Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il Vento e il suo Campione: La favola di William Walsh: ovvero come si diventa ciò che si è
Il Vento e il suo Campione: La favola di William Walsh: ovvero come si diventa ciò che si è
Il Vento e il suo Campione: La favola di William Walsh: ovvero come si diventa ciò che si è
E-book180 pagine2 ore

Il Vento e il suo Campione: La favola di William Walsh: ovvero come si diventa ciò che si è

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un anziano signore si ritira in una abbazia. Il suo nome è William Walsh.
Trascorre le sue giornate passeggiando alle prime luci dell’alba, sbrigando quelle poche commissioni che l’età e la forza rimasta gli permettono e soprattutto scrive. Nel silenzio della sera riversa su carta la storia che ha vissuto lasciando che anche le persone che più gli sono state care in vita prendano voce tramite i suoi ricordi.
Le prime notizie di sé, che William riporta nel diario polifonico, sono che sua madre è morta da due anni e che il padre è stato accoltellato tanto tempo prima nei pressi del porto di Liverpool. La sua vita scorre monotona tra la biblioteca dove lavora e la casa di cura dell’Abbazia dove spinge la carrozzina a Eddie Smith, un uomo cinquantasettenne con il quale stringerà una forte amicizia. Lo sorreggono in questo suo percorso asfittico la fede e le sedute psicoanalitiche.
Una notte, dopo una rimpatriata fra vecchi compagni di liceo, per un attimo prova l’impulso di buttarsi da un ponte e farla finita, quando incontra un senzatetto che gli dona un ciondolo magico. In un lampo, William diventa il calciatore più forte di tutti i tempi. Una sorta di George Best: donne, alcool e macchine veloci. Come calciatore sarà ancora più forte. C’è solo un problema, William non è George e scoprirà presto cosa gli manca davvero: l’unica donna di cui era innamorato dalle superiori e l’amicizia di un paraplegico. Insomma, la storia di William Walsh è la storia su quel che rimane, una volta (dopo) aver avuto tutto.
Un romanzo sorprendente, generoso e intrigante.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mag 2020
ISBN9788832926781
Il Vento e il suo Campione: La favola di William Walsh: ovvero come si diventa ciò che si è

Correlato a Il Vento e il suo Campione

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il Vento e il suo Campione

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il Vento e il suo Campione - Giuseppe Vallerini

    Dumas

    Prologo

    (prima parte)

    I ragazzini giocavano a pallone correndo senza risparmiarsi. Un tratto polveroso di strada chiuso al traffico era il loro esclusivo campo da calcio.

    Il canale non era lontano, lo ricordava la sirena di una barca e l’odore umido dell’aria mescolato a olio di motore bruciato.

    Da una villetta bianca un vecchio osservava la scena con un binocolo e sorrideva. Se qualcuno avesse visto i suoi occhi da vicino non avrebbe notato differenze fra il suo sguardo e quello dei ragazzini: rifletteva lo stesso stupore.

    Prologo

    (seconda parte)

    Forse il tempo di correggere bozze al giornale era davvero finito, così come stava terminando l’esperienza di vivere con moglie e due figlie in quell’assurda trappola di bilocale nella zona cinque di Londra.

    Era giunto al termine della ricerca dove tutti gli altri, giornalisti famosi e strapagati, avevano fallito. Lui no.

    L’uomo anziano che aprì il cancello sorrise, quindi si voltò e a capo chino lo condusse nella biblioteca. Era buia come si aspettava. L’aroma leggermente acre di carta ingiallita e cera gli arrivò fulmineo alle narici e per un breve istante ne fu rapito. Sentiva echeggiare i propri passi, gli sembravano quelli di un profanatore, poi la sensazione di sacrilegio si dissolse al pensiero della svolta che avrebbe dato alla sua esistenza.

    Proseguì, le sue mani cercarono, le sue mani trovarono. Era pesante e con la carta ingiallita dal tempo. Aprì le pagine del quaderno, troppo piccolo per essere un libro e troppo grande per essere un diario. Scritto in calce un nome: William Gareth Walsh.

    Il cuore dell’uomo accelerò il ritmo alla stessa maniera del mezzofondista che lancia la volata nell’ultimo giro di pista, la scarica di adrenalina fu così violenta da farlo sobbalzare. Si trascinò a fatica alla panca più vicina. Solo allora, notando le gocce che cadevano sul grosso tavolo di quercia capì che stava sudando.

    Ce l’ho fatta! gridò dentro di sé.

    Si guardò attorno, l’accompagnatore non c’era più. Era solo dentro quelle mura, era tutto come doveva essere. Chiuse gli occhi, così doveva sentirsi il vincitore di una lotteria da dieci milioni di sterline con il biglietto giusto stretto fra le mani. Contorse le labbra in una parodia di sorriso e comprese che nemmeno quello poteva rivaleggiare con l’emozione che stava provando. Poi le mani aprirono il libro e i suoi occhi cominciarono a leggere. Sì, era un diario e raccontava una storia. La storia più incredibile che fosse mai stata vissuta.

