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In nome dei pubblici ministeri: Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate
In nome dei pubblici ministeri: Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate
In nome dei pubblici ministeri: Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate
E-book345 pagine4 ore

In nome dei pubblici ministeri: Dalla Costituente a Tangentopoli: storia di leggi sbagliate

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Info su questo ebook

Prefazione di Mattia Feltri

Giuseppe Gargani è stato un politico di lungo corso, uno dei protagonisti delle vicende politiche istituzionali che hanno attraversato l’Italia nella seconda metà del secolo scorso. In nome dei pubblici ministeri è un libro scritto più di dieci anni fa – e qui riedito con alcune note introduttive aggiuntive –, ma incredibilmente attuale, sia per- ché le questioni giudiziarie occupano sempre più spesso le prime pagine dei giornali, sia perché a
distanza di quasi trent’anni dall’inizio della stagione di Tangentopoli risulta interessante ritornare su alcuni temi cruciali di quella storia.
In questo libro-intervista che copre oltre cinquant’anni di storia, Gargani non usa mezzi termini per criticare aspramente quello che chiama “il parti- to istituzionale dei PM”, una casta che, più di quella politica, si avvale di strumenti di autoelezione e di privilegi garantiti da leggi che i vari governi non hanno mai avuto il coraggio di cambiare.
Ai ragionamenti di carattere costituzionale che avevano già impegnato i protagonisti della stesura della costituente, seguono riflessioni puntuali sui passaggi cruciali di una “rivoluzione della giustizia” che ha visto via via crescere il potere dei giudici a discapito degli altri due poteri esecutivo e legislativo. La stagione di Mani Pulite, perno del volume di Gargani, ha segnato la definitiva resa della classe dirigente di fronte a una magistratura che svolgeva più inchieste che indagini, che ricorreva alla carcerazione preventiva e a testimoni come metodo  per scardinare un sistema e non per punire i veri colpevoli. In nome dei pubblici ministeri è un libro-verità su un passato per molti aspetti ingombrante e tuttora irrisolto che ci aiuta anche a riflettere sulle storture oggi presenti in Italia, come l’abuso di intercettazioni, le violazioni costanti del segreto istruttorio, le inchieste capaci di sovvertire governi e di condizionare la vita democratica del paese senza garantire il processo sulle numerose indagini spesso infondate o strumentalizzate. Un libro scomodo che getta una luce inquietante sul presente e il futuro del nostro Paese.

Giuseppe Gargani, avvocato docente di materie giuridiche, è stato iscritto alla Democrazia Cristiana dal 1956, membro del consiglio e della direzione nazionale della DC, segretario regionale della Campania, deputato alla Camera dei Deputati (dal 1972 al 1994), sottosegretario al ministero della Giustizia (dal 1979 al 1984), Presidente della Commissione Giustizia.
Nel 1994, dopo lo scioglimento della Democrazia Cristiana, aderisce al Partito Popolare Italiano.
Nel 1995 nello scontro tra Rocco Buttiglione e Gerardo Bianco sostiene la candidatura di Romano Prodi e la coalizione dell’Ulivo. Durante il governo dell’Ulivo è nominato commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (1998).
Nel 1999 aderisce al PPE e a Forza Italia, candidandosi alle elezioni europee. È eletto Europarlamentare nella circoscrizione del Sud per tre legislature fino al 2014; si iscrive al gruppo parlamentare del Partito Popolare Europeo ed è Presidente della Commissione Cultura e poi della Commissione Giuridica.
Nel 2011 ha aderito all’Unione di Centro.
Nel 2019 è Presidente della Federazione Popolare dei Democratici Cristiani per fondare un nuovo soggetto politico di “centro”.
Autore di significative pubblicazioni.
LinguaItaliano
Data di uscita9 mar 2021
ISBN9788899706937
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    Anteprima del libro

