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Quattro giorni
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E-book214 pagine3 ore

Quattro giorni

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Info su questo ebook

Marina ha 9 anni e con la sua famiglia sta facendo, come tutti gli anni, una vacanza al Lido di Venezia. Il suo fratellino ha un incidente e per questo verrà affidata per quattro giorni alla famiglia Menin. La libertà e la spensieratezza di cui fa esperienza per la prima volta con mamma e papà Menin, e soprattutto la vicinanza con Lele, loro figlio minore, cambierà per sempre il suo modo di vedere il mondo e le regalerà coraggio e il desiderio di essere sé stessa.
LinguaItaliano
Data di uscita10 lug 2020
ISBN9788899136628
Quattro giorni

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    Anteprima del libro

    Quattro giorni - Antonella Giacon

    citate

    Uno

    È bastato un attimo. Gliel’avevo detto ‘resta là sul marciapiede. Aspetta’.

    Ma niente. Ha voluto attraversare. Senza guardare. Io non mi sono neanche accorta. L’ho visto quando stava già per terra sulla strada. Tutto disteso fermo. Mi faceva paura questo fermo. E un po’ mi faceva rabbia dentro perché lui vuole sempre stare dove sto io. Anche quando gli tiro i calci e gli dico ‘vai via’. Come se mi volesse cavare l’aria dalla bocca. Anche quando gli do i pugni in testa, qualche volta. Sta da una parte per un minuto due, poi si dimentica e ricomincia. In più stava con mio papà e io con mia mamma e lui con mio papà non ci vuole stare. Non ci siamo abituati con mio papà. Mia mamma dice perché lui ci sta poco. Io dico che non è questo, perché anche se non vedo la nonna per tanto tempo quando arriva mi fa felice e sento con il corpo che la conosco.

    Invece lui no. Lui ci guarda solo un minuto con gli occhi chiari chiari, poi cerca la sedia il piatto l’acqua minerale fredda il tovagliolo. Dice ‘ciao bambini’ ma non fa mai domandine tipo: ‘com’era l’acqua oggi, quanto avete nuotato, avete trovato gli amici dell’anno scorso, si dorme meglio qui o è come a casa?’.

    Lui prima mangia e sta zitto poi parla con mia mamma e se qualcuno entra in cucina saluta sorridente allegro, ma io so che non è vero perché quando se ne vanno dalla cucina lui non ride più. Si mette una mano sulla faccia, si asciuga il viso col tovagliolo e dice che è stanco morto, non vede l’ora di buttarsi sul letto, speriamo che ‘quelli non fanno tanto casino’.

    Quelli sono i signori Menin 1 la famiglia che ci affitta una camera dentro casa loro per tutta l’estate, che hanno tre figli, due grandi grandi e uno più grande di noi ma più piccolo, Lele.

    Loro stanno svegli fino a tardi, giocano a carte e guardano la televisione, ma poche volte perché di solito la televisione è rotta e loro si dimenticano di farla aggiustare. ‘Perché su certe cose’ dice mio papà ‘sono un po’ lazzaroni, cioè gli frega poco della casa e di quello che c’è dentro’.

    Poi finché non è notte proprio nera si parlano da una stanza all’altra, sbattono le porte e la signora Cate ascolta la radio mentre fa da mangiare per il giorno dopo in cucina, perché loro non tornano a pranzo, mangiano tutti dentro il magazzino di stramassi 2 che loro fanno o rimettono a posto. Tranne Lele che ci sta solo poco, per il resto fa le cose di casa, tipo la spesa, rifare i letti, lavare i piatti e certe volte pure spazzare e lavare per terra, che io a un maschio queste cose non le ho mai viste fare.

