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Rika
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E-book224 pagine3 ore

Rika

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Info su questo ebook

Con Rika si ritorna alle atmosfere cupe, al ritmo incalzante e ai momenti visionari e cinematografici che avevano già caratterizzato i precedenti romanzi di Mario Vattani.
Questo è un libro sul coraggio, sulla determinazione a resistere a tutti i costi, con protagonista una diciassettenne di Tokyo e la sua terribile avventura in Italia, a Roma. Il racconto è basato su un episodio di cronaca realmente accaduto nella Capitale nel 2011 ad una giovanissima turista giapponese. Scopriamo Rika nella sua periferia di Tokyo, poi la seguiamo durante il suo viaggio, e presto ci troviamo a decifrare il suo modo di vedere l’Italia, Roma, gli italiani.
Lo stile è rapido, avvincente, crudo, anche se tra una pagina e l’altra non manca l’ironia. E alla fine, gli occhi di questa ragazza così lontana da noi diventano uno specchio implacabile in cui improvvisamente ci riconosciamo, spogliati da ogni presunzione di cultura, civiltà o superiorità, presi dalle nostre ossessioni, dalle nostre debolezze, senza scuse di fronte al valore tagliente e spietato del coraggio.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2021
ISBN9791220803304
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    Anteprima del libro

    Rika - Mario Vattani

    MARIO VATTANI

    RIKA

    Rika

    Mario Vattani

    © Idrovolante Edizioni

    All rights reserved

    Editor-in-chief: Daniele Dell’Orco

    1A edizione – maggio 2021

    www.idrovolanteedizioni.it

    idrovolante.edizioni@gmail.com

    A mia figlia

    Il coraggio e la vigliaccheria

    non sono argomenti da discutere in tempo di pace.

    Appartengono ad un’altra natura.

    yamamoto tsunetomo

    , Hagakure

    PAISLEY

    No, non così. Lasciami un momento.

    Ancora questa voce da bambina stupida, non so da dove mi venga.

    Lui però continua a stringermi i fianchi. Difficile capire cosa voglia fare, e perché continui a premermi contro il muro, da dietro. Ormai sono completamente schiacciata contro la carta da parati rosa e viola. La vedo vicinissima, a pochi millimetri dagli occhi. Oltre alle strisce di colore, ho notato anche degli strani ghirigori in rilievo, che sembrano lucidi. Forse è per farla sembrare di stoffa.

    Com’è che si chiama questo motivo?

    Paisley. Sì, si chiama paisley. Ci stampano i foulard di seta, ma io ho anche un giacchetto di daino vintage che è foderato proprio così, di paisley. Sembrano protozoi. Li abbiamo studiati a scuola l’anno scorso. Protozoi di diverse dimensioni, uno dentro l’altro.

    Aspetta un attimo, ehi!

    Adesso Shimada ha infilato il pollice destro nei miei jeans e lo sta facendo scorrere fino al bottone davanti. Continua a respirarmi forte nel collo e mi si strofina dietro. Ecco, è arrivato alla cintura.

    Voglio vedere cosa farà adesso, con una mano sola.

    Ehi mi ascolti?

    Non è che non mi piaccia, sentirlo così eccitato. Altrimenti mica sarei venuta al love hotel con lui. È la seconda volta che Shimada e io usciamo insieme. Al primo appuntamento, mentre mi riaccompagnava a casa in scooter, mi ha messo la mano sulla coscia. Ho sentito un calore lungo tutta la schiena.

    Poi per strada ci siamo baciati e basta.

    Ah!

    Mi sono divertita a cenare con lui, anche stasera. Shimada è spiritoso, in uno strano modo cinico. Fa il duro, ma si vede che è un bravo ragazzo.

    Forse gli piaccio davvero. Infatti a sentirlo ansimare così nel mio orecchio sinistro, sembra che non gli importi niente che i miei capelli puzzino talmente di fritto e di sigarette. Non solo i capelli, anche i nostri vestiti sono un disastro. Non so come farò a far andare via l’odore dal giaccone.