    In nome dei pubblici ministeri - Giuseppe Gargani

    riflessioni

    Prefazione

    Conosco Giuseppe Gargani ormai da qualche decennio, da quando giovane cronista del «Foglio» lo intervistavo sulle questioni di Mani Pulite, ed è stato anche attraverso quelle conversazioni che ho maturato un’idea del Diritto come della più alta delle discipline di cui l’uomo si possa dedicare. Tutto era cominciato qualche anno prima. Lavoravo in un quotidiano di provincia («Bergamo Oggi») e stavo assistendo a un processo il cui imputato, traslocato dall’alta valle alla sbarra, saettava gli occhi terrorizzati dal banco del giudice a quello del pubblico ministero, incapace di decrittare, lui cresciuto col dialetto, il linguaggio oscuro e più intraducibile che pomposo dell’amministrazione della giustizia. L’avvocato provava a diradare la nebbia, con risultati inversamente proporzionali alla prostrazione e allo stato confusionale del cliente. Non saprei se la scena o la lettura del capolavoro che è Il Processo di Franz Kafka mi abbia restituito di più lo scandaloso paradosso dell’ingiustizia perpetrata nelle aule di giustizia.

    L’esigenza della giustizia, e lo scandalo dell’ingiustizia, nell’uomo sono innati. Pensate ai vostri figli, quand’erano molto piccoli. Dopo avere pianto e riso, avere detto mamma e pappa, mio e mia (forse soltanto l’istinto del possesso precede, o introduce, l’esigenza di giustizia), dopo avere impegnato il vocabolario elementare del loro esordio, hanno detto non è giusto. Del resto la grande letteratura dell’Ottocento (e poi del Novecento), parallelamente con l’ambizione e la nascita delle democrazie moderne, fa del carcere e dell’ingiustizia il suo cuore. L’ex galeotto Jean Valjean è l’uomo retto inseguito dall’immorale e incorruttibile sbirro Javert per centinaia delle pagine dei Miserabili di Victor Hugo. Edmond Dantès è l’ergastolano condannato per tramite di una congiura, e fremente di vendetta, nel Conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Memorie della casa morta è la feroce cronaca che Fëdor Dostoevskij fa di sé giovane socialista incarcerato nella Russia dello Zar. Charles Dickens nella Piccola Dorrit si ispira alla storia del padre, finito per debiti nel penitenziario di Marshalsea, in cui racconta di Amy, la bimba che cresce in reclusione (qualche decina di bambini cresce in reclusione anche nell’Italia di oggi).

    Sebbene il Novecento abbia una produzione monumentale – di Kafka abbiamo fatto cenno, sulla mostruosità del processo sommario e della detenzione sovietica, Aleksandr Solženicyn ha scritto pagine insuperabili, come quelle dalla Kolyma di Varlan Šalamov, ma la privazione di libertà, la più arbitraria, sotto ogni regime, compresi i regimi democratici, è dentro i capolavori di George Orwell, di Gustaw Herling, di Arthur Koestler, di John Steinbeck, e cito a memoria – è la produzione dell’Ottocento la più interessante, perché parte dallo stupore della scoperta di un male evitabile. Per secoli l’uomo è sfruttato, bastonato, ridotto e mantenuto in miseria, buttato in cella, giustiziato al semplice capriccio del principe. Quando decide di tagliare la testa al Re d’Inghilterra e poi al Re di Francia, e in mezzo c’è la dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti, con cui si definisce il sovrano di Londra illegittimo agli occhi di Dio, lo si fa per stabilire che ogni essere umano è uguale agli altri, ma unico e intangibile. Ha a che vedere con le tasse, la proprietà, la distribuzione della ricchezza, ma l’essenza pura è l’uguaglianza e la libertà di tutti. Nessuno ha il diritto di incarcerare nessuno, se non con un’accusa circostanziata e provata. È lo spirito illuministico nel quale Cesare Beccaria scrive Dei delitti e delle pene (1764), la Bibbia del Diritto moderno.

    Oggi si tende a pensare che il diritto di voto sia la pietra angolare della democrazia, ma non è vero, la pietra angolare è il Diritto. Votare è la manifestazione della nostra uguaglianza, una testa un voto, ma una manifestazione quasi simbolica poiché l’effetto del nostro voto, del nostro voto singolo, ha senso soltanto nella moltitudine. Da solo ha un effetto inapprezzabile. Il Diritto fa invece di noi uomini unici, intangibili, liberi di spostarsi, di organizzare la vita attorno alle proprie inclinazioni e aspirazioni, soprattutto liberi dall’arroganza e dal sopruso. Senza il Diritto non esistono i diritti, quelli per cui ci sgoliamo quotidianamente, con una forte dose di petulanza, con una sovrabbondanza d’isteria, e non di rado confondendo i diritti coi desideri o addirittura con le bizze.

