Mosche, cavallette, scarafaggi e premio Nobel
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Info su questo ebook
Ispirandosi a una storia vera, Luigi Garlando dà vita a un romanzo indimenticabile. Un romanzo sull’impegno e la forza di volontà che, con la sua delicatezza e poesia, riesce a toccare il cuore di ciascuno di noi.
Luigi Garlando
Luigi Garlando Giornalista per La Gazzetta dello Sport, scrive da anni libri per ragazzi, sempre attento a raccontare storie di personaggi che hanno lasciato il segno. Gol! è diventata una delle serie di maggior successo in Italia, con più di cinquanta titoli tradotti in molti paesi, e il suo libro dedicato a Giovanni Falcone, Per questo mi chiamo Giovanni, è un bestseller da oltre dieci anni. Con L’estate che conobbi il Che ha vinto il Premio Strega Ragazze e Ragazzi 2017.
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Anteprima del libro
Mosche, cavallette, scarafaggi e premio Nobel - Luigi Garlando
successivo.
1
PREMIO NOBEL
Stoccolma, 10 dicembre 1986
La Sala dei Concerti del Conservatorio di Stoccolma è magnifica e colorata come la bandiera della Svezia: azzurri i tappeti e i parati, gialli gli addobbi floreali, margherite, mimose, garofani… Sono fiori arrivati da Sanremo, la città in cui morì Alfred Nobel nel 1896. Un giornale francese, per errore, lo aveva dato per morto già otto anni prima. In realtà si era spento suo fratello Ludvig. Il cronista scrisse: È morto il chimico svedese, inventore della dinamite, che diventò ricco trovando il modo di uccidere molte persone nel più breve tempo possibile
.
Alfred si impressionò per la falsa notizia: «È così quindi che verrò ricordato». Perciò nel testamento istituì il premio che porta il suo nome ed è per questo che ancora oggi noi lo ricordiamo. Ed è per questo che siamo qui, in questa magnifica sala azzurra e gialla, illuminata da lampadari fiabeschi. Oggi, 10 dicembre, data della morte di Alfred Nobel, è uno dei giorni più corti dell’anno.
Io sono seduto al centro della platea, in mezzo ad altri settecento frac con farfallini bianchi, come imposto dal rigoroso codice della cerimonia.
Nelle prime file della platea, a sinistra, sono raccolti i capi di Stato e le autorità più importanti; a destra i parenti dei premiati. Sono gremiti anche i palchi infiorati, occupati da banchieri, industriali e da signore eleganti, cariche di gioielli.
In tutto, mi hanno detto, gli ospiti sono mille e quattrocento. Fa impressione vedere mille e quattrocento persone così elegantemente vestite da sera alle quattro e mezza del pomeriggio. L’ora del bombardamento di Amantea.
I reali di Svezia hanno già preso posto sul palco, applauditi da tutti i presenti, e si sono accomodati in poltrona in attesa dei premiati.
Re Carlo XVI Gustavo indossa occhiali sfumati, un farfallino bianco e sulla parte sinistra del frac, tra le tante onorificenze, anche due stelle d’argento che sembrano da sceriffo.
La regina Silvia porta sui capelli la tiara di Napoleone: una bellissima corona di quindici pietre d’ametista circondate da diamanti, appartenuta un tempo a Giuseppina, prima moglie di Bonaparte. Una collana con le stesse pietre riprende il colore violaceo che tinge un vestito da favola. La gonfia gonna promette balli a corte.
La noto solo in questo momento: una mosca. Una mosca si è posata sul mio ginocchio destro, sui pantaloni del mio prezioso frac.
Fuori c’è la neve, è dicembre: come può sopravvivere una mosca nell’inverno svedese? Mi viene il sospetto che questo insetto sia uno dei tanti geni presenti nella Sala dei Concerti. Forse ha scoperto l’elisir di lunga vita o, per lo meno, il modo per sopravvivere all’autunno e arrivare sana e salva fino a Natale. Come insegna la Professoressa, non ha accettato passivamente il proprio destino e ha lottato contro le avversità, irriducibile come un muzzunaro, forte dei suoi valori. «Senz’olio contro vento.»
La vita è il più grande dei valori.
La osservo, complice e ammirato, ma vola via, spaventata dalla musica.
Ecco il grande momento. Sento un’accelerata al cuore.