    Prima parte

    1

    William

    Guardo i fogli di fronte a me. Li ho sempre pensati come scatole per vecchie fiabe. Stringo la penna tra le dita. Basterà un cenno e il primo ricordo risalirà dalla sabbia del fondale. Dopo quella spinta procederà da solo assieme agli altri, io dovrò soltanto guidarli. Come si fa con la schiena dei bambini le prime volte che salgono su una bicicletta. Sono abbastanza certo che ci sarà molto da raccontare.

    Ricordo che in quegli anni la sveglia suonava alla stessa ora. Tutto inutile. Ero già sveglio da un pezzo a osservare il soffitto, mentre riflettevo con il medesimo entusiasmo al nuovo giorno che mi attendeva dietro la porta di casa. Dove non ero altro che un manichino esposto in vetrina a osservare le vite degli altri. Davvero ho scritto entusiasmo? Spero che abbiate senso dell’umorismo, per fortuna il mio non era contagioso. L’entusiasmo intendo.

    Mi chiamo William Gareth Walsh. Per gli amici Will. Alto e sottopeso, grazie. Dagli sguardi che alcune ragazze mi lanciavano altri coetanei ne avrebbero tratto eccitanti storie, io ho sempre creduto che si prendessero gioco di me. Tutte tranne una ma è ancora presto per presentarvela.

    Un pomeriggio in biblioteca lessi la frase di un poeta, l’infanzia mostra l’uomo come il mattino il giorno. [1] Praticamente il mio identikit. Avete presente il ragazzino sfigato della classe? Io ero quello che a volte lui prendeva in giro. Eppure, da lì a pochi mesi, migliaia di persone avrebbero urlato il mio nome. E i giornali pagato cifre esagerate di sterline solo per mostrare il mio volto sorridente sulla prima di copertina. Ma è ancora troppo presto per farvi sognare, dovete portare pazienza.

    Guardai il volto allo specchio. Solo due risvegli quella notte. Forse il prodotto omeopatico usato la sera prima aveva funzionato per davvero.

    Erano gli occhi a preoccuparmi, sempre grandi e sempre verdi per carità, ma stavano perdendo una certa patina. Come quelli di un fantoccio potevano aprirsi e chiudersi, ma non cambiava molto se osservavano il più bel tramonto o la più drammatica delle scene.

    Poi il the, i biscotti, la marmellata alle arance amare che stemperava il dolce del burro. Così diceva mia madre. O almeno così diceva fino a due anni fa, quando morì per un embolo che aveva deciso di fare una visita nel suo cervello. Lei che avrebbe voluto vedere quell’unico figlio un po’ meno tormentato e al riparo nel porto sicuro di una compagna e due figli a cui badare. Inutile dire che non fu così.

    Ultimo lieto evento della sua permanenza terrena la colse cinque anni prima della scomparsa quando mio padre, preda degli ultimi appetiti sessuali, fuggì con una spogliarellista da quattro soldi. Peccato che non fossero esattamente quattro le sterline che lui portò con sé, ma quasi tutti i loro risparmi. La maggior parte dei quali sudati da lei lavando scale e corridoi negli uffici del quartiere. A conclusione della storia, lui venne trovato due settimane più tardi nel porto di Liverpool, a faccia in su dentro una lurida pozzanghera, la ferita di una lama fra le costole. Negli occhi un’espressione di buffo stupore, come a dire: non si finisce mai di prenderlo nel culo.

    Quel mattino la folla che assiepava la fermata della metro sembrava avere più fretta del solito.

    Fu l’ultima riflessione che feci prima di venire inghiottito dalla carrozza numero sedici. Destinazione Birmingham Central Library, contea West Midlands.

    Ebbene sì, ero un bibliotecario. Vice capo bibliotecario per la precisione. Il che vuol dire che stavo lì tutto il giorno a catalogare i nuovi volumi per argomento, spuntare sul registro i titoli dati in prestito, ritirare i volumi che erano stati letti spuntandoli a loro volta dal registro, quindi riposizionarli nello scaffale cercando di rispettare l’ordine di sempre. Fine. Un’attività emozionante? Nemmeno un po’. Il massimo del brivido accadeva quando toccava a me telefonare a qualche ritardatario. Con voce impacciata sollecitavo la restituzione del testo, cercando di non far caso al fastidio che serpeggiava al di là del filo. Giuro, avrei affidato volentieri l’incarico a qualche tipo bello grosso del recupero crediti.

    A proposito… abituatevi in fretta alle battute che ho seminato lungo il mio racconto, è grazie a loro se sono rimasto a galla in quegli anni. Come nella migliore tradizione inglese.