    L’Italia ha il più alto numero di detenuti in attesa di giudizio (cioè innocenti) d’Europa. Ogni anno mille persone, quasi tre al giorno, vengono imprigionate e poi saranno assolte. E le prigioni sono luoghi sovrappopolati, sconci, oppressivi e inadatti allo scopo – il recupero del condannato – a cui le democrazie le hanno votate. Ma di questo pochi si scandalizzano e pochissimi si curano. Abbiamo completamente rimosso le ragioni profonde su cui sono state edificate le democrazie liberali occidentali, in contrapposizione alle tirannie, e non bisogna essere ingegneri per sapere che, quando le fondamenta cedono, poi cede tutta la casa.

    Gargani quelle ragioni le ha coltivate con passione e sensibilità da decenni. Prima da legislatore, negli anni Novanta, quando fece proposte fuori dal coro giustizialista, e poi da commentatore, con analisi ancora utili e attuali.

    Mattia Feltri

    Presentazione

    L’emergenza giustizia dura da tempo, almeno dagli anni ’70, e oggi è ancor più sentita per la grave pandemia del Covid, ad esempio con l’acceso dibattito sulla situazione carceraria nel nostro Paese. Tanti che si occupano di queste problematiche mi hanno invitato a ristampare un libro che nel 1998 metteva bene in evidenza, soprattutto in riferimento alle indagini di Tangentopoli, l’assoluta prevalenza del pubblico ministero rispetto al giudice: si era verificata in Italia una distorsione grave: in nome del popolo italiano non parlavano più i giudici ma appunto i PM.

    La crisi della giustizia parte da questa anomalia e si aggrava sempre più, si riferisce al processo come tale ma anche al complesso della organizzazione giudiziaria: per questi motivi può essere utile ribadire le critiche già fatte anni fa e che, come dirò più avanti, sono tutt’altro che superate.

    L’analisi contenuta in quel libro mette in risalto il significato delle inchieste di Tangentopoli, alla luce di una storia che definii di leggi sbagliate. Ritengo che quelle idee siano ancora attuali, perché in tutti questi anni il legislatore non ha fatto le riforme necessarie, neppure quelle che si ritenevano urgenti. Lo squilibrio tra la fase dell’indagine e il giudizio, cioè la sentenza, è sempre più marcato.

    Accettai già nel 2011 di ripubblicare il libro perché, come scrissi nella prefazione, avevo registrato che tanti processi alla politica e agli uomini delle istituzioni, dopo le indagini di Tangentopoli si erano conclusi con molte assoluzioni, a dimostrazione della capacità e della volontà del giudice di riappropriarsi delle sue funzioni e di decidere appunto in nome del popolo italiano come la Costituzione prescrive.

    Rispetto a indagini senza costrutto e in assenza di indizi validi, se non quelli corrispondenti a teoremi astratti e indimostrabili, i giudici hanno fatto giustizia. Il giudice, quello deputato ad applicare le leggi, fuori e lontano da ruoli politici, aveva invece deciso, con sentenze che andrebbero lette con grande attenzione, che tante indagini e tanti comportamenti non corretti, insieme alle tante carcerazioni preventive (che i media pubblicizzavano con ostinazione) non erano sufficienti ad anticipare generiche condanne.

    Forse nel 2011 fui molto ottimista perché, nonostante quelle sentenze, lo squilibrio nel processo continua ad esistere, come gli avvocati italiani denunziano e come, con lucidità e particolare perspicacia, avverte l’avv. Gian Domenico Caiazza, Presidente Nazionale delle Camere Penali.

    In ogni caso è utile e opportuno offrire alla opinione pubblica le valutazioni fatte in quegli anni, insieme ad altri interventi successivi che ho pubblicato successivamente proseguendo con coerenza quei ragionamenti.

    Sono riflessioni che svolgo dagli anni ’70 e credo possano costituire una sollecitazione ad approfondire le problematiche della giustizia che sono fondamentali soprattutto in un periodo di crisi istituzionale come quello che attraversiamo.

