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Le donne di casa Blackwood
Le donne di casa Blackwood
Le donne di casa Blackwood
E-book455 pagine7 ore

Le donne di casa Blackwood

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Info su questo ebook

Ai primi posti delle classifiche americane

Autrice del bestseller La stagione dei ricordi perduti

Una sera dell’estate del 1931 Lilly Blackwood intravede le luci abbaglianti del circo dalla finestra spiovente della sua camera da letto. Non ha il permesso di esplorare i dintorni della casa. Non è neanche mai uscita dalla sua stanza all’ultimo piano. Sua madre sostiene che sia per il suo bene e che le persone si spaventerebbero se la vedessero. Ma quella notte calda e stellata è destinata a cambiare ogni cosa: Lilly esce dalla sua prigione e si dirige verso il tendone del circo. Più di vent’anni dopo, la diciannovenne Julia Blackwood ha ereditato dai genitori la tenuta di famiglia e la casa adiacente. Per Julia, quello è un luogo di ricordi infelici, pieno di regole ferree e stanze proibite. Tornare lì dopo tanto tempo potrebbe aiutarla a liberarsi dai fantasmi del passato? Scavare a fondo tra i segreti di casa Blackwood porterà Julia a scoprire verità scabrose e tradimenti di cui si è macchiata la famiglia, perché la sua storia è intrecciata a quella di Lilly, in fuga per trovare la sua strada nel mondo duro, a volte brutale del Circo dei fratelli Barlow.

Un’autrice da 1 milione di copie
Tradotta in 12 Paesi

La vita di due donne è legata a casa Blackwood e ai suoi oscuri segreti

«La vita di un’artista circense e di una ragazza scappata di casa confluiscono magistralmente.»
Kirkus Reviews

«Due storie che si intrecciano gradualmente. Un romanzo ben costruito che affascina il lettore.»
Publishers Weekly

«L’autrice si immerge nelle vite delle giovani donne con delicatezza e una grande abilità nel dosare le emozioni.»
New York Journal of Books
Ellen Marie Wiseman
È nata e cresciuta in un piccolo paesino nello Stato di New York. Attualmente vive sulle rive del lago Ontario con il marito. Ha scritto il suo romanzo d’esordio, La stagione dei ricordi perduti, pubblicato in Italia dalla Newton Compton, ispirandosi alle storie dei nonni e dei genitori, emigrati negli Stati Uniti dopo aver conosciuto gli orrori della seconda guerra mondiale e dello sterminio. Le donne di casa Blackwood è già un successo internazionale.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2018
ISBN9788822719119
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    Anteprima del libro

    Le donne di casa Blackwood - Ellen Marie Wiseman

    Capitolo 1

    Lilly

    Luglio 1931

    Casa Blackwood

    Dobbin’s Corner, New York

    Lilly Blackwood, nove anni, si piazzò davanti all’abbaino nella soffitta di casa Blackwood per quella che le sembrò la millesima volta, sognando che la finestra si aprisse così da sentire gli odori del mondo esterno. L’indomani sarebbe stato il suo compleanno, e non riusciva a immaginare un regalo più bello. Certo, papà sarebbe tornato dalla Pennsylvania per portarle un vestito nuovo e un altro libro, ma fuori aveva appena smesso di piovere e lei voleva sapere se l’aria era diversa. Chissà se quelle gocce minuscole facevano diventare ogni cosa morbida e fredda, come succedeva a lei con l’acqua quando faceva le spugnature. O se anche lì fuori era tutto tiepido e appiccicaticcio, come l’aria nella sua stanza. Aveva chiesto alla mamma un centinaio di volte di cambiare la finestra con una che si potesse aprire, e di togliere quella specie di serpenti di metallo in modo da poter guardare meglio fuori ma, come al solito, sua madre non le aveva dato retta. E se avesse saputo che papà la lasciava giocare in un’altra zona della soffitta quando lei era in chiesa, papà sarebbe finito davvero nei guai. Ancor più di quando le aveva insegnato a leggere, o di quando le aveva regalato un gatto nel giorno del suo terzo compleanno. Lilly sospirò, prese il cannocchiale dal davanzale e se lo portò al viso. Almeno era estate e non doveva grattar via il ghiaccio dal vetro.

    Papà chiamava crepuscolo quell’ora del giorno, e sembrava che fuori tutto fosse dipinto con due colori soltanto: verde e azzurro. La fila di pini all’altra estremità delle stalle, oltre i campi dove giocavano i cavalli, pareva fatta con il feltro che lei usava per le coperte delle bambole. C’erano ombre dappertutto e diventavano sempre più scure.

    Lilly sorvolò con lo sguardo il limitare del bosco, dove ieri aveva visto il cervo. Ecco il salice tutto storto. Ecco la roccia vicino al cespuglio che diventava rosso in inverno. Ecco il tronco spezzato, vicino alla recinzione di pietra. Ecco il… Si fermò, e puntò di scatto il cannocchiale di nuovo verso la recinzione. C’era qualcosa di diverso, all’altra estremità del bosco, vicino ai binari che attraversavano un prato assai lontano. Si scostò il cannocchiale dal viso, batté le palpebre, tornò a guardare e trasalì. L’aria le squittì nel petto, come le succedeva sempre quando si emozionava oppure era molto agitata.

