Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Storia del Cristianesimo Vol.3: Evo moderno
Storia del Cristianesimo Vol.3: Evo moderno
Storia del Cristianesimo Vol.3: Evo moderno
E-book1.016 pagine15 ore

Storia del Cristianesimo Vol.3: Evo moderno

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il cristianesimo è una religione a carattere universalistico, originata dal giudaismo nel I secolo, fondata sulla rivelazione ovvero sulla venuta e predicazione, contenuta nei Vangeli, di Gesù di Nazareth, inteso come figlio del Dio d'Israele e quindi Dio egli stesso, incarnato, morto e risorto per la salvezza dell'umanità, ovvero il Messia promesso, il Cristo.
Classificata da alcuni come "religione abramitica", insieme a ebraismo (da cui essa nasce) e islam, è la religione più diffusa, con una stima di circa 2,3 miliardi di fedeli nel mondo al 2015.

Ernesto Buonaiuti (Roma, 25 giugno 1881 – Roma, 20 aprile 1946) è stato un presbitero, storico, antifascista, teologo, accademico italiano, studioso di storia del cristianesimo e di filosofia religiosa, fra i principali esponenti del modernismo italiano. Scomunicato e dimesso dallo stato clericale dalla Chiesa cattolica per aver preso le difese del movimento modernista, fu prima esonerato dalle attività didattiche, in base ai Patti Lateranensi tra Chiesa e Regno d'Italia, e poi privato della cattedra universitaria per essersi rifiutato, con pochi altri docenti (appena dodici), di giurare fedeltà al regime.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita25 giu 2020
ISBN9788835854876
Storia del Cristianesimo Vol.3: Evo moderno

Leggi altro di Ernesto Buonaiuti

Correlato a Storia del Cristianesimo Vol.3

Ebook correlati

Storia (religione) per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Storia del Cristianesimo Vol.3

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Storia del Cristianesimo Vol.3 - Ernesto Buonaiuti

    2020

    Il tramonto cristiano

    LA DISSOLUZIONE DELL'UNITÀ MEDIOEVALE

    I consuetudinari criteri nel delimitare cronologicamente il Medioevo, per separarlo dall'età moderna, come analogamente i criteri applicati per delimitare la fine del mondo antico e le origini del Medioevo, non corrispondono affatto alla realtà.

    Noi abbiamo avuto in Europa una prima rinascita nel secolo duodecimo, col fermento introdotto nella spiritualità cristiana dalla riforma cistercense, dalla predicazione di Gioacchino da Fiore, dal movimento francescano.

    Poiché la teologia è sempre religione congelata, e la filosofia è teologia scarnificata, mentre la religione è innanzi tutto visione drammatica degli ultimi eventi, cioè a dire escatologia, la storia della religiosità umana, e in particolare la storia della religiosità mediterranea e cristiana, hanno avuto le loro tappe segnate costantemente dalle reviviscenze escatologiche, da rinnovate aspettative cioè di radicali palingenesi spirituali.

    Come noi abbiamo visto nel primo volume di questa nostra Storia, il cristianesimo primitivo, non difformemente da tutte le altre religioni riformate o messianiche, quali la religione di Zarathustra e la predicazione di Buddha, era stato essenzialmente visione degli ultimi eventi e, sulla base di tale visione, era stato rovesciamento di valori e consegna precisa di trovare la vera vita, attraverso il rinnegamento della vita empirica, e il genuino progresso del disvelamento della regalità di Dio.

    Questa visione degli ultimi eventi si era venuta poi progressivamente solidificando in una serie di correnti teologali, che avevano tutte in pari modo contribuito alla formazione della ortodossia ecclesiastica.

    Al declinare del Medioevo, anche la predicazione di Gioacchino da Fiore fu essenzialmente visione di quegli ultimi eventi, che avrebbero sciolto la tradizione codificata della dogmatica cristiana in una originale economia spirituale, fatta di contemplazione e di esperienza mistica.

    Come abbiamo poi veduto negli ultimi capitoli del volume precedente, un'analogia veramente impressionante esiste fra i movimenti in cui si venne solidificando, agli inizi del cristianesimo, la materia incandescente della primitiva esperienza evangelica, e i movimenti culturali e filosofici in cui, undici secoli piú tardi, dopo la tumultuosa crisi degli spirituali francescani, si venne solidificando il commovimento spirituale suscitato dalla predicazione gioachimitica. Fra i due momenti della storia del cristianesimo corre però una differenza sostanziale.

    La primitiva esperienza cristiana recava in sé sconfinate possibilità di conquista. Portava i germi di una originalissima creazione storica. E la teologia e la filosofia, che uscirono da quella esperienza messianica, offrirono le linee direttive ad una civiltà nuova, che fu la tipica e inconfondibile civiltà del Medioevo.

    L'opposizione dura e decisa della Chiesa al messaggio di Gioacchino da Fiore, che il francescanesimo aveva cercato di incorporare nella sua religio, frustrò le virtú creatrici della nuova esperienza mistica. I vari orientamenti filosofici che uscirono dal dissiparsi del movimento gioachimita e francescano non furono che risurrezioni di vecchi indirizzi intellettuali e culturali, che il cristianesimo ufficiale del Medioevo aveva potuto utilizzare senza rischio, solo in virtú della sempre presente consapevolezza delle realtà trascendenti ed eterne, che il Vangelo aveva conglobato e racchiuso nella sua visione estatica del veniente Regno di Dio.

    La rinascita di queste correnti filosofiche aveva ora valore di sintomo e di presagio. Con le vecchie concezioni filosofiche rinascevano le concezioni precristiane, cosí della vita individuale come della vita associata.

    Le idealità ecumeniche della fraternità nella fede e nei carismi, che si erano polarizzate nei due valori affiancati della Chiesa e dell'Impero, e che avevano sorretto la grande costruzione politico-sociale dell'Europa medioevale proprio in virtú di quel principio squisitamente cristiano che fa della vera civiltà morale degli uomini il risultato di un rinnegamento pregiudiziale della stessa capacità umana di costruire una civiltà, si erano andate cosí intimamente affievolendo e logorando, da essere ormai destinate a cedere il posto a ideali nazionali circoscritti e a programmi angusti di autonomia etnica e, di rimbalzo, di profana autosufficienza civile e religiosa. Le nazioni moderne erano alle porte, anche se si doveva aspettare molto tempo ancora perché della nazionalità si intuisse l'indagine e si fissasse la definizione. Gli istituti umani precedono sempre lo sforzo di farne la teoria, e la realtà preesiste sempre in qualche modo alla sua trascrizione nazionale ed ideologica.

    La Romània, l'unione cioè dei popoli rivieraschi del Mediterraneo, sotto l'egida, la guida e la insegna di Roma, era esistita già da parecchi secoli, prima che gli scrittori del circolo di Sant'Agostino, come Possidio e Paolo Orosio, adoperassero il vocabolo e ne erigessero la teoria.

    Anche ora, al tramonto del secolo decimoquinto, le nazionalità europee cominciavano ad avere una sagoma e un programma, molto tempo prima che si fosse escogitata una qualsiasi teoria della nazionalità.

    Una teoria infatti della nazionalità non nasce in Europa, si può dire, effettivamente, prima di Gian Giacomo Rousseau e di Herder. È Rousseau che, superando il cosmopolitismo individualista che aveva signoreggiato nel Settecento, darà con l'assioma ubi patria, ibi bene, un contenuto morale all'idea nazionale. E Herder dal canto suo, partendo dal presupposto caro alla cultura germanica del suo tempo, che nel decorso secolare della storia la humanitas non ha possibilità di concretarsi e di realizzarsi se non attraverso gli organismi nazionali, darà alla nazione i suoi connotati di individualità storica. Ma dovremo scendere ancora piú tardi, vale a dire fino ad alcuni saggi di Ernesto Renan, rimasti memorandi, per trovare una indagine seria e scientificamente concepita, consacrata alla delimitazione del contenuto di una entità nazionale. Anche allora però si rimarrà molto nel vago e nell'indeterminato, lasciando successivamente o contemporaneamente spiegare una parte non trascurabile agli elementi etnici, morali, religiosi, tradizionali, capaci di suffragare un concetto pur che sia della nazionalità.

    Si direbbe una volta di piú che là dove manca un addentellato qualsiasi nelle concezioni e nella tecnica organizzativa di Roma per definire una delle nozioni dominanti oggi, noi ci troviamo nella inguaribile impossibilità di farci una nozione chiara di un determinato nostro fenomeno sociale.

    Ora il concetto di nazione, nonostante la sua etimologia latina, anzi, proprio sulla base della sua etimologia latina, si rivela, in pieno, un concetto non romano o meglio, antiromano.

