La Stirpe delle Anime Guerriere
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Anteprima del libro
La Stirpe delle Anime Guerriere - Sara Riia Ascoli
me
La pazienza e l’intensità
Sembrava che la battaglia della resa io la dovessi sistematicamente perdere.
Qualunque cosa facessero i Miei per insegnarmi l’arte della pazienza, non riuscivo affatto ad arrendermi.
Quel giorno arricciai il naso al termometro che segnava 38° C: in vero, non avevo impegni in agenda, tantomeno trattamenti da effettuare in studio. Ragionevolmente, avrei potuto godere di quello stato febbrile magari leggendo un po’ o guardando un film. Eppure, la presunzione di agire tendeva ogni muscolo del mio corpo, incurante della dolente spossatezza e della necessità di riposo.
Quell’urgenza di fare violava, nondimeno, la missione che mi era stata assegnata: «arrenditi; entra nella pazienza; osserva.»
Poche cose irritano il mio corpo più del dover essere paziente, come se vi fosse costituzionalmente avverso!
Entrare nella pazienza
è uno stato dell’attenzione a cui i Miei mi hanno spesso richiamata nel corso del loro lungo addestramento.
Quando avevo circa quattordici anni fui raggiunta da uno strano invito: la vita mi convocò sul sentiero dei guerrieri astratti. Lo fece dapprima attraverso una lunga sequenza di sogni in cui io assistevo, come mera spettatrice, agli insegnamenti che solo molti anni dopo mi sarebbero stati impartiti nel mondo di veglia. Allora, ovviamente, non compresi di cosa si trattasse; ignoravo pure cosa fosse un guerriero. Certamente ero una giovane forse un po’ troppo combattiva, testarda, caparbia e già poco incline alla resa; mi intrigavano molto le sfide volte a migliorare la mia persona, le prestazioni sportive, il rendimento negli studi. Come molti, ero prigioniera di un’idea di me che credevo fosse la mia identità oggettiva: ero convinta che l’immagine mentale che avevo di me stessa fosse reale ed ero persuasa di essere quella rappresentazione. Fu così che mio malgrado, mi imbattei in una serie di sfide sempre più ardue tra assenze e perdite importanti, tanto che già a quell’età vivevo da sola e spesso in circostanze minacciose per la sopravvivenza, nonché con uno stato di salute da sempre precario.
Ho spesso ritenuto che la vita sia dotata di un particolare senso dell’umorismo che, tuttavia, per anni non ero stata in grado di apprezzare: non risi infatti, quando fui chiamata a fronteggiare la malattia mentale di alcuni membri della mia famiglia. Piuttosto persi la cognizione di quanto fosse giusto o sbagliato, vero o immaginario: ricordo l’estenuante sforzo per aggrapparmi a dati incontrovertibili di realtà affinché il germe della follia non avesse la meglio sulla mia ferrea ragione occidentale. Oggi direi che non c’è niente di più folle di un illusorio raziocinio!
Dobbiamo però attendere che io compia ventuno anni affinché riuscissi a intravedere quei fili che muovevano la mia esistenza inconsapevole. Fu in quel periodo, infatti, e nei due anni di completo isolamento conseguente al decesso di mio padre, che mi imbattei in corsi e seminari i cui ambiti di formazione erano alquanto particolari. Accadeva sempre che fossi quasi costretta dall’amico di turno ad accompagnarlo in uno di quei posti in cui si insegna a parlare con gli spiriti guida o a viaggiare con il corpo astrale. Per di più, durante gli studi universitari, quando tentai di ottenere una tesi sullo sciamanesimo andino, conobbi uno sciamano che volle iniziarmi ad alcune sue tecniche e saperi. Ne restai colpita oltremisura ma con il trascorrere del tempo abbandonai quella che allora era solo curiosità. Quasi per gioco, invece, seppure sotto la guida di un noto esperto, presi a sviluppare una sorta di conversazioni con alcune figure disincarnate definite dai più Maestri, Guide o funzioni superiori dell’io. Ai nomi non ho mai dato grossa importanza; anche il termine figure
non è appropriato, poiché non hanno un aspetto; la definirei, piuttosto, una comunicazione con l’astratto. E poiché la percezione che avevo di queste voci interne era in qualche modo orientata su più di un elemento, iniziai a usare il plurale per riferirmi a loro e a definirli, affettuosamente i Miei
.
Da allora, i Miei non fanno altro che parlare di questo ignoto
o astratto
, o stirpe delle anime che vengono dal paradiso
, ma che non può essere descritto con una reale appropriatezza linguistica, benché per anni io li abbia tormentati con incessanti domande volte a tradurre in formulazioni comprensibili ciò che per me non lo era.