    Una sfilza di luci blu, rosse, gialle e verdi, come quelle che papà metteva sul suo letto per Natale, penzolava sopra un’enorme casa luminosa fatta con un materiale che sembrava quello dei vestiti. Altre luci ancora circondavano case simili a piccoli, grassi fantasmi. Lilly non riusciva a distinguere le parole, ma c’erano anche dei cartelli, con le lettere illuminate da lampadine colorate. Da alcuni pali molto alti pendevano le bandiere, e sopra i binari della ferrovia pareva ci fosse sospesa nel vuoto una fila di luci gialle e squadrate. Come i finestrini di un treno in sosta. Un treno assai lungo.

    Lilly mise giù il cannocchiale, aspettò che i polmoni la smettessero di fischiare e poi andò verso la libreria, per prendere il suo libro preferito. Sfogliò le pagine finché non trovò l’immagine che stava cercando: un variopinto tendone a strisce circondato da carri, cavalli, elefanti e pagliacci. Tornò di corsa alla finestra per confrontare il tendone del libro con le case luminose in fondo al bosco.

    Aveva ragione.

    Era un circo.

    E lei riusciva a vederlo.

    Di solito fuori dalla sua finestra c’erano solo campi e cavalli, e papà col suo aiutante che lavorava vicino agli steccati bianchi oppure nelle stalle. Ogni tanto anche la mamma attraversava il prato diretta alle stalle, i lunghi capelli biondi che svolazzavano dietro di lei come un velo. Certe volte un furgone si fermava lì davanti, e l’aiutante di papà faceva salire o scendere i cavalli, o scaricava grandi sacche e balle di fieno. Una volta, due uomini vestiti di stracci, papà li aveva chiamati barboni, andarono verso l’abitazione e l’aiutante di papà uscì dalla stalla con un fucile a canne mozze. Se Lilly aveva fortuna, dal bosco veniva fuori il cervo, oppure i procioni zampettavano lungo il recinto verso il capanno dove mangiavano i cavalli, o un treno sfrecciava sui binari. E se accostava un orecchio alla finestra, dal vetro sentiva il fischio oppure lo sbuffo del motore.

    Ma adesso, fuori dalla sua finestra, c’era un circo. Un circo vero e proprio, dal vivo! Per la prima volta in vita sua, vedeva qualcosa di diverso dal solito, e non nelle pagine di un libro illustrato. Questo la rese felice, ma anche un po’ contrariata con se stessa. Se non avesse passato tutto il pomeriggio a leggere, forse avrebbe visto il lungo treno che si fermava a scaricare chissà quali passeggeri. Avrebbe visto le tende mentre venivano montate, o magari gli elefanti, le zebre e i pagliacci. Ma adesso, col buio, si vedevano soltanto le illuminazioni.

    Mise giù il libro e contò le assi intorno alla finestra. A volte contare la faceva sentire meglio. Uno, due, tre, quattro, cinque. Non stava funzionando. Non riusciva a smettere di pensare all’occasione sprecata. Appoggiò l’orecchio al vetro. Forse così poteva sentire le urla del direttore del circo, oppure la musica. Ma sentì soltanto l’aria che le squittiva nel petto, e il cuore che batteva sempre più veloce.

    Sul davanzale Abby, la sua gatta, si svegliò e batté le palpebre. Lilly la cinse tra le braccia e affondò il naso nel suo manto arancione tigrato. Abby era la sua migliore amica, la gatta più in gamba del mondo. Sapeva alzarsi sulle zampe posteriori per darti i bacini, e allungava quelle anteriori per stringerti la mano. E, addirittura, saliva o scendeva dal letto quando le chiedeva di farlo.

    «Scommetto che la mamma andrà al circo», disse Lilly. «Lei non deve preoccuparsi di poter spaventare la gente».

    La gatta fece le fusa.

    Come doveva essere vedere un elefante di persona? E cosa si provava a toccare la sua pelle grinzosa e scrutare quei grandi occhi marroni? Oppure a stare in sella al cavallo bianco e rosa di una giostra? O a passeggiare tra la folla, mangiando noccioline e zucchero filato? O magari assistere a un vero spettacolo con i leoni?

    Ogni tanto, di notte, con la luce spenta, si rannicchiava nel letto e immaginava di uscire da quella stanza e scendere di sotto. Aveva letto abbastanza libri da sapere che le case avevano più di un piano, e così sognava di attraversare furtiva la soffitta, trovare una scala, arrivare al pianterreno di casa Blackwood e uscire dalla porta principale. Posare i piedi sulla terra, fare un lungo respiro e, per la prima volta nella sua vita, sentire odori diversi da quelli del legno vecchio, le ragnatele e la polvere.