    Natio, nel suo significato originario romano, come indica la sua etimologia, non designa altro che tutto quello che nasce. Varrone, il grande Varrone, adopera il vocabolo per esprimere, come sempre con un certo senso di augusta venerazione, il prodotto del suolo, tutto quello che germina e nasce dalla capacità produttiva della terra. E poiché anche l'umanità è a suo modo una terra feconda e le generazioni umane sono le sue periodiche messi, nazione, per gli scrittori latini, ha un valore tipicamente e fondamentalmente etnico. Nazione pertanto è sinonimo di popolo e di razza. In questo senso lo usano gli scrittori latini, cosí classici come cristiani. L'organizzazione statale, il regime politico, la res publica, sono tutt'altra cosa, e prescindono completamente dai connotati etnici. Poiché una solida organizzazione statale, per la intuitiva sapienza romana, ha esigenze imperiose e leggi indeclinabili, che non hanno nulla a vedere con il decorso fluido e precario delle correnti migratorie dei popoli, e della installazione topografica delle razze.

    La Cristianità medioevale aveva ereditato da Roma, trasumanandola con la sua visuale del Regno di Dio e dei suoi inviolabili interessi, la concezione romana della res publica e della civitas. E sotto l'impulso dei suoi presupposti dualistici e trascendenti, aveva avviato la collettività credente europea sul binario rappresentato dalla concezione delle due città, dualisticamente escogitata e patrocinata da Sant'Agostino.

    Ora, in séguito alla profonda rivoluzione dei tessuti demografici e costituzionali della civiltà europea, le concezioni agostiniane si rivelavano superate dal decorso fatale degli avvenimenti. La grande famiglia europea si disgregava, e ogni popolo prendeva la sua via. Le ripercussioni nella struttura della società ecclesiastico-cattolica ne sarebbero state funestamente incalcolabili e irrimediabili.

    È indiscutibile che il fatto nazionale, prima ancora che il concetto, è nato in Inghilterra. Sicché, quando poi l'Inghilterra si è fatta fautrice e banditrice del principio di nazionalità e dei conseguenti principi liberali, essa oltre a patrocinare un ideale che, applicato in Europa, non poteva non tornare a vantaggio del suo comportamento di fronte al complesso della vita continentale europea, non faceva altro che raccomandare e celebrare un suo peculiare modo di vivere la sua vita associata.

    Sono soprattutto gli storici inglesi, con a capo il Creighton, che hanno riconosciuto essere stata l'Inghilterra il primo Paese in Europa a sviluppare in sé un carattere nazionale, tendendo cautamente a ritrarsi dal complesso sistematico della politica europea, per battere la propria via. Nel mondo antico la città era stata la sola vera unità ed è soltanto attraverso lo stoicismo e poi, ben piú e meglio, attraverso il cristianesimo, che l'idea della comunità universale degli uomini ha trovato il modo di affermarsi e di concretarsi nella nostra storia mediterranea. Per la sua stessa costituzione geografica l'Inghilterra doveva esser tratta prima di ogni altro Paese in Europa a orientarsi su basi nazionali, cosí dal punto di vista politico come da quello economico.

    Ed è singolare osservare che con l'emergere di questo sentimento nazionale, cosí in Inghilterra e poi, in linea conseguente, in Francia, al tramonto del secolo decimoterzo, una delle prime manifestazioni che si hanno è quella dell'antisemitismo e della espulsione degli ebrei. La Bolla Aurea dell'imperatore Carlo IV di Lussemburgo del 1356 sta a segnare in qualche modo l'atto ufficiale e la epifania pubblica della lacerazione della ideale unità, rappresentata da quell'Impero che i Pontefici avevano creato all'alba del nono secolo, come contropartita necessaria e insurrogabile del proprio magistero religioso universale.

    Coronato con la corona del regno italico nella basilica ambrosiana di Milano il 6 gennaio 1335, Carlo IV scendeva a Roma nell'aprile successivo per ricevervi la corona imperiale. Ma subito dopo, sempre per quella latente rivalità che aveva messo di fronte l'uno all'altro il Pontefice e l'imperatore, nonostante il carattere sacrale dei loro rapporti teorici, aveva dovuto riprendere la via del Nord, trovando dovunque ambienti ostili e volti minacciosi. L'Italia soggiaceva ormai con i segni della piú palese impazienza ed insofferenza, ai rappresentanti dell'autorità imperiale. Rivalicate le Alpi, Carlo IV si dava al riordinamento della sua nativa Boemia, elargendo precisamente quella Maiestas Carolina, e procedendo a quella riorganizzazione delle elezioni imperiali e dei diritti dei principi elettori che, fissate con la cosiddetta Bolla Aurea, venivano in pratica effettivamente a riconoscere le varie configurazioni nazionali nell'àmbito dell'Impero.

    La vita universitaria parigina del secolo decimoterzo come del secolo decimoquarto aveva conosciuto già la divisione delle nazioni sulla base dei gruppi etnici, conglobati nello stesso territorio francese: ma si trattava di distinzioni puramente accademiche.

    Il grande scisma, con la sua lotta pertinace fra Italiani e Francesi nel tentativo di subordinare la dignità papale a correnti nazionali, era stato un sintomo ben piú eloquente ed inquietante del largo abisso che veniva scavandosi fra nazione e nazione in Europa. La incapacità dell'Europa cristiana, all'indomani della caduta di Costantinopoli nel 1453, di compiere un concorde sforzo contro l'espansione minacciosa dei Turchi, nonostante gli appelli reiterati di Callisto III e di Pio II, fu un segno inoppugnabile delle linee ormai divergenti seguìte dalle varie nazioni europee.

    Se Costanza segnò l'ultima occasione per l'imperatore di spiegare una missione internazionale, il Congresso di Mantova fu in qualche modo la prima assemblea di Potenze nazionali che l'Europa conoscesse.

    Quando, nel 1457, Ladislao Postumo, re cosí di Boemia come di Ungheria, morí, le due nazioni, prescindendo completamente da qualsiasi considerazione dinastica, si eleggevano sovrani distinti, e Mattia Corvino saliva al trono ungherese, mentre il trono di Boemia era occupato da Giorgio Podiebrad.

    Sicché si può dire che al tramonto del decimoquinto secolo tutti i principali paesi europei avessero trovato il centro della loro unità nazionale e il simbolo della loro vita e dei loro interessi autonomi in una monarchia assoluta, ad eccezione dell'Italia e della Germania, che appunto per il loro secolare e sostanziale collegamento con le idee universali della Chiesa e dell'Impero, dovevano stentare ancora per qualche secolo ad avviarsi sul sentiero della loro circoscritta fusione nazionale.

    Questo processo di fusione nazionale non avrebbe potuto effettuarsi in questi due paesi, dove la universalità dell'idea cristiana medioevale nella sua duplice incarnazione ecclesiastica ed imperiale aveva gettato le sue profonde radici, senza una revisione opportuna e conveniente delle idee religiose che avevano signoreggiato, condizionato e disciplinato la universalità spirituale del mondo medioevale.

    La costituzione nazionale della Germania e dell'Italia doveva essere fatalmente preceduta dai due grandi movimenti della riforma e della controriforma.

    Alla vigilia della riforma la Germania imperiale comprendeva un territorio immenso, dalle coste dei Paesi Bassi alle regioni ungheresi del Danubio. Sotto l'uniforme, greve pesantezza del regime unitario, assistito dal consiglio della grande assemblea feudale, la Dieta, pullulava una incomposta molteplicità di principati indipendenti, ecclesiastici e laici, capricciosamente innestati l'uno sull'altro. Giuridicamente elettivo, sebbene per generazioni la suprema dignità non fosse mai esulata dalla casa di Absburgo, l'Impero era, dal 1356, affidato alla designazione di sette principi elettori; tre: il re di Boemia, gli elettori di Sassonia e di Brandeburgo, sull'Elba; quattro: il conte Palatino e gli arcivescovi di Magonza, Treviri, Colonia, sul Reno. Un'oscura inquietudine sospingeva latentemente l'immensa e molecolare vita della Germania imperiale, insufficientemente ormai salvaguardata dagli allentati vincoli della Germania civile e religiosa, verso nuove forme di organizzazione spirituale. Il programma massimo di una rifusione morale mirava a stabilire, dallo stretto di Dover alla Vistola e dal Baltico all'Adriatico, una suprema Corte di Giustizia unica, un comune conio della moneta, un'unione doganale. Ma i metodi piú o meno consapevolmente vagheggiati per la instaurazione di un cosí allettante miraggio non erano concordi. I principi da un canto erano decisi a mantenere integra la loro indipendenza, e tutte le loro mosse verso un'intesa unificatrice postulavano invariabilmente la prospettiva di una oligarchia dotata di poteri, e di parallele limitazioni alla potestà imperiale. Gli imperatori dall'altro non concepivano un rafforzamento dei rapporti unitari che non rappresentasse un irrigidimento della loro potenza autocratica.

    Eletto re dei Romani nel 1486, Massimiliano era successo nell'Impero al padre Federico III nel 1493. Figura di singolare rilievo, anima ricca ed eccezionalmente duttile, piena di affascinante entusiasmo, aveva impresso un ritmo intenso alla spiritualità germanica del cadente secolo decimoquinto. Ma gli interessi dinastici avevan preso piú di una volta il passo sulle sue piú solide aspirazioni all'unificazione teutonica. Alla morte inattesa di Massimiliano, il 12 gennaio 1519, le ripercussioni funeste della sua politica bifronte si fecero efficacemente risentire.

