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Storia segreta del papato
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E-book467 pagine6 ore

Storia segreta del papato

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Info su questo ebook

Sangue, potere e denaro: dalle crociate fino ai recenti scandali finanziari

Quando si pensa ai segreti e agli scandali del papato, la mente corre veloce alle losche vicende di palazzo, ai figli illegittimi, agli amori inconfessati che coinvolsero molti successori di Pietro, e tuttavia queste non sono che piccole ombre in una delle istituzioni più antiche e potenti della storia. Ci sono stati eventi ben più scabrosi e oscuri che, se portati alla luce e diffusi, avrebbero potuto mettere in serio pericolo la credibilità e la legittimità non del singolo papa, ma della stessa Chiesa. Incredibili falsificazioni, frodi, inganni, omicidi e lotte intestine hanno segnato la storia del papato fin dai primi secoli; il cosiddetto potere temporale ha ispirato la condotta dei papi e dei loro più stretti collaboratori, segnando in passato i destini dell’Europa. E ancora oggi quell’alone di mistero che circonda le stanze del potere del Vaticano è ben presente e stenta a dissiparsi. Questo libro, frutto di un lavoro di ricerca sulle fonti e su documenti originali, getta una luce nuova su ciò che la storia ufficiale ha voluto finora tenere nascosto…

Dal sacco di Roma allo scandalo Vatileaks

Per la prima volta tutta la verità sui lati più oscuri della chiesa di Roma

Tra i temi trattati nel libro:

• i dubbi sulla presenza di Pietro a Roma
• scismi e lotte di potere all’interno della prima chiesa
• i falsi documenti sul potere temporale
• gli accordi segreti tra il papato, gli eretici e i musulmani
• la questione di Galileo
• il papato durante le due guerre: tra spie e accuse di collaborazionismo
• i misteri dell’attentato a Giovanni Paolo II
• gli scandali Vatileaks
• la controversa rinuncia di Benedetto XVI
Leandro Sperduti
è archeologo e collaboratore presso il Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Roma «Sapienza». Ha tenuto corsi di formazione e aggiornamento scientifico presso numerose università, associazioni, istituti e centri di cultura storica, accademie e istituzioni pubbliche sia in Italia che all’estero. Ha condotto scavi in Italia e all’estero. Ha intrapreso numerosi e approfonditi studi storici e archeologici su molti monumenti romani in collaborazione con la Soprintendenza di Roma, con l’Università e con la Pontificia Commissione di Archeologia. È stato Segretario generale dell’Associazione Archeologica Romana e dal 1995 presiede l’associazione culturale Athena di Roma. Con la Newton Compton ha già pubblicato due romanzi: I 7 arcani del Vaticano e La cripta segreta dei 7 anelli.
LinguaItaliano
Data di uscita5 set 2017
ISBN9788822713223
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    Anteprima del libro

    Storia segreta del papato - Leandro Sperduti

    Premessa

    Il papato rappresenta qualcosa di assolutamente unico nel panorama controverso e variegato della storia umana. Esso, infatti, oltre a essere il cuore e il punto di riferimento per una corrente religiosa che conta più di un miliardo di fedeli sparsi in tutto il mondo, detiene da venti secoli un potere simbolico e reale che gli ha permesso di esercitare un controllo senza eguali sulla civiltà, soprattutto occidentale. Ciò è ancora più incredibile se si considera che, a differenza di ogni altro potere politico, il papato non ha avuto una nascita o una costituzione per così dire giuridica, né un programma o uno statuto istituzionale definito, almeno per i primi mille anni.

    Parafrasando una famosa affermazione che l’imperatore Augusto fece su di sé, sarebbe forse più giusto dire che quello del papa di Roma, più che un potere, è un’auctoritas, cioè un peso storico e politico fondato soprattutto sull’autorevolezza e sul prestigio che gli riconoscono i fedeli cristiani, o almeno una gran parte di essi. Il suo potere è legato dunque al consensus, che nel caso specifico è addirittura una fides, cioè la convinzione dei fedeli che il papa sia il legittimo successore, senza soluzione di continuità, di quell’apostolo Pietro che Gesù Cristo stesso avrebbe scelto a capo della sua Chiesa.

    Quasi tutta la storia del papato è una riaffermazione di questo diritto e privilegio che, mutato in primato, ne fa il capo dell’intera cristianità.

    Eppure, tutto ciò è stato ben lungi dall’essere scontato o unanimemente riconosciuto. Fin dai primi secoli della sua storia il papato ha dovuto lottare per ottenere la sua legittimazione e ritagliarsi il suo spazio in una società dagli equilibri estremamente complicati. Non c’è da meravigliarsi, dunque, che per ottenere questo e per affermare il loro primato sulle altre Chiese, i papi di ogni epoca abbiano a volte manipolato la storia, stretto alleanze spesso improbabili o accettato compromessi eticamente e moralmente discutibili.

    Questo è però un libro sul papato e non una sua storia. Non si tratterà infatti delle vicende di tutti i pontefici, dall’elezione alla morte; piuttosto si prenderanno in esame particolari storie di alcuni di loro per evidenziare come, a volte, la storiografia indugi su alcuni aspetti e ne sorvoli totalmente altri, creando miti o pregiudizi, a danno della realtà storica o dell’obbiettività delle vicende.