    Uno dei suoi giochi preferiti, durante le visite settimanali di papà, era provare a indovinare i vari profumi che gli impregnavano i vestiti. A volte sentiva odore di cavalli e fieno, altre volte lucido da scarpe o fumo, oppure pane infornato o… come si chiamava quella roba che in pratica era un miscuglio di limone e cedro? Acqua di colonia? Qualunque fosse il nome, l’odore era buono.

    Papà le aveva parlato del mondo esterno, e lei stessa ne aveva letto sui libri, ma non aveva la minima idea di quale fosse la sensazione dell’erba tra le dita dei piedi, o della corteccia di un albero contro il palmo della mano. Voleva conoscere il canto degli uccelli e la voce del vento. Voleva sentire sulla pelle la brezza e il sole. Aveva letto tutto il possibile su piante e animali, e conosceva i loro nomi. Ma a parte Abby e i topini che vedeva correre lungo il battiscopa d’inverno, non aveva mai visto un vero animale da vicino.

    L’altro suo gioco preferito era scegliere un posto nel libro delle mappe e leggere tutto ciò che poteva al riguardo, per poi progettare un viaggio mentre si addormentava, decidendo dove andare e cosa vedere una volta arrivata. Il suo posto preferito era l’Africa, dove si immaginava a correre con i leoni, gli elefanti e le giraffe. A volte sognava di rompere la finestra dell’abbaino, uscire sul tetto, scendere lungo il lato della casa e andare di soppiatto verso la stalla per conoscere i cavalli. Perché, in base a tutto ciò che aveva visto e letto, erano i suoi animali preferiti. A parte i gatti, ovviamente. I cavalli non solo erano belli e forti, ma trainavano anche carri, slitte e aratri. Ti lasciavano salire in groppa, e sapevano tornare da soli a casa se si smarrivano. Papà diceva che i cavalli di casa Blackwood erano troppo lontani dalla finestra della soffitta per riuscire a distinguerli, e così Lilly si era inventata dei nomi per loro: Gypsy, Eagle, Cinnamon, Magic, Chester, Samantha, Molly e Candy. Le sarebbe piaciuto davvero tanto avvicinarsi a quegli animali, toccare il manto e cavalcarli per i campi. Se solo non ci fossero state quelle stupide sbarre a forma di serpente fuori dalla finestra: la mamma sosteneva di averle messe per il suo bene. Ripensando alle parole della mamma, i suoi sogni si trasformarono subito in incubi.

    «Le sbarre servono per proteggerti», aveva detto. «Se qualcuno riesce a entrare e ti vede, si spaventerà e ti farà del male».

    Quando Lilly le aveva chiesto perché la gente doveva aver paura di lei, la mamma aveva risposto che era un mostro, un abominio. Lilly non lo sapeva cosa fosse un abominio, ma dava l’impressione di essere qualcosa di brutto. Abbassò le spalle e sospirò, nella muta immobilità della stanza. Niente circo per lei. Né ora né mai. E neppure sarebbe mai uscita da quella soffitta. L’unico suo modo per vedere il mondo era attraverso i libri. Papà diceva che il mondo esterno non era meraviglioso come pensava lei, e che Lilly doveva essere felice perché aveva un letto caldo e cibo da mangiare. Un sacco di persone non avevano una casa o un lavoro, e dovevano mettersi in fila per un pezzo di pane e una scodella di zuppa. Le aveva raccontato una storia su banche, soldi e una specie di grande crisi, che però lei non era riuscita a capire davvero. E comunque non l’aveva aiutata a star meglio.

    Prese Abby tra le braccia e si sedette sul letto di ferro incassato in una nicchia con la carta da parati sotto il soffitto ricurvo. La lampada sul comodino disegnava lunghe ombre sulle tavole del pavimento, e ciò significava che presto sarebbe sceso il buio e lei avrebbe dovuto spegnere la luce. Non voleva dimenticarselo di nuovo, altrimenti la mamma le avrebbe impartito un’altra lezione. Sua madre gliel’aveva ripetuto un centinaio di volte che se qualcuno vedeva la luce lassù e la trovava, l’avrebbe portata via, e Lilly non avrebbe più rivisto lei, papà o Abby. Ma una settimana prima, di sera, aveva cominciato un libro nuovo e se ne era dimenticata.

    Mise la gatta sul letto e controllò le cicatrici sulle dita. Papà aveva ragione: la pomata aveva alleviato il dolore. Oh, ma quanto bruciavano le fiamme della lanterna della mamma.

    «Chi ben ama, ben castiga», diceva sempre sua madre.

    Lilly avrebbe voluto chiederle se nella Bibbia c’era scritto qualcosa riguardo ai castighi con il fuoco, ma non aveva il coraggio. In teoria, lei doveva saperlo già cosa c’era scritto nella Bibbia.

    «Mi chiedo cosa farebbe la mamma se scoprisse che invece di quella noiosa, vecchia Bibbia leggo i libri di papà», confidò alla gatta. Abby le strusciò il faccino contro un braccio, poi si acciambellò e tornò a dormire.