    Per cinque mesi gli intrighi più sottili furono spiegati dai partigiani di Francesco di Francia e dal giovane re di Spagna, Carlo, nipote di Massimiliano, per assicurare il diadema imperiale all'una o all'altra costellazione politica, tra cui oscillava in quel momento l'asse della politica europea. Il partito francese poté lusingarsi un istante di aver guadagnato mercè la corruzione la maggioranza degli elettori. Ma la netta preferenza delle masse si era pronunciata per l'erede spagnolo di sangue germanico. E il consenso pubblico dovette pesar qualcosa nella decisione dei convocati a Francoforte sul Meno, che il 28 giugno 1519, dalla cappella di San Bartolomeo, proclamavano erede del Sacro Romano Impero Carlo V. Ma aveva avuto veramente un lucido fiuto la voce del sangue? Può darsi che mai nella storia quella tradizione exogamica, a cui sembrano volersi mantener fedeli le case regnanti, abbia piú decisamente sconvolti ed alterati i tipi e le attitudini dei regali rampolli. Carlo aveva ereditato solo dalla madre le qualità caratteristiche del proprio temperamento. A Worms, in quella medesima Dieta che cercherà di instaurare un Reichsregiment limitativo del potere sovrano, da cui Carlo fu ben felice di affrancarsi mercè la cooperazione delle città libere, Lutero, piú che un germanico, si troverà di fronte uno spagnolo. E il dato è pieno di significato.

    Frattanto, tutte le forze latenti della vita associata germanica convergevano automaticamente verso un rinnovamento integrale delle consuetudini tradizionali e delle forme tecniche e culturali ereditarie dal Medioevo. Soggiacente a tutto il sistema sociale medioevale è il presupposto che la terra costituisca l'unica base economica della prosperità e del benessere. Nella Germania dei secoli di mezzo, specialmente, l'economia agricola domina incontrastata e provoca, con logica ferrea, la configurazione dei rapporti sociali. Ogni distretto produceva quanto occorreva ai propri circoscritti bisogni. L'efficienza economica della città era tutta compresa nella capacità delle sue corporazioni artigiane di scambiare i prodotti della propria industria con il superfluo della produzione agricola, affluente al mercato. Il commercio, rapidamente incanalatosi lungo i grandi corsi fluviali, vere arterie della incipiente circolazione manifatturiera, creò le nuove fortune dei centri cittadini e suscitò la nuova classe ricca e le nuove associazioni degli interessi borghesi. Le scoperte geografiche e il conseguente sforzo per la formazione di una genuina rete di traffici mondiali alimentarono in singolare misura lo sviluppo crescente delle fortune commerciali e dei ceti capitalistici. Le sùbite ascensioni della vita economica provocavano di rimbalzo l'innalzamento progressivo del tenore normale della quotidiana esistenza, e, col rapido moltiplicarsi della popolazione, procedevano di pari passo l'elevazione della cultura e il logoramento delle tradizionali consuetudini della moralità. Il graduale processo di capitalizzazione dell'industria aveva sgretolato i vecchi organismi dell'artigianato cittadino, creando, di rimbalzo, un proletariato aperto a tutti i rancori e a tutti i risentimenti, alle cui sorde irritazioni e alle cui inquietudini incomposte doveva offrire agevolmente materiale infiammabile l'elemento agricolo, che non era riuscito a salvare la continuità dei propri interessi con le trasformate condizioni ambientali.

    La Germania plebea del secolo decimoquinto è tutta pervasa dal senso perturbatore di un disagio che non si placa e non si compone, da un'inquieta e indistinta aspirazione ad una forma superiore di assestamento, che cerca invano il suo nuovo equilibrio. Nell'ultimo quarto del secolo soprattutto la predicazione ruvida e accesa di Hans Böhm commosse piú profondamente gli strati sofferenti della plebe germanica. Mosso da quel distretto che può raffigurarsi come un triangolo, fra le città di Aschaffenburg, Würzburg e Crailsheim, nelle vallate dello Spessart e del Taubergrund, il messaggio di questo cantastorie di villaggio, assurto ad un tratto alle mansioni di un'infocata propaganda mistico-sociale, destò entusiasmi travolgenti ed emozioni violente. Hans Böhm appariva improvvisamente nella domenica di Mezza Quaresima del 1476, bruciando clamorosamente al cospetto della folla i suoi strumenti, e dichiarando in aria contrita che se fino allora si era costituito ministro della pubblica dissipazione, da quel momento sarebbe stato un puro araldo di grazia. La forma della sua convertita esistenza, l'accento della sua oratoria ispirata, attrassero fulmineamente la fraterna simpatia delle masse. Suo pulpito poteva essere indifferentemente una bigoncia rovesciata, la finestra di una casa campestre, il ramo di un albero. Egli assicurava i suoi ascoltatori che l'angolo piú venerando del mondo, ben piú santo della menzognera profanità romana, era la cappella della Madonna a Niklashausen e che il nocciolo della religione consisteva nel presentare omaggio alla Vergine. Le sue invettive contro il clero raggiungevano un tono di inconsueta violenza: lo poneva al di sotto dei giudei. La sua rampogna investiva l'imperatore, doppio e miscredente, che nutriva e pasceva il vile gregge dei principi e dei latifondisti, dei gabellieri e degli speculatori viventi alle spalle del popolo. La sua beffa coinvolgeva le dottrine dei meriti e del purgatorio. Sarebbe presto spuntato il giorno, prognosticava, in cui ogni principe, ogni ecclesiastico, ogni vescovo, l'imperatore in persona, dovrebbero tutti ugualmente acconciarsi a lavorare per vivere. Sosteneva che tutte le imposte erano ugualmente inique e che l'universo costituiva l'indiscriminata proprietà di tutto il genere umano.

    Scarsa attenzione prestarono in sul primo momento alla folle predicazione le autorità cosí civili che ecclesiastiche. Ma quando Hans Böhm, tratto in inganno dall'apparente acquiescenza, annunciò che era scoccata l'ora di tradurre la teorica prospettiva in realtà, bastarono pochi cavalieri del vescovo di Würzburg a disperdere la folla ebbra di aspettative profetiche e ad assicurare alla fortezza di Frauenberg il predicatore inesperto. Cantando inni alla Vergine, questi era bruciato come eretico. Ma il movimento amorfo e tumultuario non si spense con lui. E le febbrili aspettative ch'egli aveva suscitato rivissero in tutte le successive rivolte agricole, da quella del Bundschuh alla grande e cruenta sollevazione dei contadini, che credé nel 1525 di far leva sull'insurrezione religiosa scatenata da Lutero.

    In questo mondo in preda a cosí complessi e malfermi coefficienti di fermentazione, un monaco di Wittenberg sarebbe venuto a gettare il suo sconcertante messaggio di interiorità religiosa e di affrancamento disciplinare.

    Dinanzi a lui, l'imperatore Carlo V. Questi era nato il 24 febbraio 1500 a Gand dall'arciduca d'Austria, Filippo il Bello, figlio di Massimiliano d'Absburgo imperatore, e da Giovanna la Pazza, figlia di Ferdinando il Cattolico e di Isabella di Castiglia. Per una singolarissima e imprevedibile coincidenza storica, questo personaggio, dal sangue cosí composito, era chiamato non solamente a raccogliere nelle proprie mani le redini di quel sacro Impero che la Roma cristiana medioevale aveva potuto suscitare da vecchie reminiscenze romane, rielaborate attraverso secoli di signoria spirituale del Vangelo, ma, per diritto di eredità, a vedere anche i limiti politici dell'Impero straordinariamente allargati.

    Chi avrebbe mai potuto pensare che il fratello e la sorella maggiore di Giovanna sarebbero precocemente morti, senza lasciare eredi, e che quindi il vasto Impero spagnolo sarebbe passato a lei e da lei, impazzita, al marito Filippo e da questi, morto nel 1506, al figlio Carlo di sei anni? Ecco uno stranissimo e impensabile insieme di circostanze dinastiche, tale da porre l'Europa in una delle piú inquietanti situazioni che si potessero immaginare, propizia a tutti i rivolgimenti e a tutte le sorprese. Solamente principe dei Paesi Bassi, come nipote di Maria di Borgogna, ultima erede del ducato di Borgogna e sposa di Massimiliano di Absburgo, Carlo veniva improvvisamente a raccogliere un'eredità sconfinata, la quale lo faceva arbitro delle sorti europee.

    Nel 1516 infatti egli, alla morte di Ferdinando il Cattolico, ereditava la Castiglia e l'Aragona, di cui prendeva personalmente possesso. Infatti il matrimonio di Isabella di Castiglia e di Ferdinando d'Aragona aveva, con la convenzione stipulata fra i due sposi nel 1447, determinato l'unione fra la monarchia castigliana e la monarchia catalano-aragonese. Per merito loro la Spagna aveva cominciato ad avere una vera unità morale, accompagnata da una salda organizzazione modello, che permetteva la trasformazione della monarchia in grande Potenza.