    Ma c’è un motivo in più per cui sono molto contento e onorato di proporre ai lettori queste mie riflessioni. Il libro si arricchisce della prefazione di Mattia Feltri, e assume dunque un significato particolare, per me e certamente per i lettori.

    Feltri ha scritto nel 2016 un libro eccellente che attraverso la cronaca degli avvenimenti raccontati a distanza di tempo, vissuti con l’esperienza del dopo, spiega, come nessun altro è riuscito a fare, che cosa è stata veramente quella indagine giudiziaria che va sotto il nome di Tangentopoli. Basta il suo racconto con puntuali riflessioni, a rendere un quadro preciso di quello che è avvenuto, e per questo l’opera del giornalista è davvero notevole.

    Feltri, come acutamente ha detto Giuliano Ferrara, usa quella particolare forma verbale che ti inoltra in un dopo che spiega il prima, lo definisce, lo illumina, lo opacizza, lo cancella e soprattutto lo rende incerto, incompiuto, possibile.

    Il giornalista all’epoca dei fatti di Mani pulite era un giovane reporter, e con maggiore esperienza nel libro usa il futuro anteriore; fa la storia di un periodo che si è immaginato di rivoluzione giudiziaria e che invece, come si desume dal lungo racconto, è oscurantista e negativo, con risultati meschini e con una esaltazione del giustizialismo che tuttora permane nella società italiana.

    Come ho provato a spiegare nel mio scritto, l’opera della magistratura ha distrutto la cultura e il diritto, ha umiliato se stessa e la politica.

    La conclusione è appunto che quella rivoluzione altro non è stata che una banale e incerta azione di esercizio del potere. Un esercizio, in quel caso, del potere giudiziario per cavalcare la questione morale che certamente era presente nella coscienza dei cittadini, contaminando società e istituzioni di un giustizialismo che arriva fino ai giorni nostri.

    Le cronache finora non erano riuscite a descrivere adeguatamente la rappresentazione di una magistratura che ha preteso di sostituirsi alla politica, non rispettando i diritti fondamentali delle persone.

    Feltri con la cronaca posticipata dà un giudizio storico. Ed è per questo che la sua valutazione, che si collega direttamente alle spiegazioni giuridiche che ho dato nel libro già nel 1998, è preziosa per rafforzare il giudizio storico.

    Ho riletto di recente il libro che ha il titolo emblematico Novantatré e credo di poter dire che la mia analisi giuridica e politica è a supporto e a corollario del suo puntuale racconto.

    ***

    È passato un lungo periodo dagli anni ’90, ma, nonostante ripetuti inviti che sono stati fatti da tanti in questi anni, nessuna delle parti interessate, né i magistrati, né i tanti politici interessati, ha fatto autocritica. Nessuno ha dato spiegazioni adeguate di quel fenomeno che è ormai considerato universalmente anomalo, perché si è utilizzato un metodo di indagine da parte dei PM non conforme al codice e alle regole a cui il magistrato si deve attenere.

    Ho auspicato per il passato che si riconoscessero queste anomalie. Che si riconoscesse in particolare che queste anomalie sono state strumentalmente tollerate e favorite per scardinare il sistema dei partiti che, pur in presenza di forti critiche, costituivano democraticamente la maggioranza politica di quel periodo. Giudizi politici, dunque, a giustificare anomalie giuridiche: un uso politico della giustizia.

    Una autocritica fatta dai partiti di opposizione e da una magistratura che vuole essere indipendente sarebbe stata e sarebbe utile per una pacificazione nazionale, per un chiarimento necessario alla giurisdizione, questo sì capace di far prevalere la questione morale su quella penale.

    ***

    Io in verità dò una giustificazione non banale delle ragioni e delle motivazioni profonde di quello che è avvenuto, che certamente non è dipeso dalla cattiveria di qualcuno. Ho ripetuto tante volte in quegli anni che una corrente molto ideologizzata all’interno della magistratura, magistratura democratica, ha cercato di individuare il nuovo ruolo che il magistrato dovrebbe avere in una società complessa come la nostra che non è più quella del 1948 quando fu scritta la Costituzione.