    Lilly prese la Bibbia dal comodino, non osava tenerla altrove, spostò il segnalibro di una manciata di pagine e poi la rimise al suo posto. Sua madre avrebbe controllato per scoprire quanto aveva letto durante la settimana, e se il segnalibro fosse rimasto indietro lei sarebbe finita davvero nei guai. Secondo la mamma, la Sacra Bibbia e il crocifisso appeso al muro sopra il letto erano più che sufficienti per una vita felice.

    Tutto il resto, nella stanza, gliel’aveva portato papà: il tavolino di vimini già pronto per il tè, con tanto di centrino merlettato, vassoio d’argento e tazze di porcellana. Anche la sedia a dondolo e l’orsacchiotto di pezza sullo sgabello azzurro imbottito, vicino al guardaroba. La casa piena di mobili in miniatura, con le piccole bambole che sedevano a schiena dritta. Gli animali della fattoria allineati su una mensola sopra la libreria, tutti girati nella stessa direzione, come se stessero per cantare in coro. Tre bambole di porcellana con i vestiti di pizzo in un passeggino di vimini, una con gli occhi che si aprivano e chiudevano. E, ovviamente, la libreria zeppa di libri. Per un po’ le era sembrato che papà fosse disposto a portarle qualsiasi cosa, fin quando lei non aveva letto Biancaneve e i sette nani e gli aveva chiesto uno specchio.

    A volte, nel cuore della notte, quando era sicura che tutti dormissero e fuori dalla finestra non ci fosse altro che il nero buio, Lilly accendeva la luce e studiava la propria immagine riflessa nel vetro. Ma vedeva soltanto una maschera sfocata e spettrale, con le sbarre di metallo all’esterno che parevano avvolgersi intorno alla pelle. Restava a fissare quel pallido riflesso e si toccava la fronte, il naso e le guance, cercando di trovare una strana escrescenza o una parte mancante, ma non c’era nulla di sporgente o di vuoto. Quando aveva chiesto a papà cosa avesse di sbagliato, le aveva risposto che per lui era bellissima, e tutto il resto non aveva importanza. Eppure, mentre glielo diceva, aveva una luce strana negli occhi, e Lilly aveva pensato che non era la verità. E sarebbe finito davvero nei guai se la mamma l’avesse scoperto, perché la mamma diceva sempre che mentire era peccato.

    Per fortuna lei non avrebbe mai fatto la spia. Papà le aveva insegnato a leggere e a scrivere, e a fare addizioni e sottrazioni. Era stato lui ad abbellire i muri della stanza con la carta da parati ricoperta di rose, e le aveva comprato vestiti e scarpe nuove quando era diventata troppo grande per quelli vecchi. Era lui a portare il cibo per Abby, e a lasciare che Lilly girasse per il resto della soffitta per camminare e sgranchirsi le gambe. Una volta le aveva portato addirittura un vecchio giradischi e aveva provato a insegnarle il tango e il charleston, ma lei si era stancata troppo e avevano dovuto smettere. Lilly però adorava la musica e l’aveva supplicato di lasciarle il giradischi. Lui aveva dovuto riportarlo di sotto, perché la mamma si sarebbe arrabbiata se l’avesse scoperto.

    Sua madre le portava il cibo e le cose indispensabili, mai un regalo. Entrava nella sua stanza ogni mattina, tranne le volte in cui si dimenticava, con un vassoio di pane tostato, latte, uova, tramezzini, mele e biscotti, che dovevano bastarle per il resto della giornata. Le portava sapone e asciugamani puliti, e le ricordava di pregare prima di ogni pasto. Se ne stava vicino alla sua porta ogni sera, con un mazzo di chiavi in mano, e aspettava che Lilly si inginocchiasse accanto al letto per chiedere perdono al Signore per i suoi peccati e per ringraziarlo di averle concesso una madre che si prendeva tanta cura di lei. A parte ciò, non andava mai nella sua stanza solo per parlare o divertirsi insieme a lei. Non le diceva mai: «Ti voglio bene», come faceva papà. Lilly non avrebbe mai dimenticato il giorno del suo settimo compleanno, quando i suoi genitori avevano litigato proprio lì, fuori dalla porta.

    «La stai viziando con tutti quei regali», aveva protestato la mamma. «È peccaminoso darle così tanta roba».

    «Non c’è niente di male», aveva risposto papà.

    «In ogni caso, dobbiamo smetterla di spendere tutti quei soldi».

    «I libri costano poco».

    «Sarà anche vero, ma cosa succede se comincia a fare domande? Se vuole scendere di sotto e uscire? Sarai tu a dirle di no?».

    Papà non aveva risposto subito, e Lilly aveva sentito il cuore che le si riempiva di gioia. Forse l’avrebbe portata fuori, dopo tutto. Poi lui si era schiarito la voce e aveva concluso: «Che altro dovrebbe fare, rinchiusa lì dentro? Quanto meno possiamo concederle un compleanno normale. Non è colpa sua se…».

    La mamma aveva fatto una specie di rantolo. «Non è colpa sua? E di chi, allora? Mia?»

    «Non è quello che stavo dicendo», aveva risposto lui. «Non è colpa di nessuno. A volte certe cose succedono e basta».