Le prime comunicazioni con i Miei erano piuttosto sporadiche e portate avanti quasi per diletto; per lo meno, questa era la mia intenzione cosciente che, però, non ha mai incontrato la loro complicità. Nonostante ciò, presi a dialogare con loro sempre più di frequente fino ad arrivare, nel giro di alcuni anni, a trascorrere intere notti sveglia per trascriverne i dettami.
Poiché non ho mai visto i Miei, posso descriverli soltanto attraverso quella che secondo me è la loro più rilevante caratteristica: sono molto ironici; sfiorano spesso il sarcasmo e sanno ridere di gusto. O, per lo meno, ridono di me. Loro sostengono che la rilevanza di questo tratto dipenda da me, dal fatto che sono particolarmente affezionata all’ironia.
Agli inizi, non è stata una convivenza semplice: mi infastidiva questa intromissione continua nelle mie giornate, mentre studiavo, uscivo con amici o partner, facevo sport. Puntualmente li avvertivo mentre mi ingiungevano di acquistare un libro di cui ignoravo l’esistenza o suggerivano di recarmi in un luogo sconosciuto; attaccare bottone con una certa persona; vedere un film ecc. In più, mi invitavano ad occuparmi di cose e argomenti alquanto particolari che esulavano completamente dai miei interessi e per i quali non incontravo, se non raramente, una condivisione con altri individui. A ciò va aggiunto, a onor del vero, che avevano una vera e propria ossessione per mettermi costantemente alla prova su qualunque cosa. Ad oggi, posso dire che molte delle scelte che ho fatto nel corso della mia esistenza non le avrei probabilmente mai compiute, se non fosse stato per loro. Il mio lavoro di counselor, ad esempio: io volevo fare il killer professionista!
Pertanto, non è accaduto di rado che mi ribellassi a loro, sino al punto di rifiutarli per anni. Alla fine siamo diventati buoni amici. Rimango la solita testarda e malfidata ma ho appreso a lasciarmi guidare: con il senno del poi posso affermare che non hanno mai sbagliato un colpo con me; hanno modellato il mio essere in ogni sfaccettatura e continuano a farlo ogni giorno. Senza loro, non credo che ce l’avrei fatta. A volte ho pensato che se non li avessi seguiti, avrei forse potuto avere una vita più semplice e regolare; non avrei subito le perdite che mio malgrado ho dovuto elaborare; non avrei dovuto sacrificare così tanto di questa esistenza. Ma per la maggior parte del tempo so con esattezza, e senza ombra di dubbio, che senza i Miei a oggi, non sarei neanche viva: sono state le sole presenze che ho avuto accanto nei momenti peggiori della storia personale, anche se è proprio verso quella storia che si avventano i loro insegnamenti, affinché io riesca gradualmente a cancellarla, ad affrancarmene e prenderne talmente le distanze da poterne raccontare così come si fa con gli aneddoti da piazza di paese.
Un guerriero astratto si trova a familiarizzare con un gran numero di battaglie divise per tipologia di avversario, per scopo o per terreno. Tra le più complesse, quella della resa per me lo è maggiormente, e per diversi motivi: primi fra tutti la pazienza e l’intensità. Inoltre, trovo le competizioni di resa oltremodo frustranti poiché sono quelle che invitano a non combattere.
Nel corso dei primi anni di addestramento alla pazienza ero persino riluttante a comprenderne il senso; con gli anni divenne chiara la minaccia che quello stato d’attenzione arrecava al mio frenetico ego e, dunque, la necessità di questa disciplina.
In accordo con i Miei, la maggior parte delle persone sarebbe affetta da una singolare malattia: la convinzione che il corpo sia il depositario della propria identità personale o, per meglio dire, di un’idea di se stessi.
Il corpo diviene così il paziente da curare: contagiato da un virus mentale che lo induce ad agire nel mondo per affermare o difendere quest’idea che i più chiamano Io
, incontra la guarigione entrando nella pazienza
ovvero, evadendo dalle sbarre della mente che ne fa un burattino in agitazione per scampare il terrore di sentirsi nulla. La pazienza somministra dosi di resistenza alla tentazione di agire per determinarsi o determinare e, in tal modo, libera gradualmente il corpo dal condizionamento di credersi la causa del divenire quando è soltanto una manifestazione dell’essere: è effetto e non ragione; strumento e non cagione.
Il corpo è agito: non agisce.
Pazientare è come un bisturi che asporta la patogena trama mentale dai sensi, ora non più asserviti al mondo delle idee ma resi ciò che sono e non ciò che la mente vorrebbe fossero.