    La necessità di un ruolo diverso da quello previsto dall’art. 104 della Costituzione è stato indicato da tanti studiosi ed io, come legislatore, mi sono impegnato ad approfondire il problema che è ancora da risolvere, nonostante le numerose proposte di legge da me e da altri presentate che arricchiscono l’archivio della Camera dei Deputati. Magistratura democratica aveva però teorizzato la nuova funzione del magistrato non come esecutore della legge ma come qualcuno che lotta: contro la mafia, contro la corruzione, contro il malcostume; qualcuno che contrasta un sistema e non che persegue reati specifici applicando la legge. Insomma, un attore politico. La rivista «Quale Giustizia» da anni approfondisce e propaganda queste teorie che hanno costituito e costituiscono supporto culturale per i magistrati. La lotta presuppone una contrapposizione che non è neutra ma è sempre politica e quindi non al di sopra delle parti.

    Uno scritto, che spesso ho ricordato, è particolarmente importante ed è pubblicato nell’appendice del libro. In esso Gherardo Colombo, che era uno dei magistrati più intelligenti del pool di Milano negli anni ’90, aveva teorizzato un ruolo politico di supplenza per la magistratura perché il legislatore [cosa profondamente vera!] delega al magistrato la soluzione di questioni che non spettano alla giurisdizione. Quindi, concludeva Colombo, la magistratura è chiamata a dirimere questioni politiche.

    Queste teorizzazioni hanno costituito il patrimonio culturale dei magistrati negli anni ’90, quando sotto la guida della Procura della Repubblica di Milano tutti gli uffici giudiziari si sono esercitati a contestare le irregolarità dei politici, degli uomini delle istituzioni, dei ministri, con l’intento di contestare il funzionamento del sistema in base alla teoria che essendo il sistema corrotto i politici non potevano non essere corrotti. Questa teoria portò alla splendida e ricorrente contestazione, per dimostrare la responsabilità dell’indagato, secondo cui chi ricopre ruoli di responsabilità è colpevole di reati penali perché non può non sapere!

    Ecco perché la magistratura da quel periodo è diventata paladina della questione morale confusa con la questione penale, travestendosi in giudice etico che ha il compito di far vincere il bene sul male. Questa è stata la patologia grave che ha determinato uno squilibrio tra i partiti dello Stato e una incertezza sui suoi compiti istituzionali.

    La verità è che la classe dirigente di quegli anni per pavidità non seppe difendersi isolando nei partiti quelli che si servivano della politica e i corrotti, pochi in verità. La presenza di corruzione, che nessuno ha mai negato, insieme alla pavidità della classe politica tutta e al giustizialismo ha fatto sviluppare un’avversione alla politica così forte che ha generato in seguito movimenti estemporanei di protesta, fino ad arrivare ai vaffa antisistema.

    Siamo quindi in presenza di una crisi della politica e di una crisi della giustizia e senza politica e senza giustizia la democrazia non può reggere.

    Nella cultura italiana, bisogna riconoscerlo, e in maniera più consistente oggi, esiste una tendenza ad allontanarsi dalla civiltà liberale, il che si riflette nelle istituzioni e nella giustizia.

    La distinzione tra giustizia e politica è una conquista della civiltà del diritto che ha consentito l’evoluzione dello Stato democratico, e il rapporto tra giustizia e libertà e tra giustizia e diritto ha un riferimento preciso nella divisione dei poteri.

    Il dibattito su questo argomento è carente o è stato addirittura archiviato, in un periodo che con alterigia tanti definiscono post-ideologico per nascondere l’ignoranza e la mancanza di pensiero della nuova classe dirigente: come se dovessimo e potessimo fare a meno delle idee!

    ***

    Questa nuova edizione del libro riporta integralmente la mia intervista fatta con un grande giornalista, Carlo Panella, insieme agli allegati che erano a supporto delle tesi esposte, ma è arricchita di interventi successivi da me pubblicati su riviste o giornali che possono essere utili per dare più puntuali spiegazioni alle tesi sostenute.