    «Be’, se mi avessi dato retta sin dall’inizio, non saremmo…». Aveva fatto un rumore strano, come se le parole le fossero rimaste incastrate in gola.

    «È pur sempre nostra figlia, Cora. A parte quell’unica cosa, è perfettamente normale».

    «Non c’è niente di normale nell’essere che vive dietro questa porta», aveva sbottato la mamma con voce tremante.

    «Non è vero», aveva insistito papà. «Ho parlato con il dottor Hillman, e mi ha spiegato…».

    «Oddio… dimmi che non è vero! Come hai potuto tradirmi così?». Adesso stava piangendo.

    «Calma, calma, tesoro. Non l’ho detto a nessuno. Ho soltanto chiesto al dottor Hillman se aveva mai visto…».

    I singhiozzi della mamma avevano coperto il resto della frase, poi si erano sentiti i suoi passi in corsa.

    «Tesoro, aspetta!», aveva esclamato papà.

    Dal giorno seguente, Lilly aveva smesso di pregare prima dei pasti, ma non l’aveva detto alla mamma. E, da quella volta in poi, le aveva disobbedito in un centinaio di piccoli modi. Sua madre diceva che era sbagliato guardare il proprio corpo nudo, e le faceva chiudere gli occhi durante le spugnature settimanali, fin quando lei non era diventata abbastanza grande da lavarsi da sola. Adesso Lilly poteva guardarsi le braccia e le gambe color latte mentre faceva il bagno, esaminando il torace bianco e sottile, i capezzoli rosa. Non lo faceva di proposito, anche se dopo se ne vergognava. Voleva soltanto capire cosa la rendeva un mostro. Sapeva solo che i suoi genitori sembravano diversi da lei. La mamma aveva i capelli biondi e ondulati, e la pelle rosa; papà aveva baffi e capelli neri, pelle abbronzata; mentre la sua pelle era bianca come il borotalco, e i capelli lunghi e lisci avevano il colore e la consistenza delle ragnatele. Era come se Dio si fosse dimenticato di darle un colore. Era questo a renderla un mostro? O c’era altro?

    Ora, con la speranza di riuscire a vedere meglio il circo al mattino, Lilly indossò la camicia da notte, si mise a letto e spense la luce. Poi si rese conto che la mamma non era salita per controllare che recitasse le sue preghiere.

    Si rannicchiò vicino a Abby e la tirò a sé. «Probabilmente è andata al circo», le disse chiudendo gli occhi.

    La notte seguente, dopo che Lilly aveva visto per la prima volta il circo fuori dalla finestra, venne svegliata dallo sferragliare della chiave nella serratura. Si drizzò a sedere e allungò una mano verso la lampada sul comodino, poi si fermò con le dita sull’interruttore. Era notte fonda, e se la mamma avesse visto la luce, lei sarebbe finita davvero nei guai. Forse sua madre aveva scoperto che aveva passato tutto il giorno a guardare il circo, invece di rassettare la stanza e leggere la Bibbia. Il circo appariva minuscolo dal cannocchiale, e non era riuscita a distinguere tutti i dettagli, ma qualsiasi cosa le avesse fatto sua madre ne sarebbe valsa la pena, perché aveva visto gli elefanti e le giraffe che venivano portati nel grande tendone. Aveva anche visto la folla che si accalcava fuori dalle tende, i carri e i pagliacci e gli acrobati in costume. Era stato il giorno più eccitante della sua vita, e nulla poteva rovinarlo. Allontanò la mano dalla lampada e, una alla volta, toccò le dita con il pollice. Uno, due, tre, quattro. La porta si aprì, e la mamma varcò di soppiatto la soglia portando con sé una lampada a petrolio. Lilly la guardò entrare e sentì un nodo allo stomaco. Sua madre non veniva mai in camera sua quando era così tardi. In fondo al letto, Abby alzò la testa pelosa, sorpresa anche lei per quella visita notturna.

    Papà le aveva detto che in realtà la mamma si chiamava Coralline: era una donna bella e alta, e portava sempre i lunghi capelli biondi legati ai lati della testa. L’unico gioiello era la fede nuziale sulla mano sinistra, e indossava gonne semplici e scarpe comode, in nome della modestia e per la gloria di Dio. Papà diceva che la mamma metteva gli abiti e le pellicce migliori quando uscivano per una festa o una cena importanti, ma solo perché era questo che tutti si aspettavano nel mondo esterno. Lilly non capiva perché uno dovesse cambiare il proprio aspetto, ma papà le aveva spiegato che era più giusto così. Una volta, le aveva anche mostrato una foto della mamma vestita in quel modo, e Lilly aveva pensato che fosse un’altra persona.

    Ogni tanto papà le raccontava la storia di quando aveva visto la mamma per la prima volta, tra la stalla e il recinto rotondo, seduta su un barile a guardare i cavalli che giocavano nel campo. Il padre di lei, un prete pentecostale in pensione che aveva sempre sognato di allevare cavalli, era andato dai Blackwood per comprare uno stallone. Papà aveva pensato che la mamma era la ragazza più bella del mondo. Ma erano passati sei mesi prima che gli rivolgesse la parola, e altri sei prima che accettasse il suo invito a cena. Per chissà quale motivo, i genitori della mamma non si fidavano di lui. Ma alla fine la mamma e il papà erano arrivati a passeggiare mano nella mano nei frutteti; poi si erano sposati. Quando papà arrivava a quel punto della storia, la sua faccia diventava sempre triste, e diceva che la mamma aveva avuto un’infanzia assai difficile.