    Che idee, andare a un’izakaya come quella.

    Che stai facendo?

    Non sarebbe male una doccia adesso, invece di restare tutti e due vestiti, in piedi contro il muro.

    Il bagno ha una vasca talmente grande che ci si potrebbe entrare in sei persone.

    Niente, non è riuscito ad aprirmi la cintura. Adesso mi ha afferrato di nuovo i fianchi e si struscia come prima.

    Ma che devo fare io?

    No, non è che non mi faccia piacere sentirmi toccare così, ma il problema è che sembra che stia facendo tutto da solo. Non capisco perché non mi fa voltare. Almeno così potrei tenerlo anche io, toccarlo, abbracciarlo, che ne so, invece di stare qui appiccicata alla carta da parati a guardare i ghirigori di paisley.

    Anche se ha un anno più di me, mi sembra che Shimada non sia molto bravo con le donne. Sembrava più sicuro di sé prima, quando eravamo fuori.

    Da quando siamo venuti qui all’hotel mi si è attaccato addosso e non ha più detto una parola.

    O forse è colpa mia, perché faccio questa voce strana, e dico queste idiozie che non c’entrano niente con me. Magari per Shimada io adesso sono diversa da com’ero quando bevevamo insieme all’izakaya. E allora anche lui ha pensato di dover cambiare, e non sa più come comportarsi con me, adesso che sono diventata un’altra persona. Forse sono io che l’ho messo in imbarazzo, e per quello si è bloccato così dietro di me, e continua a muoversi su e giù.

    Non mi ha toccato i seni nemmeno una volta. Sono troppo piatta? Forse non gli piaccio più. O forse stringendomi si è accorto che non sono così magra, cioè che sono magra solo sopra. Sicuramente pensa che ho il sedere troppo grosso.

    Un momento, adesso sta cercando di tirarmi direttamente giù i pantaloni. Eh? Ma come crede di riuscirci se non mi ha nemmeno aperto la cintura, nemmeno la chiusura lampo?

    Shimada, mi fai male. Mi senti?

    Ancora questa voce. Non capisco da dove esca, non è la mia voce, la mia voce non è così. È molto più bassa.

    Certe volte mi dicono che parlo come un ragazzo. Non solo perché vado in scooter, rido forte e fumo camminando, ma proprio perché ho la voce da maschio.

    E allora cos’è adesso questo modo di parlare talmente fasullo? Quasi mi vergogno. Cosa penserà Shimada, se continuo a fare questi gridolini da bambinetta, quando invece ho passato tutta la serata a bere birra e a prenderlo in giro?

    Non così! Dai, su ti prego.

    D’un tratto mi rendo conto.

    Ecco cos’è, è la voce di mia madre. Ho un brivido. Sto facendo la voce di mia madre. Mi viene quasi il voltastomaco, mentre Shimada si spinge ancora contro il mio sedere e i protozoi di paisley mi oscillano intorno agli occhi.

    Esatto, è la voce di mia madre. Non quella che usa normalmente, quando va ai negozi, o quando se la prende con me o con Emi chan. Insomma, non la voce solita, quella che usava al telefono con i nonni prima che morissero, per farsi mandare i soldi, visto che mio padre non si fa vedere da dieci anni.

    No, non quella.

    Perché la vera voce di mia madre non è alta e lamentosa come quella che sto facendo adesso. Lei ha una voce molto più buia della mia. E più cattiva. Con quella voce lei sa dire delle cose tremende.

    È molto brava a usare quella voce, mia madre. Forse è l’unica cosa che le riesce bene. Lei non sa fare nessuna delle cose che fanno le madri di solito. Quando torna a casa dal lavoro sta tutto il tempo in tuta a guardare la televisione. Però quando vuole riesce ad arrotare le parole come si faceva nella guerra con le lance di bambù, e a infilartele all’improvviso dove ti fanno più male.