    Mia mamma quando lo vede gli dice ‘sei bravissimo’ e cerca di mettergli una mano sui capelli ma lui si scansa. Perché è rustego 3 dice mio papà, che per lui tutti nella famiglia Menin sono matti. Non hanno orari, si vestono con quello che trovano, stanno svegli di notte, mangiano troppa roba fritta, non fanno vacanze in estate, il signor Menin papà recita in una filodrammatica e gli piace fare le imitazioni degli attori famosi tipo Jerry Lewis e la signora Menin anche se è più vecchia di mia mamma certe volte balla i balli scatenati dei capelloni con il mangiadischi a volume alto, in più tutti, dico tutti, camminano a piedi scalzi per casa.

    ‘Guai se vi viene in mente anche a voi di camminare a piedi scalzi’ dice mia mamma e noi non diciamo niente, ma quando non ci vede ci togliamo i sandali e lo facciamo pure noi, che nelle stanze dappertutto c’è il parchè 4 a spina di pesce come a casa nostra, ma più vecchio con dei pezzi di legno già tolti dove sotto c’è una specie di buchi scuri pieni di polvere appiccicata. Quando corri sul pavimento devi stare attento perché se ti vanno a finire i piedi là dentro capace che ti spacchi un’unghia o che ti va una scheggia di legno dentro la pelle, così è impossibile nascondere a mia mamma che abbiamo camminato a piedi scalzi e lei prima di toglierci la scheggia con l’ago passato sul fuoco del fornello in cucina ci fa vedere la mano aperta sopra la testa come dire ‘quante mi viene da dartene’.

    L’unica cosa buona che hanno i Menin per mio papà è che sono dei gran lavoratori e allora un po’ li scusa.

    A me i Menin piacciono tutti, ma più di tutti Lele, anche se a lui per me non gli piaccio. Anzi per me non gli frega proprio niente di me e neanche di mio fratello. Un po’ gliene frega di mia mamma secondo me, ma non so perché. Una volta le ha portato anche su le sporte della spesa anche se lei non gli aveva chiesto niente e poi non ha voluto neanche le 50 lire che gli ha messo in mano. Lei teneva in braccio mio fratello che ha già sei anni ma quando si stufa di camminare si siede per terra e non si alza più anche se io gli dò i calci sul culo. Più lei teneva una sporta piena e faceva una fatica bestia. Però mica lo lasciava giù per le scale, che di sicuro quando si vedeva da solo si alzava subito. No, lo teneva in braccio come un bambino piccolo, e a me mi veniva un nervoso da morire. Allora Lele è arrivato di corsa da dietro leggero come un vento, le ha preso la borsa e ci ha aspettato di sopra con la porta aperta che quella è di legno e pesa un quintale. E mi è sembrato bello quello che ha fatto, e pure che non ha detto una parola. Non come mio fratello che parla sempre, è una radio accesa.

    Solo lì per terra sulla strada si è spento. E io stavo a guardarlo e non sapevo se scendere dal marciapiede o rimanere a guardare lui e la spesa sparsa di qua e di là.

    E poi si è fermato tutto nei miei occhi: mia mamma inginocchiata per terra che gli prende la testa, lo chiama, mio papà che guarda intorno rosso in faccia, urla «Un telefono!», il guidatore della macchina fuori, ha le ciabatte marroni sui piedi e tanti peli che escono dalla canottiera, una signora che mi prende la mano e mi dice «Non ti muovere, stai qua», ha i capelli neri neri messi a torta di compleanno sulla testa, la mano molto lunga e fresca e io non mi muovo, ogni tanto le guardo la torta sulla testa, mi piace un po’ sì e un po’ no, e mi dico ‘e se mi porta via proprio adesso che c’è confusione?’.

    Adesso arriva l’ambulanza, gli infermieri si fermano un minuto, sono due, ma io vedo poco perché c’è gente davanti, anche mio papà non lo vedo più. Tiro la mano della signora, le dico che voglio andare anche io là, lei dice «Stai tranquilla, adesso vengono loro», ma io non ci credo tanto. Poi le porte dell’ambulanza si aprono e tirano su la barella con lui dentro, a me mi pare che tiene gli occhi chiusi, ma non vedo tanto bene, lo sistemano dentro, fanno entrare mia mamma e se li portano via. La sirena non la mettono, non so perché, ma se lo portano via allora è grave.