Sulle note di Beethoven, fanno il loro ingresso trionfale i premiati. Sono tutti uomini, con l’eccezione della Professoressa. E tutti vestono il frac, a parte un signore di colore, alto, con la barba scura e una folta capigliatura di riccioli. Indossa una camicia africana e pantaloni color nocciola rigati di bianco che, in un altro contesto, avrei potuto scambiare per un pigiama.
Si alzano dai loro troni, i sovrani e i potenti della Terra in prima fila, e si inchinano agli studiosi che sfilano sul palco tra gli applausi, in una lenta ed emozionantissima processione.
Non c’è riconoscimento più prestigioso al mondo. Ogni anno il Nobel premia le dieci intelligenze che, in campo scientifico, economico e letterario, hanno apportato i maggiori benefici all’umanità
con le loro ricerche, le loro scoperte, le loro opere d’ingegno. I migliori sulla Terra. In più c’è anche un Nobel per la Pace, nel nome dell’inventore della dinamite.
Il primo premio consegnato è quello per la Fisica. Va a tre ricercatori, il più giovane ha solo trentanove anni e ne dimostra anche meno. Sembra uno studente che ritira una buona pagella. Gli assegnano il Nobel per una scoperta che ha fatto a venticinque anni. Alla sua età io volavo in America verso un futuro sconosciuto.
Anche il riconoscimento per la Chimica va a una terna di studiosi, due americani e un canadese.
Poi ci siamo…
Una voce gentile di donna annuncia il nome della Professoressa nella Sala dei Concerti e legge la motivazione del premio: «La scoperta dell’NGF all’inizio degli anni Cinquanta è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos…».
Il re di Svezia si alza dalla poltrona e guadagna il centro della scena. Ma non è meno regale la Professoressa che si è staccata dagli altri premiati e con appoggi lenti e ritmati, da minuetto, sta raggiungendo il monarca, mentre tutti i presenti si sono alzati ad applaudire.
Anch’io.
La Professoressa indossa un vestito di velluto scuro a tre tinte, stretto in vita da una fascia profilata e con un collo alto che ricorda i colletti maschili del Settecento, il secolo dei Lumi e delle scoperte. È verde scuro davanti, blu pavone nelle maniche a sbuffo che nascondono le sue spalle strette. Lo strascico, rosso prugna, accentua la sensazione che trasmette il suo corpo minuto: una nuvola che scivola più che una persona che cammina.
La Professoressa accenna un inchino, quasi impercettibile, mentre porge la mano al re di Svezia. Accoglie le congratulazioni del sovrano con un sorriso sereno, senza aprire bocca, senza dire una parola. Piega solamente la testa di lato, leggermente, un gesto che sembra di gratitudine e di felicità ben controllata. Ha i capelli bianchi e vaporosi di una fata, con la solita onda, e due occhi luminosi da bambina. Una fata bambina di settantasette anni.
Che emozione…
Nella lunga storia dell’Italia una sola donna ha ricevuto questo onore: la scrittrice sarda Grazia Deledda. La seconda è la Professoressa, che ritorna alla sua poltrona scivolando sulla nuvola a strascico, accompagnata da uno squillo di trombe da castello medievale. Tiene in mano il diploma e l’astuccio scarlatto che contiene la medaglia d’oro. Una sacerdotessa che fa ritorno al tempio.
Nel preciso istante in cui si accomoda, la mosca torna a posarsi sul mio ginocchio. È come se anche lei fosse volata sul palco a ritirare il Nobel per l’elisir di lunga vita e fosse tornata indietro.
È sicuramente un insetto geniale, ma anche molto sfortunato.
Tra mille e quattrocento possibilità ha scelto le gambe del più inesorabile cacciatore di mosche che ci sia in sala. E non lo sa.
2
COME IL PESCESPADA
Amantea, 1951
Arturo saltò sulle macerie di palazzo Del Giudice, scalò la montagna di detriti e cominciò a scavare con le mani: «Venite, cerchiamo il tesoro e le ossa».
Gli altri ragazzi lo seguirono, io dissi: «È buio».
«Appunto. I morti spuntano di notte» abbaiò Mimmuzzo salendo a quattro zampe come un cane.
«No, è tardi. Devo andare» salutai.
«Il muzzunaro ha paura dei fantasmi.»
«Sono i fantasmi che hanno paura di me!» urlai allontanandomi di corsa.
In realtà, me ne andavo volentieri. Un po’ avevano ragione loro.
Perché il racconto di nonna Rosaria mi era rimasto in gola come un pezzo di pane andato di traverso. Lei aveva quel modo di dirti le cose che ti entravano nella pelle come spilli. Magie da fattucchiera. Infatti la gente di Amantea veniva a casa nostra per farsi curare i dolori dalle sue erbe speciali. Nonna Rosaria guariva con le piante e faceva ammalare con le parole, se voleva.