    Non c’è un motivo. Lo fa e basta, e non possiamo farci niente, mia sorella ed io. Niente. Ti colpisce all’improvviso, lo sa solo lei perché. E quando ti ha trafitto per bene le budella, e senti che ti brucia nel fegato, se tu per caso hai il coraggio di farle notare che non c’era bisogno, che non hai fatto nulla di male, che non c’entri niente, allora lei afferra meglio quel bambù, ti guarda dritto negli occhi e te lo dice più forte, e lo rigira e te lo spinge dentro e te lo ripete ancora, e tu vedi solo la sua bocca diventare come una fessura con quei denti piccoli piccoli e allora la sua voce si stira e si allarga e si spalanca e ti strappa tutti i muscoli della pancia finché non rimani piegata in due, e devi spremerti e morderti le labbra per non farti uscire le lacrime dagli occhi.

    Senti, fammi voltare Shimada, non mi spingere così.

    No no, non è quella voce lì, quella che sento rifrangersi adesso sulla carta da parati rosa e viola. Questa qui è la voce di mia madre quando vuole sembrare docile come un cerbiatto, per esempio quando risponde ai ragazzi dell’istituto di credito. Così si fanno chiamare. In realtà sono semplicemente gli strozzini per cui lavora lei, lo sappiamo. Ma noi, se loro telefonano o vengono a casa, li chiamiamo i ragazzi dell’istituto di credito. E con loro mia madre fa questa voce da ragazzina dolce e indifesa, che mi fa accapponare la pelle.

    È molto peggio della voce che usa quando lavora, quando fa le telefonate ai debitori, in continuazione, tutti i giorni. Almeno lì si capisce che è una vocina finta, di cortesia, e che in realtà gli sta semplicemente dicendo che sono in rosso, e che è meglio che trovino di corsa qualche sistema per restituire i soldi.

    No, la voce da cerbiatto è quella che fa più paura. La fa anche con il nostro vicino, Tanaka. Anche con lui mia madre fa così. E lui ci casca sempre, guarda di sbieco, si sistema gli occhiali, si gratta dietro la testa.

    Tanaka è un riccone, secondo mia madre.

    Ma figurati se uno ricco vivrebbe in un palazzo come il nostro, e poi a Kameari.

    Certe volte mi verrebbe da dirglielo, a mia madre, mentre ci scalda la cena nel microonde e ci racconta di Tanaka che le ha detto questo, o che le ha raccontato quello, o che l’ha guardata in questo modo o in quest’altro.

    Guarda anche me, Tanaka, quando ci incontriamo per le scale, o sul lungo balcone che porta agli appartamenti. Guarda anche mia sorella Emi, che ha solo undici anni. Lui borbotta e fa finta di niente, ma io lo sento quel porco di Tanaka, soprattutto quando siamo in uniforme, la mattina, sento i suoi occhi gonfi e appiccicosi che ci si arrampicano su per le gambe fin sotto la gonna, che ci abbassano i calzettoni, che ci verificano ogni piega della camicetta.

    Con mia madre è diverso, certo. Con mia madre Tanaka può parlare normalmente, da buon vicino. E mia madre gli sorride, e ogni tanto gli tocca il braccio con la punta delle dita, e fa la smorfiosa con quella voce lì. Con questa voce qui.

    Ah! Che fai?

    Certo, non è mica brutta, mia madre. Anzi.

    È una bella donna, se si mette il trucco e si sistema bene.

    Quando andiamo insieme al centro commerciale Ario davanti casa, ci scambiano per sorelle.

    Lo scorso aprile ha compiuto quarant’anni ed è stato un inferno. Si è chiusa dentro la sua stanza per una settimana.

    Emi chan non ha potuto nemmeno prendere la sua borsa della ginnastica, ha dovuto farsi prestare le cose da Mariko.