    Resta un po’ di gente in mezzo alla strada, e adesso vedo di nuovo mio papà. Io lo chiamo ‘papà’ ma non tanto forte, lui parla con l’uomo delle ciabatte brutte e altri tre quattro che dicono «È stato un attimo, non si poteva prevedere, per fortuna che andava piano sennò era un disastro, vedrà che tutto si risolve, adesso gli fanno gli accertamenti, magari lo rimandano a casa anche domani, ma per sicurezza è meglio così». L’uomo con le ciabatte sta zitto, mio papà guarda intorno, io chiamo di nuovo «Papà», lui mi vede. Io mi sento che mi trema il cuore solo adesso.

    Cominciano ad arrivare due tre macchine, allora si devono spostare sul marciapiede dove stiamo io e la signora. Sono arrivati non so quando anche due vigili in motocicletta, sono fermi vicino a loro, ma io intanto lascio la mano della signora, corro da mio papà, mi attacco alle sue gambe mezze nude. Stavamo tornando dal mare. È sabato, bisognava fare un po’ di spesa anche per domani che è tutto chiuso. Guardo indietro, le sporte della spesa ci sono ancora, le ha prese la signora che adesso viene verso di noi. Saluta mio papà, gli dice «Povero piccolo». Poi mi mette una mano sulla testa, gli dice «È stata brava, obbediente e non ha neanche pianto». Mi guarda e mi dice: «Hai avuto paura?». Non so cosa dirle, sto attaccata alle gambe di mio papà che sono secche secche sotto i pantaloncini corti azzurri.

    La signora dice: «Posso fare qualcosa?». Anche mio papà pare che non sappia cosa dirle, adesso comincia a parlargli un vigile motociclista e a fare domande, l’altro si mette in ginocchio a guardare la macchina e per terra. Così la signora va via e non so se mio papà le dice grazie e a me lei dice ‘ciao’. Io però almeno ‘ciao’ glielo dico.

    Il vigile ha tirato fuori una specie di blocchetto di carte e ha chiesto i documenti a mio papà e all’uomo delle ciabatte marroni che si chiama Vianello Giovanni, così per la prima volta ho sentito la sua voce, è del Lido di Venezia e un po’ si sente; quelli del Lido hanno la erre diversa da quelli che vivono a Padova come me. Certe volte io e mio fratello proviamo a parlare con questa erre e a dire fio e fia per dire ragazzo e ragazza e quando stiamo qua per due mesi alla fine ci riusciamo a dire la erre come loro e secondo me quasi sembriamo del posto.

    Io sono contenta se mi chiedono se sono di qua perché io qua ci vorrei vivere sempre, non solo in estate a luglio e agosto perché il dottore ha detto che dobbiamo respirare lo iodio per la bronchite. A Padova non usciamo quasi mai, sia perché siamo sempre ammalati a turno, sia perché andiamo anche il pomeriggio a scuola dalle suore. Io sto bene a scuola, tutti dicono che sono brava, attenta e studiosa; a mio fratello invece non piace tanto, ma fa l’asilo, si deve ancora abituare. Poi quando ti abitui secondo me è tutto più facile, riesci a stare fermo sul banco, e anche se non sai leggere l’ora dell’orologio, lo capisci lo stesso quanto ci vuole prima di andare a casa, non ti pare un tempo che non finisce mai e non ti viene più da piangere che vuoi la mamma, anzi ti pare una cosa che non hai fatto mai e ti fanno ridere i bambini che vedi piangere.

