Il tempo di un sorriso
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Info su questo ebook
È un giornalista introverso che si circonda di vecchi libri ingialliti dal tempo e ascolta musica mentre corre in riva al mare.
Vive in un luogo di cui conosce ogni volto ma che e pronto a lasciare, per volare verso Roma, dove c'è in ballo il lavoro da sempre sognato.
Con un cuore logorato dall'amore e due amici divisi dalla distanza, Matteo riempie lo zaino di ricordi che custodisce fin da bambino e inizia il viaggio che lo cambierà per sempre.
Sotto le luci di una delle città più belle del mondo, un racconto introspettivo che vede sentimenti come amicizia e amore mischiarsi nel tortuoso percorso della vita.
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Anteprima del libro
Il tempo di un sorriso - Salvatore Giambelluca
Baustelle
1
Di solito Luisa mi fa trovare il cancello aperto quando sa che passo a trovarla. Sembra chiuso ma in realtà è appoggiato in modo tale da non permettere che Laila vada a farsi un giro da qualche parte in piena notte.
Stasera il cancello è chiuso.
Fischietto la melodia che farebbe correre Laila verso di me scodinzolando, ma lei non arriva. Suono il citofono un paio di volte e aspetto qualche secondo con gli occhi verso la finestra che ha le luci accese, poi vado via.
Passeggio sotto le luci dei lampioni con le mani in tasca e lo sguardo perso nel vuoto. È autunno da pochi giorni. Sul viso mi arriva una leggera brezza dal mare che mi costringe ad alzare il colletto della giacca.
Sono solo, non c'è nessun volto familiare, nessuno a cui dare la buonanotte. Che strano, la mia è una strada sempre piena di gente fino a tardi. Anche il bar è chiuso. Il bar che non ho mai visto con le luci spente. Ci sono i tavolini fuori con le sedie sparse qua e là. Non c'è neanche il signor Paolo che di solito è sul balcone a fumare l’ultima sigaretta prima di andare a dormire.
C’è silenzio, un silenzio che viene interrotto da qualche macchina che sfreccia sulle pozzanghere regalate dalla fitta pioggia di qualche ora fa. È tutto per me. Io ne catturo ogni dettaglio, timidamente.
Arrivo davanti alla porta di casa mia e mi soffermo a guardare la finestra da cui osservo il mondo. Passo intere giornate dietro quella finestra, ad osservare la vita muoversi, cambiare. Contemplare il sorgere del sole al di là del mare mi fa sentire un uomo fortunato. È la distrazione più vera.
Per scrollarmi di dosso gli ultimi residui della serata, entrato in casa metto un disco di Ludovico Einaudi e vado in doccia. Rimango immobile con la schiena appoggiata al muro, la testa bassa e mi faccio avvolgere da un violento getto d'acqua calda. Mi passa tutta la vita davanti. Le persone care, la mia famiglia, gli amici, gli amori, le gioie, le difficoltà, gli ostacoli. Ogni elemento che mi ha portato ad essere quello che sono.
Lo specchio riflette un ragazzo magro, in forma, spettinato e con una barba che sarebbe meglio rimuovere. Cerco qualsiasi cosa somigli ad una lametta in ogni cassetto che mi capita davanti, alla fine ne trovo una che non ha un bell'aspetto, ma poco importa.
Mentre ho il viso ricoperto di schiuma da barba vengo interrotto da un suono cupo e smorzato che proviene dalla camera da letto. È il cellulare. Gli vado incontro con tutta la calma del mondo e lo guardo squillare per alcuni secondi.
«Ciao Luisa».
«Finalmente! È la quinta chiamata nel giro di due minuti».
«Ah, scusa, ero in doccia».
«Perché non sei più passato?»
«Sì che sono passato. C’era il cancello chiuso e ho suonato due volte».
«Sarà stato quando sono andata a cercare Laila».
«È scappata?»
«Sì, ma l’ho ritrovata».
«Meno male».
«Già. Ascolta, ti ricordo che domani mattina passo a prenderti alle sei».
«Alle sei? Non è presto?»
«No, non è presto. Sarei passata pure prima se non fosse che mi trovo davanti ad un malloppo di quattrocento pagine…»
«Va bene, allora a domani. Buonanotte».
«Buonanotte. Ah Matteo, non dimenticare la carta d'imbarco».
Tiro il cellulare sul letto e completo la mia opera di virilità con della bambagia ricoperta di alcool premuta sotto il mento.
Odio fare la barba di sera. Odio fare la barba sempre. Mio nonno diceva che certe cose andrebbero fatte di mattina, quando ancora la luce è leggera. Non ho mai visto mio nonno con la barba. Neanche con i baffi. I baffi li portano quelli che non hanno niente da dire e molte cosa da nascondere
.
Torno in camera, accendo il computer e mi fermo a leggere alcune mail tra cui una, la più bella e malinconica che abbia mai ricevuto.
Non so perché sono qui a scriverti queste parole di cui so già che mi pentirò. Ma lo faccio. Lo faccio perché tu sei la persona più importante della mia vita, perché da domani quando avrò bisogno di parlarti tu sarai più distante dei dieci minuti che separano le nostre porte.
Ti scrivo perché è giusto così, perché volevo augurarti buona fortuna senza scoppiare in lacrime, perché so già che quando ti sentirò al telefono o leggerò le tue parole mi mancherai.
Ti scrivo perché sono la tua migliore amica e vorrei continuare ad esserlo.
Mi manchi già.