    C’è sempre stato un rifiuto a considerare il problema della giustizia come il problema fondamentale per la democrazia, perché si è ritenuto di relegarlo alla competenza degli operatori e degli addetti ai lavori: riconosco che anche nel periodo della cosiddetta prima Repubblica partiti riformisti e garantisti davano scarsa importanza al problema filosofico e sistematico della giustizia. La Democrazia Cristiana, forse in buona fede, si era appiattita sul sistema magistratura che per la miopia del legislatore, in quegli anni, ha conquistato un potere ahimè irresponsabile attraverso varie leggi dell’ordinamento giudiziario che hanno accentuato la separatezza di una categoria chiusa in se stessa e autoreferenziale. Sarebbe lungo l’elenco di queste leggi che, per ricordare ancora Colombo, hanno dato una delega alla magistratura con norme incerte e generiche e quindi tutte da interpretare. E sarebbe lungo l’elenco delle proposte che sono state fatte per offrire un binario legislativo più corretto e autentico ai titolari delle indagini per evitare soprusi e distorsioni.

    Bisogna rendersi conto di quello che è avvenuto nel rapporto tra politica e giustizia, così come è esposto nel libro, per capire come sia stato possibile negli anni ’90 una rinunzia da parte del potere politico e istituzionale ad esercitare una funzione di indirizzo, di mediazione per affermare il primato della politica.

    In quegli anni come Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati avevo formulato proposte di modifica delle norme di procedura penale per regolare meglio l’attività del PM soprattutto nell’applicazione della custodia cautelare che era diventata una misura burocratica applicata senza valutazione e addirittura senza discrezionalità. Si trattava di una interpretazione autentica di alcune norme che ebbero il consenso della Commissione Giustizia anche da parte del PCI, ma si determinò una polemica ostile contro di me e contro chi aveva consentito l’approvazione di quelle norme.

    Fui ferito nel mio orgoglio, nel mio ruolo politico perché le polemiche furono tante e anche feroci. Ne parlo diffusamente nella intervista ma aggiungo in questa edizione alcune testimonianze significative (alcuni articoli di giornali, una mia lettera all’on. Macaluso, grande leader del PCI e di cultura garantista in dissenso con il suo partito, e un’intervista del Prof. Enzo Gaito che spiega il significato autentico delle norme proposte), per rappresentare meglio il clima giustizialista e il rancore sociale di quel periodo contro la politica e i politici e contro di me che avevo preso una iniziativa preziosa per aiutare i magistrati a seguire un indirizzo rigoroso e legale.

    Tutto si bloccò con i gruppi parlamentari reticenti e ostili, e la DC non si rese conto che le anomale iniziative giudiziarie avrebbero reso un danno enorme ai partiti e alle istituzioni.

    Quel clima ha guastato la società per un lungo periodo che dura ancora, per cui assistiamo alla condanna di qualunque intervento che ha le caratteristiche di garantire il cittadino e la sua sfera di libertà, e il detenuto nei suoi diritti soggettivi.

    Da allora una semplice comunicazione giudiziaria costituisce di per sé una condanna e la custodia cautelare è diventata in tante indagini una prassi che non tiene conto della lettera della legge perché costituisce una anticipazione della pena o una modalità per ottenere confessione o delazione.

    Abbiamo dovuto subire l’epidemia del coronavirus per ottenere un richiamo formale del Procuratore generale presso la Cassazione ai magistrati ad applicare la legge e cioè arrestare solo se necessario!

    ***

    Avendo smarrito i principi fondamentali che configurano uno Stato di diritto, la società non è più solidale ed è piena di rancore e di rivalsa: le conseguenze sono, appunto, il giustizialismo e il populismo, che sono patologie complementari perché l’una chiama l’altra.

    Non c’è dubbio che una concezione della giustizia e della pena come vendetta sociale deriva da una assenza di cultura democratica in contrasto con la tradizione italiana da Beccaria in poi, e in contrasto finanche con il codice Rocco pur considerato fascista! Questo porta al giustizialismo.

    La confusione tra questione morale e questione penale, è il caso di ribadirlo, ha alimentato il giustizialismo perché con il fenomeno Tangentopoli la magistratura, e in particolare le procure, si sono impegnate a processare il sistema più che a indagare sui singoli reati e sui diretti responsabili, e il giudice, nonostante le innumerevoli sentenze di assoluzione, che pur vi sono state, ha acquisito la caratteristica del giudice etico che si illude di condannare il male per fare vincere il bene! La conseguenza è l’alterazione del ruolo proprio del giudice in uno Stato democratico.