    L'avvento di Carlo sembrò dovere sconvolgere la tradizione, che, seppur di non vecchia data, era riuscita a costituirsi nella Spagna gloriosa di Ferdinando e nella Spagna del reggente castigliano, il cardinale Jimenez de Cisneros. L'instaurazione di Carlo d'Absburgo in Spagna in nome dei suoi diritti ereditari non andò esente da tempeste e da resistenze. L'annunzio poi della sua elezione imperiale nel 1519 alla morte di Massimiliano, elezione conseguita non senza arti corruttrici e procedimenti subdoli, non faceva che rinforzare le ire spagnole, gelose della preponderanza degli interessi fiamminghi e teutoni nella vecchia Spagna. In Germania d'altro canto non potevano mancare diffidenze principesche al cospetto di questo sovrano imperiale, piovuto da un contaminato ceppo spagnolo. Tale groviglio di circostanze politiche doveva potentemente pesare sugli avvenimenti religiosi.

    Il cristianesimo primitivo non avrebbe certo avuto le possibilità di diffusione che ebbe di fatto, se Roma, impegnata nella lotta a fondo contro gli ebrei recalcitranti della Palestina, non avesse nel '70 lacerato il nodo gordiano della situazione palestinese nel Vicino Oriente, con la distruzione di Gerusalemme.

    Circostanze politiche avevano favorito in maniera prodigiosa l'espansione della Cristianità primitiva: circostanze politiche dovevano provocarne la lacerazione nel secolo decimosesto.

    Il Sacro Romano Impero, carolingio prima, germanico poi, era nato e aveva compiuto i suoi primi cicli storici, come abbiamo visto ampiamente nel volume precedente, per niente affatto come una risurrezione pura e semplice dell'Impero romano. Esso era nato dalle piú profonde e genuine viscere della tradizione cristiana e agostiniana, come tentativo di fondere in un'unica famiglia, dai connotati squisitamente spirituali, i popoli del continente europeo. L'universalità stessa della Chiesa aveva automaticamente portato la Curia romana (prescindiamo pure per un istante dalle condizioni ambientali che possono aver provocato la decisione, sùbita soltanto in apparenza) a porre dinanzi a sé, quando l'Impero d'Oriente ebbe manifestato le sue irriducibili idiosincrasie, un'autorità imperiale che permettesse alla Cristianità ecumenica di avvertire sensibilmente il dualismo di valori introdotto dal Vangelo nel mondo. Lo spirito intimo dell'istituzione imperiale non poteva non essere uno spirito tipicamente dualistico e agostiniano.

    Il lento trasformarsi dei tessuti politici ed economici dell'organismo europeo; le lotte dinastiche e territoriali a cui la trasmissione della dignità imperiale aveva dato luogo in Germania; il silenzioso e progressivo insinuarsi delle tendenze particolaristiche e nazionali per entro al grande organismo unitario imperiale; avevano fatalmente corroso la soggiacente ispirazione religiosa dell'istituzione dell'Impero.

    Ed ora, per uno strano paradosso, l'Impero assumeva le sue piú vaste proporzioni territoriali, quando proprio l'Europa sentiva grandeggiare sempre piú lo spirito nazionale. Quel che rende tragico il destino di Carlo V e cosí patetico il suo ritiro dal mondo, in séguito ad una triste abdicazione, è appunto il contrasto fra le velleità sconfinate di questo rampollo di dinastie incrociate, che ci dà ancora, dai suoi ritratti per mano di Tiziano, cosí diretta e cosí imperiosa l'impressione della sua raffinatissima signorilità, e la resistenza degli elementi con i quali egli avrebbe dovuto realizzare il suo sogno imperiale. Spagnoli contro Fiamminghi, e Fiamminghi contro Spagnoli; principi tedeschi istintivamente avversi all'imperatore di sangue misto; Spagnoli vagheggianti la tutela dei loro interessi mediterranei ed atlantici, infinitamente piú che quella dei territori continentali dell'Impero, e quindi preoccupati piú delle sorti di Milano e dell'Italia meridionale che delle decisioni dietali in Germania; tutto questo strano groviglio di interessi in conflitto sullo sfondo epico della lotta cristiana contro l'Islam, piú petulante e minaccioso che mai: ce n'è abba [1]

    Bologna del 1530, e le sue, altrimenti inesplicabili, oscillazioni al cospetto del Papato da una parte, e del monaco ribelle di Wittenberg dall'altra. Ce n'è abbastanza in pari tempo per comprendere l'importanza decisiva di questa storia religiosa del secolo XVI incipiente, e per tutto il posteriore sviluppo spirituale europeo.

    Non per nullaCarlo V si trova di fronte quattro volte il rappresentante di quella dinastia capetingica, i cui re, dal secolo XIV, avevano usato chiamarsi «cristianissimi», e che, non rivestendo autorità imperiale che avvolgesse di sacralità la loro corona, avevano pensato di far dichiarare assoluti e di origine divina i propri poteri dai loro addomesticati giuristi.

    Straordinariamente movimentata era stata la storia di questa monarchia capetingica. Dal giorno in cui, al tramonto del secolo decimo, ne era stato segnato l'albeggiare con Ugo Capeto, aveva affrontato lotte secolari contro rivali e pretendenti: contro i Normanni di Guglielmo il Conquistatore, contro i rivali principi feudali, contro i Plantageneti, contro gli Svevi. La spedizione di Carlo d'Angiò nel regno di Napoli aveva dato origine alla sua grande partecipazione alla politica internazionale. Può darsi che l'occupazione dell'Italia meridionale e della Sicilia apparisse agli occhi di Luigi IX semplicemente come un elemento di successo propizio, nella sempre sognata Crociata in Egitto ed in Africa. Sta di fatto che quella spedizione angioina in Italia riscaldò nel popolo francese una presunzione orgogliosa e spiccate velleità egemoniche.

    La cattività avignonese aveva in piú rinfocolato ed esasperato la albagia gallica. Quando nel 1328 la dinastia dei Valois raggiungeva il trono in Francia, la Francia poteva dirsi già una delle piú potenti nazionalità europee. Essa aveva soprattutto beneficiato del formidabile attacco che la nuova economia rurale, di cui il movimento cistercense non era stato che una delle espressioni, aveva inferto al regime feudale. La guerra dei Cento Anni fu, è vero, un colpo serissimo a tutta la struttura politica che la Francia si era venuta costruendo nei secoli della monarchia capetingica: ma nel medesimo tempo mostrò quanto le popolazioni francesi fossero tenacemente attaccate ormai all'istituto monarchico, simbolo dell'unità nazionale. La grandezza di Giovanna d'Arco sta tutta nell'avere espresso le esigenze piú profonde dell'anima nazionale. Tra il 1431 e il 1451 la Francia riesce a sbarazzare tutto il proprio territorio dagli invasori d'oltre Manica, e se la pace di Arras segna una diminuzione cospicua delle pretese francesi oltre confine, la monarchia può ora riprendere in pieno il suo lavoro di organizzazione interna, del quale una delle manifestazioni piú salienti fu quella Prammatica Sanzione di Bourges del 1438, che limitava i diritti della Santa Sede, cosí nel campo finanziario come nel campo economico, e riaffermava la preponderanza e il controllo della Corona sulla Chiesa nazionale.

    Il tramonto del secolo XV e l'inizio del XVI avevano

    visto una ripresa in grande stile della politica estera francese con la calata di Carlo VIII in Italia e con l'attività non sempre bene ispirata di Luigi XII. Sebbene, alla morte di questo re, il bilancio francese segnasse innegabili insuccessi, Francesco I, suo successore, poteva riprendere una energica azione offensiva in Italia, riconquistando con la battaglia di Marignano il Milanese, e poteva conchiudere con la Svizzera una pace perpetua, che poneva alla mercè della Francia i mercenari elvetici.

    Un'altra pace stipulava in quel momento il re francese, ed era la pace con Leone X, a cui Francesco I strappava uno dei piú famosi concordati: il concordato di Bologna del 18 agosto 1516. Abolendo la Prammatica Sanzione di Bourges, questo concordato faceva del re francese l'effettivo proprietario delle sconfinate proprietà ecclesiastiche. Al re era riservato, in virtú di tale concordato, il diritto di nomina su 10 arcivescovadi, 82 vescovati, 527 abbazie. Si capisce come il sovrano se ne sarebbe servito per assicurarsi la fedele devozione della venale feudalità superstite e per elargire lauti compensi a tutti gli stranieri figli di principi e di mercanti, che gli fosse apparso necessario mantenersi fedeli. Il re era autorizzato a ricavare 200.000 ducati dal complesso di ogni decima ecclesiastica. Cosí il Papato espiava la sua partecipazione politica alla Lega di Cambrai come alla Lega Santa, che si erano presentate in Italia quali Crociate per la liberazione del suolo nazionale dagli stranieri, con con cessioni che investivano in pieno e vulneravano le autonomie ecclesiastiche in Francia.