    Io poi a un certo punto sentivo che non volevo più tornare a casa e gliel’ho detto anche alle suore che volevo restare, ma loro credevano che facevo per scherzo. Mi succede così anche al Lido e se avevo coraggio glielo chiedevo alla signora Menin se potevamo stare con loro, essere tutta una famiglia. Perché in inverno non so se ho più nostalgia del Lido o della famiglia Menin e penso alla casa che sta proprio davanti alla laguna, basta attraversare la strada e c’è la panchina dove qualche volta ci sediamo per guardare il tramonto quando usciamo dopo cena. Il tramonto è sempre bello, ma quello in laguna è speciale, di solito è tutto di azzurro chiaro e rosa leggero sfumato, ma è pure lucido e illuminato sull’acqua e anche se sembra uguale non è uguale mai.

    Quando è inverno ci penso perché il tramonto a Padova non è mai così bello e di solito non lo vedo neanche, solo un pezzo piccolo se mi sporgo proprio dalla terrazza, ma deve essere già una bella primavera perché sennò in terrazza non ci stai, solo quando c’è il sole proprio caldo. Ma allora è più facile pensare che tra poco si va al Lido e ricordare tutti, soprattutto Lele e tutte le cose che si fanno, fin dall’inizio quando a giugno si prepara il baule con tutti i vestiti, i sandali, le lenzuola, gli asciugamani. Perché i signori Menin ci lasciano sui letti solo i copriletti vecchi tutti stinti che per mia mamma puzzano, così appena si arriva li mettiamo fuori sui fili a prendere aria. Nel baule verde ci mettiamo anche qualche pentola perché i Menin non ne hanno abbastanza, la coperta scozzese che non si sa mai, qualche volta ad agosto dopo che ha piovuto comincia quasi a fare freddo e tu sai che l’estate ormai non farà più tanta afa, la laguna diventa grigia e il mare è sempre mosso; in spiaggia ci vai vestito e ti tocca fare le passeggiate respirando forte così ti entra più iodio nei polmoni e fai riserva per l’inverno.

    Ma quando metto nel baule il secchiello, la paletta e il setaccio, che quello te lo vendono sempre insieme anche se alla fine non lo usi mai e la mamma ti chiede dove sono finite le formine che quelle invece non le ritrovi più anche se sei sicura di averle riportate a casa, mi viene il cuore leggero leggero e comincio a saltare tutto intorno finché mia mamma non lo chiude con le chiavi, ci scrive su un foglio bianco l’indirizzo: FAMIGLIA MENIN VIALE SANTA MARIA ELISABETTA LIDO DI VENEZIA e lo attacca con lo scotch sul coperchio. Io mi siedo sopra, gli faccio una carezza e gli dico ‘vai, vai tu intanto che io arrivo presto’. E quando mi guardo i piedi che non toccano per terra stando seduta là sopra mi pare di vedere l’acqua che mi arriva fino al ginocchio e io la muovo piano finché lei mi gira tutto intorno come un calzetto tirato su.

    A me viene sempre da essere felice già quando lo vedo tutto chiuso in sala prima che lo portano via i trasportatori perché lo so che quando sono al Lido non può mai succedere niente di brutto o di triste. Ma questa volta non è così.

    Così adesso camminiamo velocissimi, quasi corriamo io e mio papà lungo il Gran Viale per arrivare presto a casa dei signori Menin che fino ad agosto è anche casa nostra. Anche se ci provo a tenergli il passo non ci riesco e lui allora mi tira per il braccio e io che ho il sacchetto con la frutta sento la roba che va su e giù, secondo me quando siamo arrivati è tutta marmellata.

    Lui tiene l’altra sporta dove c’è il latte, la bottiglia di vino Soave che beve solo lui quando sta con noi il venerdì sera, il sabato e la domenica fino a dopo pranzo, l’insalata, i cartocci con gli affettati da mangiare questa sera perché al sabato mia mamma non ha voglia di cucinare per la cena. Si guarda tutti insieme alla televisione qualche bel programma di canzoni, se la televisione funziona. Sennò si sta in cucina e si chiacchiera di tante cose, di quello che succede alla gente qui e anche nel mondo con la signora e il signor Menin quando c’è, che succede poche volte ‘perché gliene piacciono troppe’ dice la signora Menin: le bocce, la filodrammatica, la pesca e il tiro al bersaglio col fucile che tiene chiuso a chiave in un armadio.