    Negli ultimi anni si è parlato spesso di segreti o vicende oscure nella vita dei più di duecentosessanta papi che si sono succeduti sul trono di Pietro eppure, nella maggior parte dei casi, si è indugiato sulle loro debolezze umane o sulle chiacchiere di palazzo. Certo la crudeltà, gli amori clandestini, le paternità illegittime, finanche l’omosessualità rappresentano senza dubbio qualcosa da tener segreto per chi, come il vescovo di Roma, deve incarnare l’ideale cristiano di bontà, misericordia, giustizia e purezza, ma non sono certo questi i peccati che possono mettere in pericolo un messaggio etico e universale come quello propugnato dalla Chiesa di Cristo. I papi, del resto, sono prima di ogni cosa uomini tra gli uomini e, come tali, suscettibili alle miserie, alle tentazioni e alle problematiche della condizione umana. Ben più insidiosi sono quegli eventi che, prescindendo dalle azioni del singolo, possono coinvolgere l’idea stessa del papato e della sua missione, minandone la legittimità e il potere, oltre che l’ideale. Per questo, dunque, non parleremo dei segreti dei papi bensì dei segreti del papato, ovvero di quelle circostanze e vicende che, in varie epoche e situazioni spesso alquanto diverse, costituirono per la Chiesa un problema pericoloso e scabroso e, quindi, qualcosa da tener nascosto o risolvere senza troppo clamore.

    Problematiche che hanno impegnato a lungo più di un pontefice, coinvolgendo anche cardinali e uomini di Curia e trascinandosi spesso per decenni. Vicende che hanno generato contestazioni, scismi, guerre e scandali, che hanno rappresentato le miserie di alcuni papi ma anche la grandezza di altri e che, nonostante tutto, hanno consentito alla Chiesa di Roma di restare indenne nei secoli e arrivare fino al giorno d’oggi.

    Le vicende dei singoli pontefici, seppur essenziali nel quadro d’insieme, sono dunque spesso trascurabili. Ciò che è davvero importante è il cammino generale della Chiesa, una struttura complessa ed enorme di cui ciascuno dei papi è nel contempo un pilastro e un mattone costruttivo, che deve però la sua forza al fatto di poggiarsi su quell’unica particolarissima pietra.

    I. I primi secoli

    Alle origini della prima Chiesa

    La storia cristiana sembra non lasciar spazio a dubbi, soprattutto per ciò che riguarda l’origine della Chiesa romana, un’istituzione che per non meno di venti secoli ha influenzato profondamente le vicende umane. Nelle fonti ecclesiastiche la diffusione del cristianesimo a Roma viene da sempre attribuita ai santi Pietro e Paolo, definiti rispettivamente il principe degli apostoli e l’apostolo delle genti, celebrati universalmente come fautori e patroni del papato. Ma in verità le origini della comunità cristiana romana sono tutt’altro che chiare e definite.

    Considerando la situazione politica e sociale dell’epoca, infatti, l’idea che in una grande città un singolo personaggio o un ristretto gruppo di individui possano aver attuato una rapida conversione di massa e che questo nuovo movimento religioso possa aver avuto un unico capo o referente è a dir poco antistorica, quando non addirittura impossibile.

    La Roma del i secolo aveva una popolazione che si avvicinava al milione di abitanti, articolati in un complesso mosaico etnico in cui erano rappresentate tutte le genti dell’impero. Tra gli immigrati erano soprattutto gli orientali a prevalere, fin da quando, nella metà del ii secolo a.C., i romani avevano fatto propri i grandi regni ellenistici di Macedonia, Pergamo e Siria. Decine di migliaia di greci, asiatici, siriaci, ebrei e arabi si erano riversati in città, attirati dall’apertura dei mercati e dalle grandi opportunità economiche che la capitale dell’impero sembrava offrire loro. Come spesso accade, però, i nuovi arrivati non si erano amalgamati con la popolazione latina, ma avevano mantenuto una forte identità etnica, concentrandosi in specifici quartieri ghetto dove avevano continuato a vivere secondo i propri costumi e conservando la propria lingua. Numerosi autori antichi lamentano questa vera e propria contaminazione culturale della città¹. Un caso particolare e persino estremo era costituito proprio dalla comunità ebraica, una delle prime e più numerose a giungere in Italia. Fin dal ii secolo a.C., infatti, lo Stato romano aveva sottoscritto con gli ebrei vari accordi allo scopo di ottenere il loro appoggio nella guerra contro i re seleucidi di Siria. Spinti da opportuni privilegi e dalle prospettive di guadagno, molte famiglie ebree si erano trasferite a Roma, soprattutto nella zona di Trastevere, occupando interi settori del commercio e dell’imprenditoria.

    È molto probabile che proprio in seno a questa comunità ebraica si siano manifestati i primi segni del cristianesimo, e questo ben prima dell’arrivo in città di Pietro e Paolo. È quasi certo, anzi, che anche nell’Urbe ci siano stati quegli episodi di intolleranza e scontri che a Gerusalemme avevano visto contrapporsi gli ebrei tradizionalisti e quelli convertiti al cristianesimo. A tale circostanza, infatti, sembra riferirsi l’episodio citato dallo storico Svetonio e relativo all’anno 49, quando l’imperatore Claudio espulse da Roma gli ebrei colpevoli di aver suscitato tumulti su istigazione di tal Chresto². A lungo si è dibattuto su questo passo che, errore onomastico a parte, sembrerebbe documentare la presenza di una nutrita comunità cristiana in città a meno di due decenni dalla morte di Gesù.