    Facendo una politica empirica il Papato veniva automaticamente ad autorizzare i governi terreni a fare empirica anche la superpolitica religiosa. Roma papale aveva combattuto l'Impero d'Oriente per il suo cesaro-papismo.

    Ora, facendo un papismo cesareo, finiva con l'indurre sulla via del cesaro-papismo i nuovi grandi poteri politico-nazionali che sorgevano in Europa. È questo proprio il momento piú drammatico, dal punto di vista religioso, della storia europea. Quando sarebbe stato necessario intensificare fino all'esasperazione la coscienza delle grandi realtà spirituali e carismatiche, per opporre un margine al processo disgregativo che le stesse forze nazionali minacciavano di introdurre nella compagine unitaria della unità europea, la Curia scendeva sul terreno delle competizioni politiche, per destreggiarvisi con armi e metodi non suoi.

    Non essendo riuscito ad impedire la designazione di Carlo alla dignità imperiale, Francesco I non poteva non entrare in campagna contro quel palese tentativo di accerchiamento, che la fusione di cosí vasti poteri nelle mani di Carlo rappresentava per la Francia.

    Lo scoppio del movimento riformatore sembrò offrirsi come un elemento propizio, nel giuoco sottile della sua diplomazia e della sua politica internazionale. Ma, d'altro canto, la sollevazione infiammata di Lutero contro Roma e contro l'imperatore spagnolo non avrebbe mancato di suscitare ripercussioni vaste in territorio francese. Se per la Germania la riforma poteva assumere carattere nazionale, in Francia non poteva non avere carattere antimonarchico. E Francesco I, tentato da una parte di favorire i príncipi riformatori d'oltre Reno, doveva ben temere, dall'altra, per la sua dinastia e per la regalità, di fronte alle infiltrazioni insurrezionali religiose, tutte pervase da fermento sociale ed economico, in territorio francese.

    Cosí, la intricatissirna rete dei fattori politici era venuta preparando l'ambiente piú acconcio alla tragica lacerazione di quella che non avrebbe mai dovuto cessare di essere la inconsutile veste del Cristo: la Sua Chiesa.

    [1] Nell'originale cartaceo a questo punto c'è una riga ripetuta evidentemente al posto di una riga mancante. [Nota per l'edizione elettronica Manuzio]

    «PECCATOR ET IUSTUS»

    I movimenti religiosi nascono tutti da esperienze individuali di eccezione. Sono tentativi di trasformare l'esperienza individuale in esperienza collettiva, di fare di un atteggiamento personale un atteggiamento normativa per i molti. I caratteri di queste peculiari esperienze e le circostanze ambientali rendono possibili il proselitismo e la diffusione.

    L'esperienza del Vangelo era stata una singolarissima esperienza nella quale gli elementi costanti dell'atteggiamento religioso avevano trovato una loro sistemazione paradossalmente e portentosamente suscettibile di piú vasta disseminazione, proprio perché piú tipicamente eccezionale.

    Come noi abbiamo visto nei primi capitoli del primo volume, l'esperienza cristiana alle sue origini si era principalmente basata sul rovesciamento dei valori, imposto, piú che suggerito, dalla certezza fascinante del prossimo avvento del Regno di Dio.

    Insurrezione quindi passiva di fronte alla caducità di tutti i valori terreni, il cristianesimo, con le consegne tremende della sua antropologia violentemente scissa fra gli interessi della terra e gli interessi del veniente Regno di Dio, con la sua predicazione di una supermorale eroica fatta di rinuncia, ma in vista di una conquista; aveva effettivamente gettato nel mondo un lievito destinato alla piú vasta fermentazione.

    Noi abbiamo fatto del nostro meglio per seguire passo passo la costruzione della unità spirituale europea, che il cristianesimo è venuto compiendo in virtú dei suoi originali presupposti. Abbiamo visto come, nel momento del suo massimo successo, la cattolicità ufficiale romana, di fronte alla predicazione gioachimitica che annunciava ormai chiuso il ciclo della costituzione ecclesiastica e bandiva la necessità di uscire dal mondo dei simboli per entrare nel mondo delle realtà simboleggiate da undici secoli di vita ecclesiastica, tendesse a irrigidirsi sulle posizioni acquisite della sua dogmatica e della sua disciplina, lusingandosi di potere con questa solidificare per sempre la sua costituzione gerarchica. Ma abbiamo visto in pari tempo come alla grande costruzione unitaria della società medioevale fosse venuto a mancare adagio adagio lo spirito avvivatore, lo spirito del dualismo antropologico e sociologico agostiniano.

    Altre esperienze eccezionali ma individuali dovevano fatalmente tentare di divenire a loro volta normative.

    Noi abbiamo visto, nel primo nostro volume, come, super-ascetico per natura, il cristianesimo avesse accettato le forme dell'ascetismo organizzato, quali erano state praticate dalle espressioni piú alte della spiritualità precristiana, quando, divenuto religione di maggioranza con la «conversione» di Costantino, il cristianesimo stesso minacciava di perdere i suoi connotati originali e la sua peculiare metodica sociale. Ma abbiamo visto anche come l'ascetismo organizzato del quarto secolo avesse conservato tanto del suo iniziale fervore apocalittico.

    Poi l'ascetismo era veramente divenuto un organismo a sé, povero di ripercussioni e di collegamenti con la vita collettiva. Come avrebbe potuto, l'ascetismo codificato delle Regole monastiche, mantenere l'altezza del suo mistico eroismo, quando non fosse piú sorretto e infiammato dalla consapevolezza della sua funzione insurrogabile, nell'orizzonte integrale della collettiva vita religiosa? La riforma in Germania non è altro che la esperienza di un monaco ribelle ad una ascesi fatta passivamente fine a se stessa, la quale si trasforma, in maniera sorprendente, in una ribellione collettiva alla ufficialità cattolica universale.

    Per questo, per intendere la riforma in Germania, occorre innanzi tutto e prevalentemente rifarsi alla esperienza monastica di Lutero.

    Fu il 17 luglio 1505 che Martin Lutero entrava come novizio nel chiostro agostiniano di Erfurt. E fra le mura di quel chiostro cominciava, con il suo, il dramma grandioso dell'animo europeo moderno.

    Ogni vocazione religiosa è funzionalmente un'ipoteca accesa sull'avvenire. Che cosa può maturare nell'anima di chi, in un'ora di sùbito entusiasmo o di fosco scoramento, sotto l'impressione fulminea di sconvolgenti avvenimenti esteriori o sotto il pungolo di un'innata inclinazione al senso vivo e opprimente delle infinite insoddisfazioni dell'esistenza, contrae solennemente un impegno irrevocabile per il suo futuro destino? Il quotidiano esercizio dell'autolimitazione; l'appello di ogni istante ai piú energici centri di inibizione, per il dominio inviolabile della propria azione cosciente; possono addestrare le facoltà dello spirito ad una tale virtú eroica di abnegazione e di altruismo, da condurre trionfalmente il «chiamato» ai fastigi della perfezione religiosa. Ma la piú lieve condiscendenza agli istinti della inferiore natura, di cui l'ideale della vocazione vagheggia la cancellazione integrale; il piú fugace e momentaneo rilassamento nella vigilanza della propria disciplina spirituale, scatenano a volte conflitti drammatici, il cui epilogo può essere ugualmente o l'abiezione dell'apatia e dell'indifferentismo etico o lo sforzo disperato della ribellione, accompagnato dalla ricerca avida della sua astratta e teorica giustificazione. In generale, degli spiriti, l'azione pubblica dei quali segue un periodo di incubazione ascetica nella vocazione sacerdotale o nel silenzio claustrale, occorre ricercare la genesi e la formazione nella traiettoria oscura della loro prima esperienza.