    Il fatto è che questa diversa funzione del magistrato è priva di quel controbilanciamento culturale e normativo che è proprio di uno Stato forte che garantisce i diritti attraverso la legge: e questo problema è fondamentale in uno Stato di diritto come vogliamo sia il nostro.

    Il giustizialismo così concepito porta al populismo, al populismo giudiziario, cioè alla concezione che la giustizia esemplare debba dare soddisfazioni morali, e al populismo politico che non dà valore alle istituzioni, snatura il rapporto tra il cittadino e lo Stato facendo perdere il rigore morale dei comportamenti e la solidarietà nella comunità civile.

    Questa profonda crisi sociale e politica, ha determinato il prevalere del potere giudiziario e soprattutto dei pubblici ministeri attraverso un uso politico delle indagini, e ha alimentato lo scontro accentuando lo squilibrio istituzionale.

    La crisi del rapporto tra potere politico e potere giudiziario è esplosa senza alcun controllo perché il rapporto tra i due poteri andava perdendo sempre più le caratteristiche istituzionali e accentuava gli aspetti politici e partitici. Alcuni di noi, pochi in verità, hanno fatto battaglie per scongiurare un grave pericolo, quello di un’intesa tra settori della magistratura politicizzata e i partiti della sinistra, del PCI in particolare, che inseguendo una strategia giudiziaria per la conquista del potere hanno influenzato l’azione dei giudici, immaginando di sconfiggere il partito di maggioranza, non essendo riusciti con il confronto elettorale.

    Queste valutazioni ci consentono di poter dimostrare che da Tangentopoli si è sviluppato un metodo di contrapposizione al sistema che ha determinato tante conseguenze fino ad arrivare alla teorizzazione della trattativa tra lo Stato e la mafia e alle tante iniziative della magistratura che ormai, come Colombo conferma, è consapevole di dirimere con la sua azione le questioni politiche!

    Sono urgenti riforme fondamentali, le stesse elencate nel libro ancora valide ed urgenti per individuare in concreto il nuovo ruolo del giudice.

    Debbo però constatare che se c’era una sottovalutazione del problema quando eravamo in presenza di una classe dirigente di alto livello, figurarsi se le riforme possono essere programmate da un Governo e da un Parlamento improvvisati e post-ideologici, come amano classificarsi i nuovi parlamentari essendo privi di sensibilità istituzionale.

    Ma è doveroso da parte di chi si è occupato a fondo di questi problemi, riproporli e approfondirli, come è doveroso da parte di chi ha il compito di preparare la nuova classe dirigente.

    La pubblicazione del libro è importante, per riportare all’attenzione della politica un problema fondamentale per la democrazia e per riconoscere che il racconto che Mattia Feltri fa nel suo libro Novantatré e le motivazioni giuridiche e istituzionali contenute nello scritto che segue appartengono non più alla cronaca ma alla storia.

    Giuseppe Gargani

    Negli anni ’92/’93 la commissione Giustizia della Camera dei Deputati ha preso in esame proposte di modifica di alcune norme del codice di procedura penale per regolare correttamente l’applicazione della custodia cautelare.

    La pubblicazione di testimonianze significative che segue è utile per ricordare il clima giustizialista e di rancore sociale di quel periodo contro la politica e contro i politici che avevano preso una iniziativa preziosa per aiutare i magistrati a seguire un indirizzo rigoroso e legale.

    Allegato 1

    Le modifiche proposte per la custodia cautelare puntano a impedire soltanto le prassi scorrette

    Luglio 1993

    Il Giorno – 1993, articolo di Alfredo Gaito, Ordinario di Procedura Penale, Università di Perugia

    Colpo di mano della commissione giustizia, messa in crisi… Azzeramento delle indagini in corso: di questi e altri similari apprezzamenti è dato non infrequentemente leggere a proposito delle modifiche ad alcuni istituti del codice di procedura penale proposte, la scorsa settimana, dalla seconda Commissione permanente giustizia della Camera.

    Non mancano, a riequilibrio, giudizi di segno opposto, positivamente valutandosi lo sforzo di ricondurre su binari di certezza certi strumenti processuali ormai usati con non controllata discrezionalità.

    Ma sta di fatto

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