    Che la diffusione del cristianesimo a Roma sia avvenuta ben prima che vi giungessero gli apostoli, del resto, è testimoniato dalle lettere che lo stesso Paolo indirizzò ai romani convertiti quando era ancora in Oriente, intorno al 57. Inoltre, come riferito negli Atti degli apostoli, alcuni cristiani di Roma gli si fecero incontro prima che giungesse in città per la prima volta³.

    Ma allora chi portò il cristianesimo nella capitale dell’impero?

    È probabile che i primi artefici ed evangelizzatori siano stati proprio i mercanti ebrei del ceto medio, soprattutto quelli legati al traffico delle stoffe orientali che, giunte nei mercati siro-palestinesi attraverso le vie carovaniere, erano poi smerciate nei vari porti del Mediterraneo fino a Roma. Un esempio per tutti sarebbe quello di Aquila, un mercante ebreo di tende originario del Ponto che, con sua moglie Priscilla, era stato costretto a lasciare Roma dopo l’espulsione ordinata da Claudio. Rifugiatosi a Corinto, diede ospitalità a Paolo che con lui viaggiò fino a Efeso e qui convertì l’alessandrino Apollonio⁴. Lo stesso Aquila, in seguito, fece ritorno a Roma, ospitò ancora una volta Paolo e la sua casa divenne addirittura ritrovo di una delle comunità cristiane cittadine⁵.

    In mancanza di un libro sacro di riferimento che fornisse i dettami e i precetti della nuova religione, è probabile che ciascun evangelizzatore fosse portavoce di una sua particolare versione del cristianesimo che, pur nell’adesione a un unico principio etico e spirituale, aveva però una propria ritualità e persino una propria teologia. Ciò, del resto, rifletteva a pieno la complessa società ebraica che, in Giudea come a Roma, era divisa in moltissimi gruppi di derivazione famigliare, caste e sette religiose.

    Per quanto riguarda i primissimi secoli, dunque, sarebbe più esatto parlare di cristianesimi, ciascuno portato avanti da una specifica comunità, soprattutto a Roma, dove ogni gruppo di fedeli appariva distinto per estrazione sociale, identità etnica o linguistica. Proprio questa pluralità culturale, del resto, spiegherebbe un altro dei fenomeni che sembrano caratterizzare la più antica storia cristiana: la proliferazione dei testi sacri e didattici che fornissero informazioni su Gesù e sui suoi insegnamenti, come già testimoniato dall’evangelista Luca proprio al principio della sua narrazione⁶. Si è valutato che già alla fine del iii secolo fossero in circolazione non meno di trenta vangeli, tra canonici, apocrifi, giudeo-cristiani e gnostici, molti dei quali noti solo dalla citazione che hanno fatto alcuni padri della Chiesa. Ciascuno di questi scritti forniva una propria versione e interpretava il messaggio cristiano in base alle aspettative o ai bisogni etici di una specifica comunità a base etnica. C’erano dunque testi evangelici di fattura ellenica, giudaica, armena o copta, ognuno con proprio carattere e destinazione. Questa situazione perdurò senza particolari problemi per quasi trecento anni, fintanto che le diverse comunità cristiane operarono in clandestinità, ma esplose in tutta la sua problematicità dopo la liberalizzazione del culto voluta da Costantino nel 313. L’uscire allo scoperto dei diversi gruppi di fedeli mise in luce le loro diversità e fece nascere il problema delle numerose eresie che turbarono e insanguinarono il cristianesimo per almeno due secoli.

    La controversa vicenda di Pietro a Roma

    Situazione e plausibilità storica a parte, però, la Chiesa di Roma continua a ribadire che alle proprie origini debba collocarsi la figura di Pietro, il principe degli apostoli. Ciò appare infatti in linea con la cosiddetta successione apostolica, quella dottrina teologica cristiana secondo cui i vescovi delle più importanti Chiese derivano il loro prestigio e autorità direttamente dagli apostoli, quasi ne fossero i discendenti.