    Come tutte le reminiscenze familiari e scolastiche della puerizia e dell'adolescenza di Lutero, cosí pure i ricordi del suo primo tirocinio hanno subìto, nei riferimenti apologetici del riformatore e nelle testimonianze della tradizione confessionale luterana, una sensibile deformazione. La tradizione riformata si è compiaciuta nel dipingerci il giovine novizio Martino sottoposto a tutte le angherie di una comunità invida e dispettosa, avida di fargli assaporare, raddoppiate, tutte le asprezze di una disciplina cordialmente osteggiata, quasi a vendicare le già patite durezze. Lutero dal canto suo, tutto preoccupato di mostrare come l'osservanza scrupolosa della Regola, accettata come mezzo infallibile di giustificazione e di salvezza, non avesse mai generato nella sua anima serenità e pace, ma scatenato le angosce di una perenne e indomabile inquietudine, fa risalire agli inizi stessi della sua vita monastica le trepidazioni che solo piú tardi il pungolo della sua rilassatezza deve avere provocato e lo sforzo estremo di avvalorare la sua teoria della giustizia passiva deve avere, per necessità polemica, esagerato. In realtà, i primi passi del monaco ventiduenne nella via della sua disciplina religiosa non debbono essere stati diversi da quelli che sogliano muovere, sotto l'impulso di un impetuoso fervore, tutti coloro che portano nel chiostro il fuoco di una entusiastica vocazione. Lutero ci rassicura di aver preso alla lettera le piú minute ingiunzioni della Regola, tutt'altro che lievi, agevoli o accomodanti, e di avervi mantenuto fede con proposito rigido e scrupoloso. «Sono stato monaco», proclama egli nel 1531, «e ho vegliato la notte, ho digiunato, ho pregato, ho mortificato e crocifisso la mia carne, onde mantenerla docile e sottomessa in castità, piú di quanto non sia consentito di riscontrare tra i preti e frati e monache. Intendo parlare dei monaci pii e genuini, la cui volontà è seria e risoluta, che si sottopongono alla stessa ruvida disciplina, che hanno ostinatamente cercato di conseguire quell'ideale stesso che Cristo personifica, onde raggiungere la beatitudine. Ebbene: che cosa ne hanno ricavato? Cristo dice: voi vi troverete ad essere rimasti nei vostri peccati e morirete. Questo han ricavato». Potremmo pensare che Lutero faccia cosí del millantato credito, non tanto per ostentazione di un suo speciale postumo amor proprio di asceta pentito, quanto per spiegare in maniera piú suggestiva l'amarezza della sua delusione monastica e per accreditare di rimbalzo piú validamente il suo appello alla pura fiducia in Dio giustificatore.

    Ma testimonianze parallele, anche di avversari, convalidano la sua parola. Mattia Flaccio Illirico racconta di aver ricevuto da un compagno di clausura di Lutero, rimasto fedele alla sua professione, l'assicurazione esplicita e solenne che la primitiva vita monastica del riformatore era stata ineccepibile. E il Dungersheim von Ochsenfart già nel 1531 raccontava che il Nathin, uno dei professori del convento di Erfurt, predicando una volta ad una comunità di monache a Mühlhausen, aveva additato Lutero come un nuovo San Paolo, prodigiosamente convertito. D'altro canto gli appelli di Lutero alla irreprensibile sua iniziale condotta monastica risalgono troppo indietro nel tempo, si avvicinano troppo da presso alla memoria delle sue esperienze recenti e coincidono troppo strettamente col periodo delle sue piú fiere polemiche, perché se ne possa revocare in dubbio la bontà e l'attendibilità e perché si possa spiegare, qualora si tratti di deformazione degli avvenimenti , il fatto che nessuno dei suoi avversari prende ad impugnare – e sarebbe stato argomento tanto valido – il valore della sua parola, specialmente là dove egli pone a contrasto la foggia della sua disciplina, con i disordini dei suoi confratelli. Del resto, il fervore esuberante e lo zelo irreprensibile con cui, nel recinto monastico, Lutero si accinse ad attuare il suo sogno di perfezione, traspaiono dal privilegio stesso concessogli di abbreviare il tempo del suo noviziato e di affrettare il giorno della sua professione.

    Nel Natale del 1505, a meno di sei mesi dal suo primo ingresso nel chiostro, Lutero era ammesso all'emissione solenne dei voti, che lo aggregava definitivamente all'Ordine riformato degli agostiniani tedeschi. Indossava cosí la divisa candida, stretta ai fianchi dalla cinghia di cuoio nero, su cui, nella recitazione delle ore maggiori, nella predicazione, nelle ore dell'uscita dal convento, si sovrapponeva l'abbondante cappa scura, a larghe, maniche, e la cocolla, con cappuccio e mantellina. Né era questo il solo favore concesso alle qualità eccezionali e alla esemplare diligenza della nuova recluta. Nel gennaio successivo, Lutero era autorizzato dal vicario generale degli agostiniani tedeschi, Giovanni Staupitz, a frequentare regolarmente le scuole teologiche della Università. Il chiostro si presentava dunque allo spirito avido e sensibile del giovane universitario pieno di allettanti attrattive, nonostante le dure asprezze della quotidiana disciplina. La Bibbia costituí fin dagli inizi il pascolo preferito della sua lettura appassionata. Qualcuna delle figure ch'egli incontrò nel chiostro dovette imprimersi nella sua memoria con impressione indelebilmente grata ed amabile. In momenti di lucida oggettività, anche dopo la ribellione clamorosa, Lutero ha piú di una volta esaltato, come attraverso sprazzi improvvisi di un rimpianto nostalgico, le sottili dolcezze della vita monacale, della solidale comunanza in un identico ideale di perfezione religiosa. Cosí, evocando nella risposta al duca Giorgio, del 1533, una sua giovanile visita al convento degli scalzi ad Arnstadt e ricordando l'elogio del «Battesimo» monacale pronunciato dal Kühne, confessa che egli e i suoi compagni ne furono tutti inteneriti.

    E dieci anni piú tardi, pur nell'atto di lanciare contro la vita monacale uno dei suoi strali avvelenati, Lutero lascia intendere che essa era apparsa alla sua anima giovanile come fonte di una serenità paradisiaca. Lutero ricordava allora come, dopo due anni circa di vita monastica, nei giorni che precedettero la celebrazione della sua prima messa, il 2 maggio 1507 – quella prima messa che destò nella sua anima un'impressione cosí profonda da dargli brividi di commozione e di spavento quando si trovò a pronunziare le solenni parole del canone – egli, chiedendo amorevolmente al padre le ragioni dell'opposizione alla propria vocazione, non aveva esitato a designare la vita monastica come ricolma di un incanto divino.

    Sotto lo stimolo di quali intimi, drammatici contrasti; attraverso quali dilaceranti crisi di coscienza una vocazione monastica iniziatasi sotto cosí limpidi e promettenti auspici si è risolta nella piú violenta, pertinace e vasta ribellione alla disciplina visibile della Chiesa che la storia del cristianesimo europeo ricordi? In virtú di quali fattori, mercè l'utilizzazione di quali elementi, a causa di quali contaminazioni spirituali, una cosí volonterosa accettazione degli oneri gravi ma trasfiguranti della ascesi associata, si è trasformata nella piú audace celebrazione della salvezza individuale, per merito d'un unico atto di abbandono al perdono invisibile di Dio? Che cosa si è verificato nell'anima del monaco ventiduenne che, entrato nel chiostro nel 1505 con il cuore rigurgitante di ideali di purificazione nella solitudine e nel silenzio, ne esce nel 1517 bandendo un manifesto contro i poteri carismatici della Chiesa visibile, delle cui ripercussioni latenti sono tuttora sature la spiritualità e la cultura moderne?

    La vita della perfezione ascetica non può essere coerentemente menata che nella solitudine, nel raccoglimento, nel quotidiano assiduo controllo su tutte le vive attitudini dello spirito e su tutti gli indocili movimenti del pensiero. L'ideale che è segnato nel programma dell'esistenza claustrale è cosí arduo e cosí periglioso, che la sua pratica deve essere volonterosamente raccomandata ad un'aspra e ininterrotta vigilanza, il cui momentaneo, anche inavvertito, rallentamento può determinare conseguenze irreparabili. Potrebbe pensarsi che l'allontanamento del giovane dottore dalle consuetudini della vita accademica e dalla assorbente tensione dello studio fu troppo breve, perché la sua anima si familiarizzasse intimamente con le pratiche e le forme di occupazione che una disciplina di secoli ha sanzionato come appannaggio indispensabile dell'ideale monastico. Martin Lutero riprese troppo presto la frequenza universitaria e si rituffò troppo sollecitamente nella preoccupazione della indagine speculativa, perché il suo spirito potesse temprarsi validamente in quel brusco e deciso distacco dal sottile fascino dell'esistenza mondana, che solo aiuta al conseguimento delle altezze, su cui brilla il miraggio della perfezione morale. Le dure penitenze che egli prese ad imporre al suo corpo nei primi momenti del suo entusiasmo monastico, non contemplate né volute dalla Regola, dovettero essere di ben corta durata. Presto le intense occupazioni intellettuali e didattiche, la dissuetudine dalla quotidiana osservanza della disciplina regolare, l'abbandono progressivo dei freni imposti dall'autocontrollo, determinarono in Lutero un ripullulare violento degli stimoli e degli istinti che nessun diuturno governo aveva adeguatamente macerato e che cercarono accortamente nelle tradizioni dottrinali, quali il monaco veniva a sua guisa esplorando e assimilando, i principi e i canoni onde fosse consentito ad una esperienza tutta personale, non nuova e non d'eccezione, di divenire in qualche modo normativa.

