con un atto costitutivo, una prima distinzione non tra ciò che è, o ha da essere, e ciò che non è e non può essere, ma tra l’ambito dove la predizione potrà aver luogo, dove il divino potrà manifestarsi, e il rimanente del campo, l’area dell’insignificante. Il templum era pertanto di volta in volta deciso dall’officiante, come voleva il cerimoniale, quasi ritagliato (το τέμενος) in aria con un gesto de terminante: la predizione prima riguarda così il quadro stesso dentro cui situare il predire. Inoltre templum ha un’affinità radicale con tempus. La cognizione del tempo era sorta dalla segmentazione del continuo sulla base dei cicli naturali (giorni lune stagioni ecc.), ma l’augure se ne appropria: il suo contemplare è un decidere che pre determina l’abside spazio-temporale dentro cui il che è accadrà o verrà a mostrarsi… qualcosa di molto vicino all’idea di contemplazione di cui s’è spesso avvalso il filosofo. Pare di avvertire nei modi del pensiero un fondo occulto giunto a noi dagli antichi sortilegi.

    L’idea di tempio ha subìto una sua necessaria vicissitudine interessante da esaminare. Se pensiamo alla contemplazione dell’augure, alla cerimonia mediante cui descrivendo un cerchio in aria egli circoscriveva il luogo e il tempo dell’apparizione del segno, dobbiamo ammettere che il suo atto sacro comportava un’altra circolarità ai nostri occhi problematica. L’indovino infatti attende il segno dagli dèi e al tempo stesso ne predetermina il cerchio d’apparizione, e con ciò la validità, in base a un limite di inclusione/esclusione che proprio lui stabilisce. Come dire che l’evento sorge, secondo una dia-logica molto fuzzy, da un’interrelazione di cui sono all’origine sia l’antecedente (il divino che si esprime) sia il conseguente (l’umano interprete che pre-dispone l’interpretazione). Un doppio legame, questo, che la coscienza religiosa non ha mai troncato, per il fatto che è tecnicamente impossibile rinunciarvi. Di fatto, ogni contemplare è comunque pre-concetto per via dell’incastro ermeneutico di testo interprete tradizione ecc. Ma tale ulteriore pre giudiziale, che potremmo dire gadameriana, di cui qui e oltre queste pagine poco si occupano, conta in un secondo momento, una volta che il segno è apparso e la tavola incisa. Inoltre l’indovino si confronta talora con monstrua, segni mirabili che s’impongono per la loro eccezionalità agli occhi di tutti. In tali occasioni l’evento-segno non dipende da lui se non per l’interpretazione. Ma questo è il caso-limite, quando l’ignoranza delle cause efficienti genera spettri che rompono l’incerto equilibrio tra apparire e determinare. Di regola l’augure si confronta con un bisogno di sapere che non può attendere a lungo l’evento mirabile, vuole anzi disporne al momento del rito. Tocca dunque all’uomo invocarlo, al sacerdote. Egli si trova di fronte lo spazio indescritto e il tempo indefinito, ove niente e tutto può accadere (mille voli di corvi, nell’arco intero del cielo, ogni giorno, ogni ora). Ma dove tutto concomita, niente coincide. Deve dunque provvedere lui un ricettacolo al segno, un ospizio (una crêche) al divino. Questo accogliere non è piuttosto un generare, un far sorgere, un assegnare? È il dilemma in cui incappò l’evangelista (o chi per lui) quando s’indusse a sovrapporre una cometa al racconto della nascita affinché divenisse una Natività. L’antico sacerdos, come vuole l’etimo, dà il sacro. Questo dare è pieno: coi suoi atti corresponsabili egli compartecipa

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