    L’arrivo dell’apostolo Pietro a Roma, la sua morte e la presenza della sua tomba sotto il Vaticano sono dunque le questioni più importanti tra quante hanno riguardato il papato nel corso dei secoli, poiché proprio su di esse si fonda la sua apostolicità e il suo primato su tutte le altre Chiese. In base a quanto riferito nel Vangelo di Matteo, infatti, Pietro avrebbe riconosciuto in Gesù il Figlio di Dio e sarebbe stato designato dallo stesso come fondamento della sua Chiesa⁷. Diverse furono, per questo, le comunità che si riconnettevano direttamente all’apostolo, a cominciare da quella di Antiochia, poi quella di Corinto e, in Italia, quelle pugliesi di Otranto, Leuca e Taranto. Solo una, però, vantò da sempre il privilegio di aver ospitato il martirio di Pietro e di accoglierne la tomba, la Chiesa di Roma, che da centro dell’impero anelava a divenire anche cuore della cristianità. Per riaffermare questo legame del tutto privilegiato, inoltre, la Chiesa romana non esitò a far proprie alcune tradizioni che, invero, appartenevano ad altre comunità soprattutto orientali. È il caso degli arresti e delle vicende carcerarie di Pietro, svoltesi per lo più a Gerusalemme, nel corso dei suoi primi tre arresti da parte del Sinedrio ma in seguito riferite alla sua prigionia romana all’interno del Carcere Mamertino. Lo stesso vale per la festività della cattedra di san Pietro, celebrata in un primo momento in Antiochia il 18 gennaio e poi sovrapposta a Roma al rito dei Feralia, il 22 febbraio, quando in memoria dei defunti si pregava davanti a una sedia vuota. Dal 1962 le due diverse festività sono state unificate nella seconda⁸.

    A dire il vero, però, le fonti relative alla presenza di Pietro nell’Urbe sono alquanto imprecise, quando non addirittura discordanti. Mentre infatti l’arrivo di Paolo in città è ben testimoniato dagli Atti degli apostoli⁹, le vicende romane di Pietro compaiono solo in fonti apocrife e nella patristica successiva, non senza qualche contraddizione.

    Uno dei primi scrittori a riferire che Pietro si trovasse a Roma fin dal 42 è il vescovo Papia di Ierapoli, vissuto alla fine del i secolo e dunque di poco posteriore alla morte dell’apostolo. Della sua opera storica, però, ci restano solo pochi frammenti riportati due secoli dopo da Eusebio di Cesarea che, oltretutto, dimostra di non averne una grande considerazione¹⁰.

    Pochi riferimenti più credibili si ritrovano nelle lettere di alcuni padri della Chiesa del ii secolo, Ignazio di Antiochia¹¹, Dionigi di Corinto¹² e Ireneo di Lione¹³, ma anche in questo caso non si va oltre la semplice citazione. Anche Clemente Alessandrino si limita a poche notizie, aggiungendo però che era accompagnato da sua moglie per sottolinearne i pregi maritali¹⁴.

    La tradizione della presenza di Pietro a Roma si consolidò, comunque, molto velocemente poiché a essa fa ormai continuo riferimento Tertulliano intorno al 220¹⁵.

    Nessuno degli autori più antichi e autorevoli sembrano dunque fornire particolari informazioni sulle vicende di Pietro a Roma. Gran parte della tradizione si basa infatti sui cosiddetti Atti di Pietro, un testo anonimo della seconda metà del ii secolo attribuito a un certo Leucio Carno e ispirato ai ben più celebri Atti di Giovanni. Come in molta della letteratura cristiana apocrifa, anche qui si lascia ampio spazio all’aneddotica indugiando su particolari didattici e favolistici, spesso assai improbabili, con intenti didascalici e simbolici. Sono da inserire tra questi i famosi episodi del volo e caduta di Simon Mago¹⁶ e del Quo Vadis¹⁷, che tanta fortuna ebbero poi nella cultura popolare e nell’arte.

    Quale che sia l’attendibilità delle fonti, è difficile stabilire l’effettiva durata del mandato petrino, eppure tutti gli autori concordano nell’attribuirgli un periodo di egemonia estremamente lungo. La Chiesa stessa considera Pietro il suo papa più longevo, con un pontificato di ben 37 anni. Ciò si deve al fatto che il suo inizio viene fissato al momento della morte di Cristo, nel 33, molti anni prima che il messaggio cristiano giungesse a Roma. Questo dato, non condiviso certo dalle Chiese orientali, si deve alla precisa volontà del papato di rivendicare fortemente il suo diritto di discendenza dalla primitiva comunità degli apostoli senza soluzione di continuità.

    Limitandoci alla sua sola permanenza a Roma, l’effettiva presenza di Pietro a capo di una delle comunità cristiane presenti in città non fu che di tre o quattro anni.

    Un discorso a parte merita la questione legata all’arresto e alla morte dell’apostolo, che la tradizione pone nell’ambito della persecuzione voluta da Nerone. Anche in questo caso non esistono fonti antiche che lo confermino, e tutto sembra fondarsi sul fatto che l’eccidio neroniano, seguito al grande incendio del 64, appaia essere l’unico provvedimento promosso in quegli anni contro i cristiani. La cosa appare tanto più credibile se si pensa che è lo storico più importante dell’epoca, Tacito, a sottolineare come proprio l’imperatore abbia rivolto contro i fedeli di Cristo l’accusa di aver appiccato l’incendio e corrotto la società romana¹⁸. Questa notizia, che indugia poi sulla crudeltà dei supplizi imposti, va certo inquadrata nell’ambito del giudizio negativo rivolto dalla classe senatoria contro Nerone e fece di lui, per tutti i secoli a venire, il prototipo del tiranno persecutore dei cristiani. L’idea che Pietro sia stato arrestato e condannato in questa occasione aumenta il carattere epico del suo martirio ed è presente in una citazione fatta da Tertulliano, che scrive però dopo quasi duecento anni¹⁹.