Luisa
La leggo due volte, con il sorriso. La vorrei stampare e infilarla nel portafogli per rileggerla quando mi pare. Stento a credere che la mia fredda e dura amica mi abbia scritto delle parole simili.
La scrivania è piena di scartoffie. Prendo alcune cose che dovrei portare con me e le infilo nello zaino, poi mi sdraio a letto. Spero di chiudere occhio, almeno stasera. Afferro il libro che c’è sul comodino da alcune settimane e di cui conosco ogni riga, Il Grande Gatsby di Fitzgerald e crollo nel giro di pochi minuti.
Quando mi sveglio e tento di colpire la sveglia mancano meno di venti minuti prima che Luisa inizi a svegliare i vicini a colpi di clacson. È dannatamente puntuale Luisa, come nessuna donna.
Trascino la mia faccia assonnata sotto l'acqua fredda e posiziono la caffettiera sul fornello. Appena sveglio niente come l’odore di caffè mi ricorda quanto la vita sia meravigliosa. Chissà se la pensa allo stesso modo la signora Enza, l'isterica vecchietta del piano di sotto che sente sbattere stoviglie prima delle sei del mattino.
Trovare qualcosa di commestibile è un'impresa impossibile, un misero e scontato risultato per chi si ostina a non fare la spesa per giorni, o settimane, come nel mio caso.
Tra una camicia e dei jeans osservo distrattamente l'orologio. Il mio fare lento e per nulla nevrotico mi porta a prepararmi come se stessi per andare ad un concerto vicino casa.
Mentre tento di chiudere la valigia sento bussare alla porta. Due colpi intensi che diventano tre. Non è Luisa. Lei mi avrebbe fatto uno squillo.
«Chi è?» esclamo.
«Il signor Paolo sono».
Apro la porta e vedo il signor Paolo con un pacchetto in mano.
«Buongiorno signor Paolo».
«Ciao Matteo».
«Cosa fa qui a quest’ora?»
«Sono venuto a portarti un pensiero, prima che partivi...»
«Che pensiero? Prego, si accomodi».
Lo faccio entrare tra la confusione che regna nella mia piccola casa.
«Ho saputo che vai a Roma, a lavorare» dice.
«Sì. Be' in realtà non è proprio così, devo fare un colloquio prima...»
«Ah un colloquio, e vabbè, fesserie. Comunque io ti ho portato un regalo da parte mia e di mia moglie, magari ti porta bene».
Mi porge un pacchetto blu di piccole dimensioni con un fiocco rosso.
«Grazie, ma non doveva signor Paolo».
Lo apro davanti a lui. È una penna, una bellissima penna, di quelle che si regalano per gli eventi importanti.
«È poca cosa» dice, «però tu che fai il giornalista magari la usi».
«È bellissima signor Paolo, grazie, non doveva, davvero» gli dico abbracciandolo, «ringrazi pure Maria, le dica che appena posso la chiamo».
«Sarai servito Matteo. Ora vado che ho fatto il turno di notte e ho un sonno incredibile».
«Vada, vada. Un attimo che l’accompagno alla porta».
«Tanti saluti ancora Matteo. E buon viaggio eh, buon viaggio».
Chiudo la porta e quasi mi commuovo.
Faccio un grosso respiro e mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa che mi impedisca di partire, qualcosa che mi trattenga un minuto in più. Chiudo la valigia senza troppe difficoltà, recupero il cellulare e mi giro con l'aria di chi sta lasciando quello che è il suo rifugio da sette anni.
Dentro queste mura c'è il me che nessun altro conosce e che mi appresto a cambiare per sempre.
Al secondo colpo di clacson di Luisa metto lo zaino in spalla, afferro la valigia e mi dirigo verso quella che potrebbe diventare la mia nuova vita.
2
Non arrivo mai in aeroporto puntuale, oggi invece sono in anticipo e c’è anche il tempo per mangiare qualcosa. Invito Luisa al bar e ci accomodiamo ad un tavolo che ha sopra i resti di cibo di una settimana. Ordiniamo due cornetti al cioccolato.
Ha la faccia stanca Luisa. Il verde dei suoi occhi è meno sgargiante del solito, il viso pallido e i capelli raccolti da una forcina dimostrano i pochi minuti trascorsi davanti allo specchio pur di passare a prendermi quando era ancora buio.
Mi sento in colpa a vederla in questo stato, potrei dirle qualcosa di carino, qualcosa che le faccia tornare il sorriso, invece mi limito a guardarla.
«Allora? Pronto per la capitale?», chiede facendo attenzione a non disturbare il cameriere che pulisce il nostro tavolo.
«Non lo so. Credo di sì. Anche se non ho ancora realizzato bene l'idea».
«Ritieniti fortunato».
«Luisa, è un colloquio, un banale colloquio. Molto probabilmente mi rideranno in faccia e mi stringeranno la mano con un le faremo sapere».
«Non dire stronzate», esclama sfuggendo al mio sguardo, «mi dai sui nervi quando fai il finto modesto, sappiamo tutti e due che ti prenderanno e che te ne andrai».
Pronuncia le sue parole con timore. Sa che la nostra amicizia potrebbe essere messa a dura prova dalla distanza, ma sa anche che quel lavoro significherebbe molto per me e non direbbe mai qualcosa che mi facesse cambiare idea.
«Non è finta modestia. So bene come vanno queste cose, quindi non mi illudo».
«Sarà, ma tu hai tutte le carte in regole per far colpo. È la tua occasione