Reciso il collegamento morboso, la mente si ritrova priva di esecutori, indebolita e incapace di dirigere la volontà sul mondo materiale con la violenza di un piccone sull’argilla per forgiare fragili idoli o immagini¹ di sé.
Reso e arreso il corpo a mero oggetto del divenire, la volontà arretra e si fa osservazione di ciò che mai diviene eppure, eternamente, è.
La pazienza spodesta la mente dal trono mortale del mondo delle cose e ci solleva oltre il divenire: come aquile senza tempo o farfalle danzanti, libere di essere e non costrette a dover essere.
L’esercizio della pazienza ci arruola nei ranghi delle cause: ma come osservatori distanti e silenziosi.
Un guerriero della stirpe delle anime che vengono dal paradiso, duella sempre contro se stesso: non ha nemici da sconfiggere, piuttosto ha se stesso da vincere.
Dunque, contro chi o cosa deve ingaggiare le sue competizioni? Contro l’idea che ha di sé ovvero ciò che ognuno di noi crede di essere: l’immagine mentale e mondana di se stessi; i discorsi della mente.
E per cosa combatte?
Per la libertà dei suoi territori dall’invasione nemica.
L’altro requisito necessario nelle competizioni di resa è l’intensità. Potrei definirla una qualità del tempo interiore molto simile al tempo dei sogni in cui, nel giro di pochi minuti o di un’ora si può vivere una o più vite intere. È per questo che un incontro apparentemente banale per un guerriero contiene campi di esistenze cosmiche: lo sguardo di un uomo ignaro non può vedere che negli occhi di un essere che si è astratto, l’universo è nuovamente in guerra.
L’intensità è terribile e magnifica: richiede una padronanza che si ottiene soltanto dopo essersi bruciati centinaia di volte. Per anni mi sono chiesta quante volte avrei potuto consumarmi così eppure risorgere dalle mie stesse ceneri. Non ho mai trovato la risposta.
L’intensità poggia sulla qualità energetica di un uomo astratto: quanto più egli ha operato per conservare la propria energia, tanto più vivrà di intensità. Sembra irresistibile solo il pensiero di poter vivere ogni cosa come fosse una vita intera: l’arcobaleno ha molti più colori; esistono più fiori di quanto un botanico possa annoverare tra i suoi studi; i sorrisi incrociati sono fondali di oceani popolati di mistero o cime innevate su cui i raggi del sole erigono cattedrali di luce. Nell’intensità un nome, una parola, un errore conquistano la storia, liberano territori afflitti, risvegliano deserti. Ogni animale parla nell’intensità: racconta e dona le sue qualità; ha maestrie da impartire; talvolta ti sceglie come suo allievo; altre, ti mette alla prova per valutare se ne sarai degno.
Sembra inebriante poter spezzare i fili del tempo e non dover tessere mai quelli dello spazio. Eppure, l’intensità ha un prezzo: richiede dispendi enormi di energia e quindi nuove imprese per conquistarne altra. Induce alla morbosità: è capace di affamare il guerriero più sazio; di sedurre l’uomo più casto; di accendere una fiamma già ardente. Bisogna saperla maneggiare con cura poiché può trasformarsi nella ladra più efferata e saccheggiare ogni risorsa personale.
L’intensità è sempre pronta e perennemente in agguato; l’ho scovata ovunque: nella pagina di un libro, nell’ombra che accoglieva un mio un passo, dentro un gesto colto per caso, in una porta chiusa dal vento, in una coincidenza banale, in una sensazione all’improvviso! È una creatura meravigliosa che invita a danzare ogni ballo sino, poi, a sfinirti. È per questo che un guerriero deve saper restare sobrio: la misura è tutto nella sua esistenza; non può vivere con ingordigia, né inseguendo qualcosa o qualcuno.
Una buona dose di potere personale apre il varco all’intensità, il che comporta quasi sempre che si accenda pure la tentazione di fare, o di strafare; di conquistare e vincere! Ecco perché anche la resa diviene una battaglia difficilissima da combattere per un essere astratto. L’intensità si pone al centro di ogni campo in cui ci si debba armare: invita, seduce, canta come una sirena. Eppure, il guerriero non deve cedere: bisogna soltanto padroneggiarla; lasciare che vibri dentro se stessi ad una frequenza inaudita ciononostante, mantenersi fermi; non disperderne neanche una quantità infinitesimale. Si tratta di resistere all’incontenibile impulso a fare, dimostrare, agire, parlare, creare: ci si sente al massimo e con questo carico vibrazionale si deve stare al minimo. È frustrante, lo ammetto. Tuttavia, è solo esercitando questa padronanza che si riescono ad evitare alcune delle conseguenze dell’intensità.
La prima cosa in