    No no, non è affatto brutta mia madre. È poco più bassa di me, ma ha le gambe più belle delle mie. Credo che Emi abbia preso da lei, perché ha un bel sederino all’insù. Infatti quando vuole offendermi, mia madre ripete sempre a Emi, facendo in modo che io senta bene, che Rika ha il culo basso e piatto, e le gambe storte come suo padre.

    Questo bagno è fantastico, eccezionale.

    Eppure quando sto bene come adesso, sdraiata dentro l’acqua fino alle narici, c’è una parte fastidiosa di me che dice basta così.

    Come se non fosse permesso godersi una sensazione piacevole per troppo tempo.

    È un’abitudine mentale che devono avermi attaccato a casa, perché c’è sempre qualcuno che ha bisogno del bagno dopo di me.

    Così anche in un venerdì pomeriggio piovoso come questo, nascosta in una schiuma bianca e profumata, nella grandissima vasca della stanza numero 312, c’è una parte di me che mi dice va bene Rika, adesso è ora di uscire.

    Invece nemmeno per sogno. Oggi me ne voglio stare comoda qui dentro, e allargare tutte le dita dei piedi per far arrivare il calore del liquido fin dentro le pieghe. Oltretutto devo assolutamente rimanere ancora nell’acqua calda, perché il bagnoschiuma rigenerante Shiseido, quello con la bustina arancione e la scritta sei stanca?, deve fare il suo effetto.

    Ho scelto apposta quella bustina lì, perché ho tutte e due le braccia indolenzite, a forza di cercare di far piacere a Shimada.

    Lui adesso sta lì fuori sul letto, che si gira e si rigira, e sicuramente fa il broncio.

    Mi scappa una risata che fa uscire un po’ d’acqua dai bordi della vasca, ma la copro subito con un colpo di tosse. Non vorrei che Shimada sentisse che sto ridendo.

    Ci sarò rimasta mezz’ora a fargli su e giù, su e giù, su e giù, e lui niente. Non c’era verso. Certe volte sentivo che respirava più forte, e si contorceva, come se stesse per succedere qualcosa. Allora mi mettevo a fare su e giù più veloce, per farlo finire prima, ma naturalmente così mi stancavo il braccio, e dovevo cambiare mano. Però era terribile, perché appena cambiavo mano lui si immobilizzava, smetteva di ansimare, e bisognava ricominciare da capo.

    Alla fine me l’ha detto, con un filo di voce.

    Ha detto Rika non ti fermare, se ti fermi non ce la faccio a finire.

    Sembrava stesse per morire, il povero Shimada.

    Ma io ne ho approfittato subito, e mi sono fermata. Lui si è irrigidito, come se tutto il suo corpo, come se ogni suo nervo stesse gridando silenziosamente la sua frustrazione, come se stesse cercando di capire come mai avessi improvvisamente smesso di toccarlo. Poi, prima che potesse dirmi qualcosa, gli sono risalita con la guancia lungo il ventre, su per il torace, fino a sfiorargli il collo, facendo in modo di sembrare il più dolce possibile. Quando finalmente il mio viso si è trovato esattamente di fronte al suo, e lui mi fissava con uno sguardo confuso, gli ho fatto un grande sorriso e l’ho baciato appassionatamente sulle labbra.

    Ci è rimasto di sasso. Forse pensava che avrei ricominciato, invece sono scesa dal letto e, a passettini saltellanti, tenendo le mani sollevate come se stessi reggendo un’ampia gonna immaginaria, mi sono venuta a chiudere in bagno.

    Chissà che faccia avrà fatto Shimada. Di nuovo mi scappa una risata e faccio finta di schiarirmi la gola.

    Il bagno è molto spazioso, le pareti sono ricoperte di mattonelle grigio scuro, ed è illuminato dal soffitto con piccole lampade alogene regolabili. Le ho tenute molto basse, e in più ho acceso una luce azzurrina.

    Sembra di essere in un film.