20 febbraio 1943
Verso le quattro e mezza del pomeriggio la gente del paese alza la testa perché in cielo si sente un ronzare lontano di calabroni. I calabroni sono nove, nove aerei B-24 dell’esercito americano. Vogliono distruggere il ponte di via Indipendenza per tagliare la strada ai tedeschi in ritirata. C’è ancora la guerra. Lo centrano in pieno.
Sembra una pioggia di stelle, il sole incendia le bombe che fischiano e cadono giù.
Il Duomo accanto resta intatto, quasi per miracolo, va in frantumi solo la grande vetrata della chiesa per lo spostamento d’aria. Don Francesco viene investito dalle schegge, una gli toglie la vista per sempre.
Oltre al ponte vengono distrutte anche delle case. A subire i danni maggiori è proprio il palazzo Del Giudice, sbriciolato su se stesso, come un uomo che si accascia sulle proprie scarpe. Ancora oggi la lapide di via Indipendenza ricorda il nome di venticinque vittime: il vecchio don Tommaso, una nipote che era scesa in cantina a prendere del vino, tre persone che stavano giocando a carte attorno a un tavolo, una creatura di sei mesi che di cognome fa Aloe, come me…
Il pezzo di pane che non mi va giù è quello che ha visto nonna Rosaria pochi minuti dopo il bombardamento quando è uscita di casa ed è andata incontro alle macerie, come se avesse sentito il bisogno di guarire subito qualcuno.
Due gatti stavano mangiando il cranio di don Tommaso Del Giudice che era aperto come un cocomero. Una mamma, che si muoveva lenta e senza espressione come una sonnambula, raccoglieva nel grembiule i resti del figlio, pezzi di carne nera come il pescespada. Nonna Rosaria me l’ha raccontato proprio così: «Come il pescespada».
Dopo anni, via Indipendenza sembrava ancora una bocca sdentata, con il buco in mezzo delle case sciullate. La gente credeva che sotto le macerie ci fosse ancora il tesoro di don Tommaso e qualche scheletro. Noi giocavamo a cercarli.
Io sono nato un mese dopo il bombardamento degli americani ad Amantea, il 28 marzo 1943. Mia madre mi ha messo al mondo con la paura ancora addosso.
Arrivai a casa e mi svuotai le tasche di tutte le cicche di sigaretta che avevo raccolto in paese. Mio padre le infilò nella sacca e uscì in mare. Mia madre lo salutò con un cenno del mento, senza parlare.
Papà s’imbarcava sempre a quell’ora e restava fuori a pescare tutta la notte. I mozziconi lo aiutavano a passare il tempo, a sopportare meglio il freddo e l’umidità. E forse anche un po’ a illuminare il buio.
Quella sera avevamo pesce per cena. Ma non capitava sempre. Spesso andavamo a letto con la fame che ci prendeva a pugni lo stomaco. Dipendeva da come era andata la pesca.
Mio padre usciva con altri cinque pescatori. La metà del pescato spettava al padrone della barca, quel che restava veniva diviso in cinque parti uguali. Di quello che ci toccava, mamma ne vendeva un po’ al mercato per comprare l’olio, e il resto lo mangiavamo.
Il peggio era quando il bottino era così magro che non bastava neppure per comprare l’olio per friggerlo. In quei casi ce ne restavamo a guardare gli occhi sbarrati dei pesci con la pancia che borbottava, invidiando il coraggio dei gatti che se li mangiavano crudi, senza vergogna.
Per l’olio avremmo potuto anche rivolgerci a mio nonno Edivigi, che tutti in paese chiamavano don Luigi. Un tempo era stato un nobile molto ricco. All’epoca non più, ma possedeva ancora una casa di appuntamenti e un bel po’ di ulivi. Lui però non amava avere a che fare con noi e noi per orgoglio preferivamo non chiedergli niente.
La mia casa era una stanza sola senza armadi in via Mirabelli. Ognuno teneva i vestiti in una cesta sotto i letti. Non avevamo l’acqua in casa e neppure il bagno. Noi ragazzi andavamo a farla nei cespugli al mare dove infatti vivevano un sacco di scarabei che spingevano pallottole di sterco.
Ci stringevamo nei pochi letti che la stanza poteva contenere perché eravamo in tanti: cinque fratelli, una sorella, più mio padre Astolfo, mia