    In quel momento, la mamma entrò nella stanza di Lilly con un abito a fiori e un paio di scarpe rosa con i tacchi alti. Aveva le labbra tinte di rosso e portava un cappello giallo. Lei non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Non l’aveva mai vista così, non di persona almeno. Aveva le guance arrossate e respirava a fatica, come se avesse corso su per le scale.

    Lilly sentì che le si stava serrando lo stomaco. Papà doveva tornare domani dalla Pennsylvania. Le aveva promesso di portarle i nuovi regali per il compleanno non appena fosse arrivato. Ma, tanto tempo fa, le aveva anche detto che non doveva aver paura di restare sola quando lui e la mamma uscivano, perché di sotto c’era sempre il suo aiutante, nel caso passasse qualcuno per un cavallo. E se succedeva qualcosa a mamma e papà, l’aiutante avrebbe letto una lettera conservata nella scrivania di papà. Avrebbe trovato Lilly in soffitta e avrebbe saputo cosa fare. E se la mamma era salita per dirle che era successo qualcosa a papà, e lui non sarebbe più tornato?

    Toccò ogni dente con la punta della lingua e cominciò a contare, in attesa che mamma parlasse. Uno, due, tre, quattro…

    Poi la mamma sorrise.

    Sua madre non sorrideva mai.

    «Ho una sorpresa per te», annunciò.

    Lilly batté le palpebre. Non sapeva come rispondere. Era papà a portare le sorprese, non la mamma. «Dov’è papà?», riuscì a chiedere.

    «Vèstiti», rispose la mamma. «E fai in fretta, non abbiamo tanto tempo».

    Lilly spinse via le coperte e scese dal letto. Abby si mise seduta e stiracchiò le zampe anteriori, affondando le unghie nella trapunta. «Sta venendo qualcuno a vedermi?», chiese lei alla mamma.

    A parte i genitori, non era mai entrato nessuno nella sua stanza. Un inverno lei si era ammalata e papà voleva chiamare un dottore, ma la mamma si era opposta perché il dottore l’avrebbe portata via per rinchiuderla in un posto. E così papà aveva passato tre giorni ad asciugarle la fronte e ad applicarle sul petto polvere di senape e impacchi caldi. Lilly non avrebbe più dimenticato la tristezza che aveva intravisto sul volto di papà quando si era svegliata e gli aveva chiesto: «Papà, cos’è questo posto

    «Un ospedale per le persone malate», aveva detto lui. «Ma non ti preoccupare, tu resterai qui con noi».

    Nella stanza, la mamma ridacchiò. «No, Lilly, non sta venendo nessuno».

    Lei le lanciò un’occhiata, e sentì che le tremava tutto. La mamma non rideva mai; forse aveva bevuto anche lei quel liquido strano che ogni tanto papà portava con sé in un piccolo contenitore d’argento. Lilly non sapeva cosa fosse quella bevanda, ma gli faceva venire gli occhi vitrei e dava uno strano odore al suo alito. A volte, poi, lo faceva ridere più del solito. Come l’aveva chiamato? Whisky? No, era impossibile. Sua madre non avrebbe mai bevuto del whisky. Bere alcol era peccato.

    «Perché mi devo vestire, mamma?»

    «Perché oggi è il tuo compleanno, non ricordi?».

    Lilly si accigliò. Alla mamma non importava nulla dei compleanni. «Sì», riuscì comunque a rispondere.

    «E sono sicura che hai visto il circo, lì fuori».

    Lei annuì.

    «Bene, è lì che stiamo andando».

    Lilly la fissò, a bocca spalancata. Ora le gambe le tremavano più forte, e anche le braccia. «Ma… e se… se qualcuno mi vede?».

    La mamma sorrise di nuovo. «Non ti preoccupare. Quelli del circo sono abituati a vedere persone come te. E non ci sarà nessun altro, solo noi due. Perché, anche se io ero contraria, tuo padre ha insistito per pagare il gestore affinché organizzasse uno spettacolo speciale tutto per te».

    A Lilly venne la pelle d’oca. C’era qualcosa di strano, in quella situazione, ma non riusciva a capire cosa. Lanciò un’occhiata a Abby, come se la gatta potesse conoscere la risposta. Abby ricambiò lo sguardo con i suoi occhi curiosi. «Papà ha detto che sarebbe tornato domani», disse lei.

    La mamma continuò a sorridere, ma il suo sguardo era cambiato. La parte superiore della faccia era la stessa di quando Lilly finiva davvero nei guai. La metà di sotto sembrava appartenere a una persona che lei non aveva mai conosciuto. «È tornato prima», rispose la mamma.

    «E allora dov’è?», chiese lei. «Viene sempre da me, appena arriva a casa».