    Una versione alternativa, per quanto assai improbabile, è proposta dagli Atti di Pietro²⁰. Vi si racconta che una donna di nome Santippe, convinta alla castità dalla predicazione dell’apostolo, avrebbe preso a disertare il letto di suo marito Albino, amico personale dell’imperatore. Infuriato per l’abbandono, Albino si rivolse al prefetto Agrippa scoprendo che questi era stato colpito dalla stessa sorte. Decisero dunque di sbarazzarsi dello scomodo predicatore e, nonostante l’intercessione di una parte della popolazione, arrestarono Pietro condannandolo a morte per ateismo. L’idea di una condanna a morte per futili motivi e, in particolare, per la gelosia di un marito, costituisce un motivo letterario piuttosto ricorrente nella letteratura religiosa e serve a sottolineare la banalità del male contrapposta alla retta moralità del santo sottoposto al supplizio. Tra i papi anche Clemente i, terzo successore di Pietro secondo la numerazione ufficiale, venne arrestato a seguito della denuncia del nobile Sisinnio, geloso di sua moglie Teodora.

    Sia nel caso di una condanna nell’ambito della persecuzione neroniana che in quello, per quanto improbabile, dell’arresto voluto da Albino e Agrippa, la morte di Pietro appare comunque connessa con la sua fede cristiana e ne fa il suo più nobile testimone esaltandone la santità. Anzi, proprio la qualifica di testimone, in greco martyr, appare un importante presupposto per la santità di lui e della comunità che alla sua figura andava riconnettendosi: la Chiesa di Roma.

    Sarà forse per questo che l’unica notizia in controtendenza e davvero contemporanea agli eventi appare scarsamente considerata o, comunque, poco propagandata. Trent’anni dopo la morte dell’apostolo, in una lettera indirizzata ai fedeli di Corinto che lamentavano forti dissidi interni, il già citato Clemente i li esortava alla pace e alla concordia ricordando loro che «Pietro, per un’ingiusta invidia, non una o due, ma molte sofferenze subì e così col martirio raggiunse il posto della gloria»²¹. Questa frase della lettera clementina apre scenari completamente nuovi e alquanto controversi. Cos’è questa ingiusta invidia che lo avrebbe portato al martirio? La parola greca utilizzata nel testo è zélon, traducibile letteralmente come invidia, ambizione o rivalità. È possibile che Pietro sia stato vittima della delazione di altri fedeli o del contrasto tra gruppi cristiani diversi che già in precedenza lo avevano forse costretto ad allontanarsi da Gerusalemme? Se così fosse ci ritroviamo ancora una volta di fronte alla frammentazione della comunità delle origini e ai suoi aspri dissidi interni, una situazione che ricorrerà frequentemente in tutta la storia della Chiesa. Ma la cosa più sconvolgente sarebbe un’altra, almeno in chiave simbolica: la condanna e la morte di Pietro andrebbero viste nell’ambito di una lotta di potere tra fazioni per il controllo della comunità dei fedeli e non come una testimonianza di fede: cadrebbe così l’idea del martirio e, quindi, della santità. Tuttavia lo stesso testo della lettera contiene in sé il riferimento al martirio e alla gloria, pertanto la sua interpretazione è ancora alquanto controversa.

    Problemi analoghi riguardano anche le modalità e il luogo del martirio. Gli Atti di Pietro sono, ancora una volta, l’unico testo che ci offre una versione degli eventi. Vi si dice che l’apostolo, condannato alla crocefissione, chiese di essere messo a testa in giù poiché ciò rappresentava meglio la condizione umana, che vive al contrario i precetti divini²². Il fatto che un condannato a morte chiedesse e ottenesse una variazione nel proprio supplizio in forma ancor più infamante o cruenta è cosa assai improbabile nell’ordinamento giudiziario romano ma appare molto frequente in tutta la letteratura agiografica cristiana poiché ne aumentava il carattere eroico. La tradizione della crocefissione a testa in giù ebbe subito una grande fortuna e venne ripresa da Eusebio e, agli inizi del v secolo, da Girolamo, il quale aggiunse però che questa venne motivata dal non volersi paragonare a Cristo nella morte²³.

    Per quanto riguarda il luogo del martirio, la tradizione cristiana ha sempre indicato un preciso punto sul colle Gianicolo, dove fin dal ix secolo c’è una chiesa chiamata appunto San Pietro in Montorio, deformazione del toponimo Mons Aureum. È molto probabile, però, che essa sia avvenuta nel circo di Nerone in Vaticano, come riportato dagli Atti, in prossimità del presunto luogo di sepoltura.