    ‘Certo, lui da giovane è stato repubblichino’, dice mio papà e fa una faccia seria e arrabbiata come se questa è una cosa molto grave, anche se a me non pare perché me lo hanno detto le maestre che noi siamo nella repubblica. Così quando lui sta in cucina diventa nervoso e dopo un po’ dice che è tanto stanco e va a dormire.

    Ma non dorme mica, si mette a leggere libri vicino all’unica abajùr 5 che funziona e sono tutti libri della seconda guerra mondiale: di generali, partigiani e carri armati, soldati americani e tedeschi. Io due tre volte ci ho provato a leggerli, ma lui mi ha detto che non è roba da bambini, e di lasciarli là sul comodino. Tanto io lo avevo già capito perché sono troppo noiosi e poi non ci sono mai femmine, solo maschi che fanno sempre le stesse cose come i giornalini di guerra a fumetti che trovi dappertutto a casa dei signori Menin. Li leggono tutti i figli, anche quelli grandi. La storia è sempre più o meno uguale, bisogna attaccare un posto o difendersi o scappare perché certe volte i soldati – che non si tolgono mai i berretti o gli elmetti, e chissà che caldo sentono – vengono fatti prigionieri in posti di paludi dove non mangiano niente, pieni di animali che portano malattie tipo malaria o la mosca tze tze. Ci sono sempre i giapponesi che sono cattivissimi, ma sono cattivissimi anche gli americani, quando riescono con un piano a rubare le armi ammazzano tutti, vecchi e giovani, magri e grassi, non gliene frega niente. Certe volte stanno dentro il fango per nascondersi, si attaccano delle foglie sull’elmetto e tengono il coltello in mezzo ai denti finché aspettano i giapponesi che passano di là, ma non si faranno male se il ferro taglia?

    Insomma sono tutte cose che non c’entrano, ma mi vengono in mente perché penso che adesso se c’è il signor Menin mio papà dovrà parlarci e raccontargli quello che è successo a mio fratello. Lui quando mia mamma gli chiede come mai è andato via così subito nella nostra camera lui risponde che non sopporta neanche di vederlo quello là. E quando mia mamma gli dice che il signor Menin era tanto giovane quando è successo e non si sa, magari non ha fatto niente, lui le risponde: «Ma non senti quello che dice? Lui è ancora di quelli, è nero di fuori e di dentro».

    A me pare che il signor Menin non fa e non dice niente di particolare, ma di carnagione è proprio scuro, la signora Menin dice che non ha neanche bisogno di prendere il sole, mica come lei che ha la pelle bianca bianca e i capelli un po’ biondi e un po’ bianchi che tiene lunghi sulle spalle raccolti sui lati con dei pettinini di plastica. Ma lei lo dice sempre sorridente come se questa cosa le piace. Lei però sorride con tutti, ma non sorride falsa, dice mio papà, e questo per lui è importante. Dice che lui in questa casa ci torna per lei che è una donna tanto brava e su questo andiamo d’accordo tutti.

    Insomma continuiamo a camminare, quasi a correre e ogni tanto mio papà, siccome il marciapiede è stretto, striscia sul muro che è tutto ruspioso 6 con la borsa della spesa e la bottiglia di vino fa sbim. Intanto parla da solo che deve telefonare per una macchina o è meglio andare fino all’ospedale a piedi, ma forse ci mette troppo, e ogni tanto mi dice ‘sbrigati Marina, cammina’, ma io più veloce non ce la faccio ad andare. Arriviamo davanti al portone e lui cerca nella tasca dei pantaloni le chiavi ma non le trova perché le tiene sempre mia mamma nel portamonete e allora comincia a dire ‘porchi e fora’ 7

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