    «Ci sta aspettando al circo. Ora sbrigati!».

    «Perché non è venuto a prendermi lui, al posto tuo?». Non appena quelle parole le uscirono di bocca, Lilly si pentì di averle pronunciate.

    Sua madre andò verso di lei e sollevò una mano con improvvisa velocità. La colpì in pieno sulla mascella, e Lilly cadde sul pavimento. Abby balzò giù dal letto e si accovacciò vicino al muro, le orecchie tirate all’indietro.

    «Ingrata progenie del demonio!», strillò mamma. «Quante volte ti ho detto di non fare certe domande?»

    «Scusa, mamma», mormorò lei tra le lacrime.

    Ma sua madre la colpì con il lato del piede. «Cosa ho fatto per meritarmi questa maledizione?», chiese con voce sibilante. «Ora, mettiti in ginocchio e prega».

    «Ma, mamma…». I singhiozzi che la scuotevano erano troppo forti. Lilly non riusciva a rialzarsi, e a malapena respirava. Strisciò verso il letto con i capelli che le penzolavano davanti al viso e si tirò su a fatica, con l’aria che le fischiava nel petto.

    «China il capo e chiedi perdono», ordinò la mamma.

    Lilly unì le mani sotto il mento e contò le dita premendole una contro l’altra. Uno, due, tre, quattro. «Oh, Signore», disse spingendo le parole tra un sibilo e l’altro. Cinque, sei, sette, otto. «Perdonami per aver dubitato della mamma, e per tutti gli altri modi in cui le rendo la vita così difficile». Nove, dieci. «Prometto che d’ora in poi rimarrò sulla retta via. Amen».

    «Adesso, vèstiti», disse la mamma. «Non c’è più tempo da perdere».

    Lilly si alzò e indossò la biancheria intima con mani tremanti, poi si tolse la camicia da notte e si infilò il vestitino. Le faceva male il fianco, nel punto in cui la mamma l’aveva presa a calci, e le colava il naso.

    «Non quello», obiettò sua madre. «Trova qualcosa di meglio».

    Lilly si spogliò e, barcollando, andò al guardaroba. Tirò fuori il suo capo preferito: un abito di raso giallo con il colletto di pizzo e le maniche a volant. «Va bene?», chiese, mostrandolo alla mamma.

    «Può andare. Prendi anche le tue scarpe migliori. E spazzolati i capelli».

    Lilly indossò l’abito e si legò la cintura dietro la schiena. Passò la spazzola tra i capelli, una, due, tre, quattro, cinque, sei volte, poi si sedette sul letto per mettersi le scarpe di finta pelle. Abby attraversò il materasso per andare a sfregarsi contro il suo braccio. Lei le fece una rapida carezza, poi si alzò e andò a piazzarsi al centro della stanza, con le costole dolenti e il cuore impazzito. La mamma aprì la porta e si fece indietro, aspettando che lei varcasse la soglia.

    Aveva atteso questo momento per tutta la vita. Ma adesso desiderava restare in soffitta più di ogni altra cosa. Non voleva uscire. Non voleva andare al circo. Le si stringeva il petto, sempre di più. Quasi non riusciva a respirare.

    «Andiamo», la spronò la mamma con voce dura. «Non abbiamo mica tutta la notte».

    Lilly si cinse con le braccia e si avviò verso la porta boccheggiando. Poi si fermò e si girò verso Abby, che la stava guardando dal letto.

    «La gatta sarà ancora qui al tuo ritorno», la esortò sua madre. «Ora muoviti».

    Capitolo 2

    Julia

    Novembre 1956

    Hatfield, Long Island

    La diciottenne Julia Blackwood si guardò intorno nel corridoio del supermercato per accertarsi che nessuno la stesse osservando. Il negozio era piccolo, circa dieci metri per dodici, e dagli scaffali riusciva a controllare ogni angolo. Un adolescente brufoloso sedeva su uno sgabello dietro il bancone: masticava una gomma e fissava un televisore in bianco e nero sopra il bancone. Su una mensola, la radio trasmetteva Why Do Fools Fall in Love, mentre una signora dai capelli grigi se ne stava al frigo dei latticini ad appurare che le uova fossero intere.

    Julia fece un lungo respiro, si chinò su un ginocchio e finse di allacciarsi le scarpe di tela sporche di grasso da cucina. Lanciò altre rapide occhiate e, sicura di non esser vista, prese una confezione di carne in scatola Spam dalla mensola centrale, se la infilò nella tasca del cappotto e poi si alzò, sistemandosi i capelli dietro le orecchie. Il ragazzo al bancone si stava spremendo distrattamente un foruncolo sul mento, gli occhi ancora incollati alla televisione. Julia sospirò e andò verso lo scaffale accanto, camminando piano mentre fingeva di esaminare le merci esposte. Prese una piccola mela dal reparto ortofrutticolo, la mise in tasca e poi andò al bancone.

    «Posso avere la chiave per il bagno?», chiese al giovane brufoloso.