    Non ci sono notizie riguardo il giorno e l’anno della morte dell’apostolo. Il calendario liturgico riporta, come data il 29 giugno, giorno in cui Pietro viene festeggiato insieme a Paolo. La data ricorre anche in un’iscrizione votiva del iv secolo, proveniente dalle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro a Roma. Non c’è alcuna ragione storica perché i due santi si debbano considerare martirizzati lo stesso giorno, seppur in luoghi e modalità diverse, eppure la cosa appare fortemente sostenuta sia nel Martirologio Romano che nei Sinassarii orientali. Entrambi, del resto, sembrano derivare per questo dal Decretum Gelasianum che, alla fine del v secolo, recitava che «nello stesso tempo e nello stesso giorno Paolo fu con Pietro coronato di morte gloriosa nella città di Roma sotto l’imperatore Nerone»²⁴. È probabile, infatti, che sull’argomento circolassero fin da allora numerose versioni contrastanti tanto da richiedere, nel 496, un intervento risolutivo e dogmatico da parte di papa Gelasio. Va sottolineato, però, che proprio il 29 giugno, nel calendario romano pagano, ricorreva la festa dei Quirinalia, nella quale si celebravano congiunti Romolo e Remo quali fondatori e tutori di Roma. Ancora una volta, dunque, una delle più importanti festività cristiane appare improntata su una precedente pagana, con Pietro e Paolo affiancati quali novelli gemelli e patroni della città. Per quanto riguarda l’anno, invece, si fa riferimento al periodo compreso tra il 64, quando ci fu il grande incendio, e il 67, riportato da Girolamo che parla del quattordicesimo anno di Nerone.

    Una nuova data è stata ipotizzata da Margherita Guarducci, a seguito dei suoi studi su Pietro. L’archeologa ed epigrafista ha proposto come data di morte il 13 ottobre 64, in occasione della ricorrenza dei dieci anni del principato neroniano²⁵. Poiché era tradizione che, in queste circostanze, si offrissero al popolo spettacoli e giochi con l’esecuzione collettiva dei nemici pubblici e criminali, non è improbabile che tra essi sia stato giustiziato anche Pietro. A dire il vero non c’è alcuna fonte che documenti lo svolgimento di questa festa per cui la proposta appare quanto mai azzardata.

    La questione più spinosa rimane però quella della sepoltura di Pietro, poiché proprio sulla sua effettiva presenza fisica la Chiesa di Roma può fondare il suo primato.

    Il problema maggiore riguarda la discrepanza tra le diverse fonti e tradizioni.

    La testimonianza più antica circa la presenza della tomba di Pietro in Vaticano risale ai primi anni del iv secolo, da parte del solito Eusebio di Cesarea, il quale riporta testualmente la lettera che, un secolo prima, il presbitero Gaio aveva inviato all’eretico Proclo. A quest’ultimo che decantava le molte sepolture venerabili presenti in Asia Minore, Gaio rispose con sicurezza: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli. Se infatti vorrai recarti in Vaticano o sulla via di Ostia, troverai i trofei di coloro che fondarono questa Chiesa»²⁶. Innanzitutto appare abbastanza curioso l’uso della parola trofeo per indicare una tomba, soprattutto in considerazione che lo stesso Eusebio utilizza altrove il termine sepulcrum. Tuttavia si è pensato di trovarvi, in ambito cristiano, un confronto anche altrove²⁷, soprattutto in considerazione del carattere glorioso della sepoltura come luogo della prossima vittoria sulla morte. La citazione di Eusebio, in ogni caso, non lascerebbe dubbi sul fatto che la tomba di Pietro si trovasse proprio nell’area del Vaticano, non lontano dal circo di Nerone dov’era avvenuto il martirio. L’informazione è ribadita anche da Girolamo²⁸, che fa anche espresso riferimento alla necropoli lungo la via Trionfale, dalla Passio apostolorum Petri et Pauli²⁹ e dal Liber Pontificalis³⁰, ma nessuna di queste fonti risale a prima del v secolo. Proprio il Liber Pontificalis³¹, anzi, riferisce che il 18 novembre del 324, durante il pontificato di Silvestro, l’imperatore Costantino fece porre il corpo di Pietro in una doppia cassa cubica d’argento e bronzo dorato del quale, con dovizie di particolari, vengono fornite perfino tutte le misure (5 piedi di lato). Il prezioso sarcofago sarebbe stato sotterrato sul sito della sepoltura originaria e su di esso sarebbe stato poi eretto l’altare della grande basilica vaticana. Di detto sarcofago, in verità, non si è mai trovata traccia in nessuna delle circostanze in cui si è indagato il sottosuolo del Vaticano; la forma cubica e il lato di appena un metro e mezzo, del resto, inducono a ritenere che la citazione del Liber Pontificalis possa riferirsi all’altare della chiesa e non a un sarcofago per il corpo dell’apostolo.