    Gli avvenimenti esteriori della vita claustrale di Lutero dal dí della sua professione al momento della sua prima insurrezione contro l'amministrazione delle indulgenze, si racchiudono fra i limiti di alcune date salienti. Autorizzato a frequentare la Facoltà teologica universitaria agli inizi del 1506, Lutero vi segue regolarmente i corsi per piú di un biennio. Agli inizi dell'inverno del 1508 egli era chiamato dal suo vicario generale, lo Staupitz, a Wittenberg, dove sei anni prima l'elettore di Sassonia, Federico il Saggio, aveva, sotto lo stimolo di rivalità familiari e politiche, inaugurato una nuova Università, per occuparvi una cattedra di filosofia nella Facoltà delle Arti e in pari tempo per continuarvi il suo tirocinio teologico. Nel marzo del 1509 Lutero conseguiva colà il primo grado teologico, era cioè proclamato Baccalaureus biblicus e poteva, per incarico della Facoltà, oltre le sue lezioni di filosofia aristotelica, dare spiegazioni su testi scritturali. Poiché gli statuti della Università, emanati nel 1508, esigevano dal Baccelliere biblico un solo semestre di esercizio per la sua ammissione agli esami di Sententiarius, alla fine del semestre estivo del medesimo anno Lutero sosteneva la sua nuova prova e conseguiva il secondo titolo. Ma subito dopo era rinviato ad Erfurt, dove l'Università lo ammetteva « cum omni difficultate» all'esercizio di commentatore delle Sentenze di Pier Lombardo.

    Nell'ottobre del 1510 Lutero, con un compagno, era mandato a Roma onde interporre appello in nome di sette conventi agostiniani contro una decisione del Generale che, d'accordo con lo Staupitz, il quale però intendeva servirsi ai suoi fini dell'agognato privilegio onde erano accresciuti sensibilmente i suoi poteri, sanzionava la fusione della carica di provinciale della Sassonia con quella di vicario della congregazione alemanna, nella stessa persona. Il ricorso fu respinto: e Lutero tornò guadagnato alla causa che era venuto ad impugnare. Quale l'impressione suscitata nella sua anima dallo spiegamento monumentale e liturgico della città madre del cattolicesimo, sogno e meta d'ogni spirito credente? Piú tardi, negli anni della sua ribellione, Lutero si appellerà al suo viaggio romano per accreditare in qualche modo le sue invettive contro gli Italiani, i Romani, la Curia. Ma non è la permanenza di quattro settimane a Roma che può avergli dato cosí furioso odio contro la città dei suoi primi ideali religiosi. In qualche istante di lucido intervallo, Lutero ha ricordato l'emozione provata dalla sua pietà fra le memorie sacre dell'Urbe. Nel 1530, dedicando ad Hans von Sternberg la sua spiegazione del Salmo 117, rievoca i suoi pellegrinaggi attraverso le chiese e le cripte di Roma, e la devozione delle messe colà celebrate in suffragio dei trapassati, in uno stato di vera folle esaltazione mistica. Paolo Lutero, il figlio del riformatore, in una relazione autografa del 1582 conservata nella Biblioteca di Rudolstadt, testimonia, attingendola da un racconto orale del padre, l'impressione profonda suscitata nel monaco a Roma dalla Scala Santa; in cui però non avevano mancato di insinuarsi le preoccupazioni e le visuali dei suoi posteriori cambiamenti. Ripartendo dalla città che Lutero chiamerà piú tardi abitualmente «la nuova Babilonia», il monaco portava probabilmente qualcosa nel suo subcosciente che sarebbe piú tardi maturato. Egli riprendeva la via della Germania, incerto del proprio avvenire, che il cambiamento dei suoi sentimenti circa il programma dello Staupitz e le richieste dei protestatari rendevano quanto mai problematico. La ribellione dei sette conventi al programma dello Staupitz, ormai fiancheggiato dal generale, continuò viva ed imperterrita ancora per parecchio tempo. Lutero non dovette ormai trovarsi molto a suo agio tra i suoi confratelli di Erfurt. Lo Staupitz lo tolse dalla sua situazione incresciosa, chiamandolo nuovamente a Wittenberg, dove egli, nell'ottobre del 1512, conseguiva la licenza e il dottorato in teologia, succedendo immediatamente allo Staupitz stesso nella cattedra biblica, ch'egli avrebbe ora occupato ininterrottamente fino a pochissima distanza dalla sua morte. Il monaco trentenne raggiungeva cosí quella posizione ufficiale che doveva costituire, fino al tramonto dei suoi giorni, la palestra drammatica della sua militante propaganda.

    Ma questa raffigurazione esteriore del tirocinio teologico e della carriera claustrale di Lutero, prima della sua definitiva sistemazione; questa determinazione in confini puramente cronologici della sua vita ufficiale prima della sua destinazione accademica a Wittenberg; non offrono che dati indiretti e indicazioni superficiali a chi voglia ricercare, negli anni della sua intima e silenziosa preparazione, il processo di formazione di quella particolare forma di dottrina relativa alla salvezza religiosa, a cui egli raccomandò la capacità persuasiva della sua violenta esperienza. Attraverso quale specifica educazione teologica egli venne affilando le armi che dovevano servirgli nella sua quasi trentennale campagna in favore della giustizia imputata? Quali furono le circostanze intime ed esterne in virtú delle quali la sua sconcertante crisi di coscienza, che in altri momenti si sarebbe potuta contenere ed esaurire nei limiti personali e circoscritti da cui non esularono crisi analoghe, come quella del monaco sassone Godescalco nell'epoca carolingica, sboccò invece in un epilogo cosí drammatico e cosí rumoroso, costituendo il punto di partenza di un immenso rivolgimento etico-disciplinare, di cui tuttora la società cristiana soffre nelle fibre piú sottili della sua organica struttura? Ecco il problema che lo storico deve amorosamente esplorare, se vuole porre allo scoperto le scaturigini remote e se vuole individuare i coefficienti sociali del movimento che travolse il cattolicismo in Germania. Occorre pertanto ricercare a quali tradizioni teologiche si informava l'insegnamento che Lutero ricevette nel biennio di studi compiuti ad Erfurt: indagare quindi lo sviluppo della sua formazione spirituale a Wittenberg, determinando i caratteri della sua crisi interiore e fissando la natura delle fonti religiose, dalle quali si sforzò di attingere il rasserenamento delle sue angosce e i principi della sua rielaborazione, che egli pretese fosse squisitamente cristiana, anzi paolina.

    Le due grandi correnti in cui si polarizza la speculazione scolastica nel secolo decimoquarto sono la corrente mistica, che culmina in Eckehart e in Tauler, e la corrente razionalistico-pelagiana che trova la sua espressione saliente nell'opera immensa di Guglielmo Ockham. La prima, come abbiamo visto, facendo leva sulla dottrina tomistica dell'ente, e spingendo alle ultime possibili applicazioni alcune tesi audaci che San Tommaso aveva lasciato nell'ambito problematico delle supposizioni razionali, corrette e smentite dalla rivelazione, quali la non-assurdità della creazione eterna, aveva rischiosamente abbassato la barriera che separa l'Infinito dal finito e lo spirito dallo Spirito. La seconda, sciogliendo quella mirabile armonia fra natura e grazia, conoscenza e fede, libertà e assistenza carismatica, in che era stata tutta la grandiosità e tutta la vitalità della costruzione ideale di San Tommaso, abbandonava la ragione al destino fallace delle sue raffigurazioni soggettive, prive di ogni presa sulla realtà universale, e assegnava alla fede un suo dominio autonomo ed arbitrario, la cui accettazione si riduceva a un puro ed esteriore ossequio della volontà.

    Gabriele Biel era stato il fortunato divulgatore di Ockham in Germania, nel secolo decimoquinto. Il suo Collectorium ex Occamo super quattuor libros Sententiarum era il testo ufficiale delle Facoltà teologiche tedesche, quando Lutero era iscritto in quella di Erfurt. E a quest'opera, che era stampata in due volumi a Tubinga nel 1499, si deve riferire Melantone, quando, nella sua prefazione alla prima edizione completa delle opere di Lutero, dice di lui che « Gabrielem... paene ad verbum memoriter recitare poterat». E soggiunge: « Diu multumque legit scripta Occam. Huius acumen anteferebat T homae et Scoto». Potremmo pensare ad una delle consuete applicazioni laudative dell'amico e del seguace, se Lutero stesso, ogni volta che accenna alla sua formazione teologica, non desse entusiastica espressione al suo amore iniziale per il Biel e il suo occamismo. Egli riconosce esplicitamente di esser stato formato alla scuola dei «moderni», vale a dire alla scuola occamistica degli interpreti del Biel. Di questo numero erano stati di fatto i suoi maestri ad Erfurt: Bartolomeo Arnoldi von Usingen e Jodoco Truttvetter. La prima iniziazione pertanto del giovane agostiniano alle concezioni teologiche della colpa e del riscatto, della caduta e della redenzione, è stata presieduta dai presupposti di una filosofia e di una apologetica, tutte imbevute di soggettivismo gnoseologico e di esteriorismo soteriologico. Riducendo le categorie universali, che sono i veicoli naturali della nostra capacità di esplorazione nel mondo del reale e dei vincoli delle causalità, a pure qualitates mentis, la filosofia occamistica strappava alla ragione ogni potere di raggiungere, per vie dialettiche e metafisiche, quelle realtà trascendentali, la cui determinazione concettuale costituisce l'immediato preambolo della fede. La quale pertanto viene ad innestarsi sulle attività dello spirito come qualcosa di avventizio e di supererogatorio, che non riesce a saldarsi con le altre virtú potenziali e non costituisce il coronamento appropriato delle sue intime attitudini obbedienziali. Di rimbalzo, la rivelazione e la salvezza cristiana appaiono alla teologia di Ockham come avvenimenti esteriori, non postulati da sostanziali alterazioni dell'anima umana, maculata e debilitata dalle funeste ripercussioni della colpa, ma unicamente predisposti dalla liberissima volontà di Dio, dal cui decreto sovrano dipendono ugualmente il bene e il male, il destino felice e la eterna rovina.