    Continuando a guardare la televisione, il ragazzo allungò una mano sotto il registratore di cassa e le diede una chiave appesa a una zampa di coniglio marrone. Poi fece schioccare la gomma da masticare e la guardò con un sogghigno. «Abbiamo messo il sapone nuovo giusto stamattina».

    Julia arrossì e dovette resistere all’impulso di correre via. Quel ragazzo lo sapeva bene perché lei voleva usare il bagno. Era la quarta volta in altrettanti mesi che non c’era acqua nella sua stanza in affitto sopra il negozio di liquori, ora a causa delle tubature gelate e non per il mancato pagamento della bolletta, e così da tre giorni non faceva la doccia né si lavava i capelli. Certo, nessuno dei suoi colleghi avrebbe notato se aveva fatto o meno il bagno, ma i clienti non avrebbero comunque apprezzato una cameriera con i capelli unti che portava in tavola le loro uova strapazzate e gli hamburger ricoperti di cipolla. Il Big Al’s Diner era già di per sé un locale abbastanza sudicio, non serviva che ci mettesse del suo anche lei. Invece di andar via, Julia zittì la voce dell’orgoglio, prese la chiave e si trascinò verso il retro del negozio.

    Nel gelido bagno c’era un lezzo di cibo marcio e vecchi calzini. Le fughe tra le piastrelle verdi del pavimento, spaiate e rotte, erano ricoperte da uno strato di fanghiglia e muffa nera, e la toilette era attraversata da una crepa gialla. Julia si sciacquò le mani al lavello con le zampe d’argento, le asciugò con dei tovaglioli di carta marrone e poi mangiò la mela più in fretta possibile, sforzandosi di ignorare la puzza di urina stantia. Una volta finito, si svestì fino a restare solo con la biancheria intima, piegò la divisa da cameriera color rosso ciliegia sopra il cappotto e li mise entrambi sul serbatoio dello sciacquone, l’unica superficie a sembrare vagamente pulita. Tremando per il freddo, si strofinò viso e ascelle con tovaglioli di carta e sapone dozzinale, poi si lavò i capelli nel catino cercando di non bagnarsi. L’acqua era ghiacciata, e il sapone le rendeva stopposi i capelli, ma almeno erano puliti. Quando ebbe finito di risciacquarli, usò altri tovaglioli di carta per strizzare via l’acqua, si vestì di nuovo, si pettinò per sciogliere i nodi e raccogliere poi i capelli in una crocchia, esaminando infine il risultato nello specchio opaco.

    Da quando tre anni addietro era scappata di casa, l’insidioso scorrere del tempo aveva lasciato traccia sui suoi zigomi sporgenti, e sui cerchi scuri sotto gli occhi. La pelle, un tempo liscia e abbronzata, era diventata pallida e porosa per la carenza di sonno e di luce solare. Persino i capelli, prima biondi e chiari come ali d’angelo, adesso erano più scuri e sottili. Le unghie erano smangiucchiate fino alla carne viva, e attraverso la stoffa della divisa si intravedevano le spalle puntute. Si sporse verso lo specchio per controllare la macchia gialla, residuo di un livido intorno all’occhio sinistro. Per fortuna era sparita quasi del tutto. Come hai fatto a finire così, ridotta a rubare cibo in un supermercato e a lavarti i capelli in un bagno pubblico? Avresti potuto aspettare un altro anno e andare al college, lontano da casa. Avrebbe pagato tutto tua madre. Invece hai barattato il coprifuoco delle nove e le confessioni della domenica con i doppi turni da cameriera e un fidanzato autoritario che ti picchia e spende più di quanto riuscite a guadagnare. Forse aveva ragione, mia madre. Diceva che non avrei mai concluso nulla di buono. E allora cosa ci provo a fare?

    Sua madre, pugni ossuti e animo sprezzante, era una che stabiliva e seguiva un sacco di regole. E si aspettava che le seguissero tutti quelli che vivevano con lei. Tra le infinite leggi che vigevano a casa Blackwood, dove alcune stanze erano sempre chiuse a chiave ed era vietato l’accesso a piani interi, Julia doveva pregare tre volte al giorno, tenere la stanza pulita e in ordine, fare le faccende domestiche, ottenere sempre il massimo dei voti a scuola e seguire anche lì le sue linee di condotta. Le era concesso di guardare i cavalli da lontano, ma non poteva entrare nella stalla, perché lì ci si andava per lavorare e non per giocare. Il trucco, le gonne larghe, i pantaloni a pinocchietto e i maglioni attillati erano vietati, e gli abiti interi dovevano essere pudicamente lunghi e accollati. Cosa più importante di tutte, doveva ricordare che se disobbediva le sarebbe successo qualcosa di brutto.

    Dopo aver trascorso gran parte della vita a chiedersi perché i suoi genitori avessero fatto una figlia, la fuga le era sembrata la soluzione a tutto. Certo, in quella casa le davano da mangiare, le compravano i vestiti e ogni altra cosa di cui avesse bisogno. Ma sua madre era troppo impegnata a pregare, fare le pulizie, cucinare e dettare regole per mostrarle affetto o dare consigli. E suo padre, che per lei era

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