    La tradizione della tomba di Pietro in Vaticano collide però con quanto riportato nella Depositio Martyrum, un testo della metà del iv secolo che appare assolutamente fondamentale per il culto dei martiri romani e per l’identificazione delle loro sepolture. In questo antico calendario, infatti, ogni giorno riporta il nome del santo venerato indicandone con precisione il luogo della tomba ove recarsi in preghiera. È proprio grazie a questo documento che, per esempio, la Chiesa sostiene la veridicità delle sepolture di Agnese lungo la via Nomentana o di Lorenzo sulla Tiburtina. Ebbene, nella stessa Depositio, alla data del 29 giugno, gli apostoli Pietro e Paolo sono riportati insieme ma Pietro è dato come sepolto in Catacumbas, ovvero nel cimitero di San Sebastiano al iii miglio della via Appia antica³². Questa notizia sembra trovare conferma nella presenza, proprio in questa importante catacomba romana, di un edificio devozionale attestato fin dal iii secolo e chiamato Memoria Apostolorum. Si tratta di una sala per riunioni, preghiere e pasti cerimoniali, con un lungo sedile per i fedeli e le pareti segnate da circa seicento graffiti votivi nei quali si inneggia continuamente proprio ai santi Pietro e Paolo. La solidità di questa tradizione, del resto, spiegherebbe anche il perché proprio il complesso cimiteriale di San Sebastiano, a differenza di tutti gli altri, non sarebbe mai caduto nell’oblio, rimanendo frequentato per tutti i secoli del Medioevo, e il suo nome proprio ad Catacumbas (letteralmente alle conche dalla presenza di alcune cave o, forse, dall’insegna di una taverna) passò a indicare tutti i sepolcreti cristiani ipogei. Nella citazione della Depositio si fa riferimento anche al consolato di Basso e Tusco, ovvero all’anno 258, come probabile data della traslazione del corpo nella catacomba. Poiché l’anno corrisponde a quello della terribile persecuzione anticristiana attuata dall’imperatore Valeriano, si è pensato che il trasferimento del corpo del santo sia stato effettuato per metterlo al sicuro da possibili profanazioni. Di questo evento, come pure del suo eventuale ritorno in Vaticano, però, non si fa menzione alcuna nel Liber Pontificalis o nelle altre fonti antiche, e ciò continua a generare gran disaccordo tra gli studiosi. La questione doveva essere alquanto dibattuta già in età antica, se è vero che il Martyrologium Hyeronimianum, nella metà del v secolo, cerca una sintesi delle due tradizioni riportando la venerazione di Pietro sia in Vaticano (dove però lo colloca erroneamente sulla via Aurelia) che, insieme a Paolo, nelle Catacombe dell’Appia³³.

    La pericolosa contraddizione delle fonti storiche fece sì che, per secoli, ci si astenne dal compiere qualunque tipo di indagine nel sottosuolo del Vaticano, alla ricerca di un’eventuale sepoltura di san Pietro. Persino nel xvi secolo, quando pure si demolì l’antica chiesa costantiniana e si posero le basi dell’attuale grande basilica, non si fece alcuno scavo per ricercare la tomba dell’apostolo e si continuò a venerare la sua presunta testa custodita in Laterano.

    Solo nel 1940, proprio mentre l’Italia entrava nella seconda guerra mondiale, papa Pio xii ordinò che si scavasse sotto l’altare papale, con la motivazione ufficiale di adempiere al desiderio del suo predecessore Pio xi di essere sepolto nelle cosiddette Grotte Vaticane. Gli scavi, compiuti sotto la responsabilità del monsignore Ludwig Kaas, furono condotti dall’architetto Apollonj Ghetti e dagli archeologi gesuiti padri Kirschbaum e Ferrua, protraendosi per quasi dieci anni nella massima riservatezza e non arrestandosi neppure durante i periodi bui dell’occupazione tedesca di Roma. Si scoprì che l’antica basilica eretta nel iv secolo dall’imperatore Costantino poggiava su un interro artificiale che livellava in parte la pendice meridionale del colle Vaticano e che aveva inglobato parte di una vasta necropoli romana in uso fin dal i secolo. Gli scavi riportarono in luce almeno diciassette mausolei a camera in muratura, ciascuno contenente decine di sepolture per lo più incinerazione. In nessun caso vennero rinvenuti elementi riconducibili alla fede cristiana, eccetto nel mausoleo indicato con la lettera m, dove un lacerto di mosaico parietale ha restituito l’immagine del dio Sole a testa radiata su un carro. Questa particolare iconografia, divenuta abbastanza comune a partire dal iii secolo, raffigurava il cosiddetto Sol Invictus e si riferiva a vari culti di origine orientale tra cui quello siriaco di El-Gabal, il mitraismo o lo stesso cristianesimo. La scoperta più interessante riguardò però un piccolo spazio a cielo aperto, risultante dall’affiancamento di alcuni dei mausolei e denominato Campo p. Questo ha restituito i segni di numerose sepolture a fossa, scavate direttamente nel terreno e ricoperte da semplici tegole, del tipo molto comune nei cosiddetti campi dei poveri. Tutte le tombe, però, sono state trovate manomesse o svuotate giacché proprio su di esse si è impiantato l’altare dell’antica basilica costantiniana, su cui poggia ancora oggi l’altare papale dell’odierna San Pietro. Questa situazione nacque ovviamente dalla necessità di fondare l’altare della prima grande basilica esattamente su quello che doveva essere il luogo più sacro per i fedeli. Non è difficile intuire che il punto in questione potesse essere proprio la tomba di Pietro, una fossa nel terreno lungo la via Cornelia, a pochi passi dal Circo Neroniano dov’era forse avvenuto il martirio dell’apostolo. A conferma di ciò venne fatta anche un’ulteriore scoperta: il rifacimento altomedievale dell’altare costantiniano aveva inglobato al suo interno parte di un’edicola marmorea, retta da due colonnine e addossata alla parete esterna di uno dei mausolei, opportunamente intonacata di rosso. Poteva, questa piccola edicola marmorea, essere il cosiddetto trofeo di cui parla il presbitero Gaio nel passo di Eusebio? L’ipotesi era certamente affascinante, ma i resti visibili non recavano alcuna iscrizione o segni cristiani che ne attestassero il culto. Inoltre, tutte le fosse sembravano svuotate già nell’antichità e la stessa, presunta, fossa di Pietro appariva distrutta per metà dall’impianto del muro del mausoleo a cui poggiava l’edicola. La stratigrafia del terreno appariva completamente sconvolta e l’intero complesso presentava molte manomissioni attuate nel corso dei secoli. Nello svuotamento dalla terra si recuperarono numerosi pezzi crollati di intonaco e molti frammenti di ossa umane e animali mescolate insieme. Gli scavi si conclusero dunque con la convinzione di aver individuato l’originaria tomba di Pietro, ma anche con la consapevolezza che essa era stata svuotata già da molto tempo. Questo risultato lasciò certo un po’ di amaro in bocca ma parve riconfermare la tradizione che voleva il corpo di Pietro trasferito nelle catacombe durante il periodo delle persecuzioni, come appariva testimoniato dalla Depositio Martyrum e dai ritrovamenti a San Sebastiano sull’Appia. Ciò spiegava anche come mai, contrariamente a quanto era avvenuto in prossimità di ogni altra sepoltura di martire, a ridosso della tomba dell’apostolo, non si era sviluppato un vasto complesso sepolcrale cristiano di fedeli che aspiravano alla sua protezione. Inoltre, nel baldacchino della basilica di San Giovanni in Laterano, è da secoli esposto alla venerazione dei fedeli un reliquiario d’argento in cui è custodita proprio la presunta testa di san Pietro; averne trovato la tomba vuota presentava, dunque, una certa coerenza.