    Ad una valutazione cosí relativistica e cosí contingentistica dei criteri etici e del fatto della spirituale redenzione, l'occamismo accompagnava una concezione sostanzialmente pelagiana delle possibilità di cui la natura umana dispone, per conquistare il merito della grazia e l'abito della virtú. Ockham aveva definito la libertà come la capacità in virtú della quale l'uomo può indifferentemente porre o non porre un determinato atto, senza che la decisione alteri in qualche modo le sue soggettive attitudini. Il bene o il male ricavano la loro specifica connotazione unicamente dalla libera ed assoluta decisione di Dio. La virtú o il peccato sono nella uniformità o nella difformità dalla prescrizione di Dio. E se la redenzione e la salvezza sono il risultato di una generosa elargizione di grazia, l'anima può riescire, contraendo abiti virtuosi attraverso la medesima ripetizione degli atti, a meritare, se non « de condigno» almeno « de congruo», se non cioè con una proporzionalità esatta, per lo meno con una convenienza ragionevole, il conferimento delle grazie salutari.

    Gabriele Biel aveva esplicitamente ammesso che l'uomo può cosí atteggiare le sue facoltà sentimentali all'amore amichevole di Dio, da portare la propria anima a quei fastigi della purificazione interiore, che la luce e il calore della grazia rivestono automaticamente.

    Lutero commentatore biblico ripete le medesime conclusioni, quantunque la sua esperienza lo induca a tacciare di pelagianesimo aperto la fiducia che esse implicano nelle virtú preparatorie della natura, un pelagianesimo da cui solo si sarebbe salvato Gregorio da Rimini, col suo sforzo di innestare la dottrina agostiniana della colpa sul naturalismo occamista.

    Ma se sotto il pungolo di delusioni morali e di preoccupazioni religiose Lutero concepisce un orrore cosí violento contro ogni posizione che arieggi da presso o da lontano l'apprezzamento pelagiano delle umane capacità nel processo della salvezza e nel conseguimento dei privilegi carismatici, chi potrebbe dire che, nonostante tutto, il rapporto fra l'esercizio della ragione e la virtú della fede, la vita della natura e il mistero della grazia, il corso dell'attività etica e la sua connotazione meritoria al cospetto di Dio remuneratore, non sia rimasto, tenacemente, nella raffigurazione luterana, quale l'aveva foggiato l'estrinsicismo della iniziazione occamistica? E, se ciò è vero, attraverso la mediazione di quali elementi psichici, mistici e dottrinali, il seguace del Biel all'Università di Erfurt, professante una concezione tutta esteriore e tutta pelagianamente naturalistica della vita interiore, si è trasformato nel pessimista rigido del De Servo Arbitrio?

    Il monaco Lutero potrebbe, innanzi tutto, avere ricevuto, parallelamente all'educazione universitaria di Erfurt, una formazione claustrale, che di quella avrebbe potuto costituire il complemento, se non proprio la correzione. Anche dopo il trionfo decisivo delle correnti aristotelico-scolastiche, l'agostinismo aveva avuto una lunga dinastia di rappresentanti tipici, la cui eco può essersi verosimilmente sentita fin tra le mura del convento di Erfurt. L'Ordine agostiniano ha sempre mantenuto una speciale fede alla teologia del Padre, di cui porta il nome e conserva la disciplina. Una quantità di posizioni metodologiche e dottrinali, che Lutero porterà alla loro paradossale espressione, si possono segnalare in teologi agostiniani del secolo XIV e del XV. In particolare l'identificazione del fomite della concupiscenza col peccato originale, la nozione della concupiscentia invincibilis, l'affermata impossibilità della justitia perfecta durante la vita, il postulato della giustificazione mercè la sola fede, perfino quella teoria della duplice giustificazione, che il Seripando patrocinerà invano al Concilio tridentino, sono altrettante proposizioni luterane a cui è lecito trovare parallelismi non privi di significato nella tradizione dottrinale dell'agostinismo medioevale.

    Il Generale degli agostiniani Agostino Favaroni, morto a Prato nel 1443, nei trattati annessi al suo commento sull'Apocalissi, come nella sua esposizione delle lettere paoline; Giacomo Perez, vescovo titolare di Crisopoli, in commentari sui Salmi e sulla Cantica e in un trattato contro gli ebrei, ripetute volte stampati fra il 1484 e il 1582; Simone Fidati da Cascia nei quindici libri De Religione Christiana stampati la prima volta nel 1480 e poi ristampati, perché « temporum vetustate in desuetudinem et in abdita dilapsi» nel 1517; sostengono concordemente punti di vista che si avvicinano, in una maniera veramente sorprendente, a molte delle piú tipiche asserzioni di Lutero.

    Ma non sembra consentito trasformare parallelismi e coincidenze, che per quanto copiosi rimangono sempre occasionati e disorganici, in argomenti di scambievole dipendenza. Lutero, è vero, è costantemente scarso di riferimenti alle fonti del suo pensiero. Ma quelli che egli dissemina nei suoi scritti sono sufficienti a una delineazione approssimativa delle vie lungo le quali si è sviluppata la sua cultura religiosa; e d'altro canto, se egli avesse potuto collocare le formulazioni tipiche della sua predicazione sotto l'egida di una insigne tradizione teologica, patrocinata ininterrottamente da un venerando Ordine claustrale, non avrebbe certo rifiutato l'uso di una arma cosí efficace per dare credito alle sue idee e sostegno alla sua polemica. Infine i maestri e i consiglieri privati che Lutero ha trovato negli anni primi della sua vita claustrale non tradiscono affatto orientamenti intellettuali da lasciar supporre ch'essi abbiano potuto addestrare efficacemente la giovane recluta alla conoscenza delle tradizioni agostinistiche. Giovanni von Platz, morto nel 1511, è un occamista non diverso dai docenti universitari, e del Nathin non conosciamo nulla che tradisca una peculiare competenza nelle sottigliezze differenziali delle scuole teologiche.

    Bisogna dunque chiedere a Lutero stesso, alle confidenze sporadiche e monche delle sue intime prove e delle sue spirituali traversie; al corso intenso e multiforme delle sue letture e delle sue esplorazioni patristiche ed ecclesiastiche; al suo stesso affannoso lavoro intellettuale; la spiegazione del problema offerto dalla sua palingenesi e dalla sua ribellione. La vita culturale e strettamente accademica assorbí ben presto quasi integralmente le energie del monaco. I primi scritti di Sant'Agostino che Lutero annotò furono le Meditazioni, i Soliloqui, le Confessioni. Nel suo primo insegnamento erfurtiano, commentando le Sentenze, egli si accinse, con i R u d i menta del Reuchlin, allo studio dell'ebraico. Passato a Wittenberg e addottorato, iniziava il suo insegnamento commentando i Salmi.

    Cercava in pari tempo di affinare la sua claudicante e superficialissima conoscenza del greco, mentre lo sviluppo delle sue indagini, lo stimolo della sua curiosità, la febbre delle sue agitazioni interiori lo spingevano assiduamente ad ampliare la sua dimestichezza con Sant'Agostino e con i mistici.

    Preso cosí intensamente dalle sue occupazioni intellettuali; in una casa religiosa dove la vita regolare lasciava straordinariamente a desiderare; tenuto, dalla carica di vice-priore, che il Capitolo di Colonia gli aveva affidato fin dal maggio del 1512, ad assolvere complesse mansioni di sorveglianza e di responsabilità; Lutero si lasciò andare ad una rilassatezza di pratiche devozionali che, acuendosi, dové provocare una attenuazione progressiva di quella capacità di pronta rispondenza di tutti i centri inibitori, di cui non può fare assolutamente a meno una vita consacrata a un arduo ideale di rinuncia e di purezza.

    Le ripercussioni morali di tale intima dissipazione non possono non essere state funeste. A noi non è dato di coglierle in pieno. Ci sono abissi della coscienza nei quali noi difendiamo quasi rabbiosamente dallo sguardo dell'altrui curiosità il segreto piú geloso della nostra vita morale. Sono gli abissi in cui si accumula oscuramente il tesoro

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1