    In fondo alla stanza, a destra del doppio lavandino, c’è un grande specchio che arriva dal soffitto al pavimento. Ho spento il ventilatore perché il rumore mi dava fastidio eppure, nonostante il vapore che aleggia nell’aria, nessuno degli specchi è appannato, nemmeno quello grande. Ma come fanno a non appannarsi? Sono riscaldati da dietro?

    Lentamente esco dalla vasca, con un grande sospiro di soddisfazione, e mi dirigo verso il lavandino. Ho le dita tutte raggrinzite, come una vecchia. Il trucco è scomparso completamente. Quando esco di qui, Shimada si prenderà un accidente.

    Nel riflesso, faccio la faccia da strega, poi quella da bambina, poi quella da principessa. Mi stiro i lati degli occhi per renderli ancora più stretti e tiro fuori gli incisivi, come la caricatura di un contadino cinese.

    Controllo il mascara per vedere se mi ha lasciato dei segni, ma con il prodotto che ho usato prima se n’è andato completamente.

    Devo trovare un posto asciutto dove appoggiare le ciglia finte.

    Se mi avvicino molto allo specchio, la luce blu mi fa sembrare la pelle del volto quasi trasparente. Sopra le palpebre, si indovina appena l’ombra dell’arcata sopracciliare. Me ne restano così pochi qui, di peli, che quasi sarebbe meglio radermi direttamente le sopracciglia.

    Giusto per vedere come starei, me le copro con le dita.

    Secondo me potrebbe andare bene.

    Almeno in questa luce blu.

    Mentre mi strofino la fronte appena sopra gli occhi, provando ad annodare i pochi peletti uno con l’altro, d’un tratto mi accorgo di una sensazione che sembra stonare con tutto il resto.

    Guardo per terra e mi accorgo che sul tappetino bianco di spugna, in mezzo ai miei piedi, sono apparse poche piccole macchie scure.

    Mi tocco un istante tra le gambe, e in effetti i miei polpastrelli riconoscono subito la presenza di un liquido diverso, dall’odore ferroso.

    Ecco perché. Ecco perché sono stata di cattivo umore tutto il giorno, anche fino a poco fa col povero Shimada.

    Mi sciacquo le mani, apro la bustina del rasoio di plastica dell’hotel, e mi avvicino ancora di più allo specchio. Ecco, se passassi la lama così, e poi così, mi rimarrebbe liscia tutta questa parte della fronte.

    Guardo di nuovo a terra, come se quelle minuscole goccioline di sangue sprecato servissero a darmi coraggio, poi con una mano mi tiro su i capelli dalla fronte, e con l’altra avvicino il rasoio al sopracciglio destro. Sparisce in un colpo solo. Allora, senza nemmeno guardare il risultato, rado anche l’altro.

    Sento un brivido nelle spalle. Chiudo gli occhi, batto i piedi, digrigno i denti, mi esce uno strano sibilo dai lati della bocca.

    Ecco, mi allontano dal lavabo e mi guardo. La prima cosa che esce è un sorriso. Poi una risata silenziosa. Allora mi giro verso l’altro specchio, quello grande, per osservarmi meglio nella penombra azzurrina.

    Mi piace la figura che vedo.

    È un corpo bluastro, come quello di un essere alieno, sicuramente femminile. Sembra un neonato allungato, nudo come un verme, al quale è stata calzata una parrucca rossiccia, e infilato un rasoio di plastica bianca nella mano destra.

    L’alieno mi fissa, allarga le braccia lentamente, e si piega indietro lasciando che il suo casco di capelli bagnati si rovesci rigidamente.

    Ora, nel viso ovale della creatura spiccano solamente le strette e vuote fessure degli occhi, e il grande buco nero della bocca. Quindi, nel vapore, l’essere dalla pelle azzurra si abbassa leggermente sulle gambe allargate, la sua pancia lunga e piatta è talmente chiara che sembra filtrarne una luce.

    Mi piace.

    Mi piace mi piace mi piace.

    Sei stata quasi un’ora chiusa nel bagno. Tutto bene?

    Shimada è sdraiato sul letto, al

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