    Gli scavi sotto il Vaticano vennero ufficialmente pubblicati, ma i loro risultati furono oggetto di ampie contestazioni, soprattutto riguardo le modalità con cui erano stati compiuti. Tra tutte prevalse, nel 1953, la voce di Margherita Guarducci, docente di Epigrafia greca all’Università di Roma e accademica dei Lincei. Studiando alcuni dei frammenti di intonaco raccolti durante gli scavi del Campo p ne individuò uno su cui comparivano alcune lettere in greco che, opportunamente integrate, vennero da lei interpretate come la scritta petros eni, possibile forma contratta di petros enesti ovvero Pietro è qui. Era questa la testimonianza epigrafica di cui si sentiva assolutamente il bisogno per avere conferma dell’identificazione della tomba di Pietro. Ma la Guarducci non si fermò qui. Proprio a ridosso della fossa vuota e del cosiddetto trofeo era un breve muro con un piccolo loculo vuoto, il cui intonaco era segnato da numerosissimi graffiti intraducibili. La studiosa sostenne che l’intrigo di segni rappresentava un caso di criptografia mistica, una sorta di codice usato dai primi cristiani per nascondere l’attestazione del proprio culto, e asserì di riconoscervi alcune invocazioni cristiane dedicate a Pietro, Gesù e Maria. Sostenne quindi che il piccolo loculo era stato il luogo dove, a partire forse dall’epoca costantiniana, era stato traslato il corpo dell’apostolo recuperato dalla fossa terragna. Ottenne poi che venisse recuperata la cassetta in cui erano stati raccolti i frammenti di ossa rinvenuti e ne affidò l’esame all’antropologo Venerando Correnti. Questi, tra ossa di vari animali da cortile, individuò quelle di almeno tre individui, due uomini e una donna. Uno degli uomini risultava più anziano, di un’età compresa tra i 60 e i 70 anni, per cui venne trionfalmente indicato come il probabile apostolo Pietro, che però al momento della morte doveva essere più che ottantenne. Ne nacque una vera e propria contesa accademica tra la Guarducci e i colleghi che avevano compiuto gli scavi, soprattutto il padre archeologo gesuita Antonio Ferrua, che sosteneva con decisione il carattere erratico di dette ossa. La questione si protrasse per quasi mezzo secolo con alterne vicende o riconoscimenti a favore o contro ciascuno dei contendenti e continuando anche dopo la scomparsa degli interessati, morti ambedue in età più che veneranda (Margherita Guarducci è deceduta nel 1999 a novantasette anni, padre Ferrua nel 2003 a centodue). Negli ultimi decenni, tuttavia, complice anche una volontà di dare maggior credito alla tradizione piuttosto che all’evidenza archeologica, è prevalsa la linea sostenuta dalla Guarducci e, nel sottosuolo della basilica vaticana, vengono mostrate con orgoglio le presunte reliquie del principe degli apostoli, conservate in parte entro alcune scatolette di plexiglass, poggiate nel piccolo loculo dove le avrebbe fatte riporre l’imperatore Costantino³⁴.

    Con buona pace dei sostenitori dell’una o dell’altra teoria, in verità, la questione della sepoltura di Pietro è ben lungi dall’aver trovato una soluzione giacché nelle catacombe sull’Appia resta ancora senza soluzione la presenza della cosiddetta memoria con i suoi numerosissimi graffiti e le fonti letterarie a sostegno.

    Esistono inoltre testimonianze ancora diverse, quantunque discutibili, seppur non senza qualche elemento a favore. Tra queste è interessante quella della mistica cattolica Maria Valtorta, che nel 1948 dichiarò che la tomba di Pietro sarebbe stata in un primo momento del

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