    E dopo il lavoro cosa rimaneva della mia giornata? Una passeggiata a Small Heath Park, due chiacchiere con l’amico incontrato per caso, magari una bevuta consumata al volo in uno dei tanti pub di tendenza che stavano aprendo in quegli anni lungo il corso dei canali. Insomma, nulla di particolarmente eccitante d’accordo, ma nemmeno quel tormento che creavo e nel quale sembravo indulgere. In fondo quante persone vivevano la mia stessa vita di allora? Probabilmente milioni di altri esseri umani mi tenevano compagnia. Forse per alcuni di loro era più dura, oltre a svolgere un intrigante lavoro dovevano confrontarsi con una fottuta malattia. Ciononostante cercavano di godere quello che rimaneva e che valeva la pena di essere vissuto. Si ritagliavano un frammento esclusivo di esistenza e in quell’intervallo cercavano di essere felici. Io sembravo non cercare altre cose oltre la noia, sebbene fossi così certo di desiderarle.

    A questo punto scommetto che vi starete chiedendo: che accidenti volevo? Sicuramente cambiare professione. Diventare giornalista ad esempio, però non ricordo di aver mai avuto il coraggio o la voglia di presentarmi a un qualsiasi giornale per offrire la mia collaborazione. Insegnare letteratura? Già, sentivo di esserci portato, e allora per quale motivo interruppi i corsi universitari quando mancavano cinque esami al benedetto pezzo di carta? Talvolta pensavo che non sarebbe stato male scrivere testi per canzoni. La più lunga arrivò alla quinta strofa, quando presi i fogli e li stracciai. Tanto chi canterà mai queste stronzate? Nessuno Will, nemmeno tu. Non muovevo un dito per diventare quello che desideravo. Ero davvero malato. Una malattia silenziosa che consumava dall’interno.

    Ora che ho spiccato il volo sono sereno, la memoria non giocherà brutti scherzi. Non le sarà permesso.

    Una volta sentii parlare di una leggenda indiana, un po’ stramba a dirla tutta. Narra di come ogni uomo custodisca dentro di sé uno scrigno prezioso. È un oggetto fragile come ali di crisalide poste sotto vetro. Dove sta il mio, non lo so. Ma mi fido. Al suo interno petali di rosa e sorrisi di bimbo. Effluvi di spezie rare e attimi di calore autentico. Le poche volte che si lascia aprire un delicato profumo penetrerebbe fuori regalandosi nella sua scia e, per alcuni istanti più o meno brevi, tutto il resto può essere dimenticato. Non lo so se questa storia è vera. Dicono che sia vera anche se non ci credi. In ogni caso una sacrosanta verità c’è: nella fantastica vita che sto descrivendo esistevano dieci giorni dove scavalcavo me stesso e la tristezza che indossavo. Dieci giorni dove sparivano i complessi e tutte le mie paure. In quei dieci giorni c’ero solo io. Io e Eddie.

    Birmingham, Saint Paul Church. Mi rivedo in una domenica mattina di fine settembre. Andavo a messa, anche se la mia non si poteva chiamare fede ma più un retaggio del passato, un ninnolo lasciato in eredità da mia madre. Affisso al portone della chiesa notai un cartello verde, pendeva storto e raffigurava una croce sopra una carrozzina da paraplegico, in basso una semplice scritta: Aiutaci a spingerla. Lo sguardo si soffermò su quell’immagine. Stranamente trovai il coraggio di saperne di più, e non era semplice curiosità, ma un vivo interesse che poco a poco entrò a far parte della mia vita. Tutto cominciò così, finché un giorno spuntò Eddie.

    Eddie Smith, cinquantasette anni quando lo conobbi la prima volta. L’espressione degli occhi marroni, le labbra carnose e il naso schiacciato da pugile ricordavano un attore. Il protagonista di Cartouche. Eddie ha sempre dato la colpa della malattia a un vaccino andato a male. A dirla tutta credo che fosse la storia raccontata dai suoi genitori. Era troppo piccolo per comprendere una roba come sclerosi laterale amiotrofica. E negli anni a venire lui tenne per buona la loro risposta, pensando che era pur sempre una risposta dei suoi genitori e non poteva essere bastarda fino in fondo. Lo capisco.

    Correva Eddie ed era felice come pochi di farlo, peccato che non avrebbe più corso da lì a breve. Il corpo si ritirò beffardamente, poco alla volta. Vedere le sue membra contorte faceva dubitare all’istante dell’esistenza di una giustizia divina. Viveva parcheggiato trecentocinquantacinque giorni all’anno in un istituto, i dieci restanti erano trascorsi in una struttura con camere da letto adattate, refettorio, ampie vasche per bagni e ogni altra necessità per i disabili come lui. La chiesa anglicana talvolta vede giusto nel destinare gli oboli dei suoi fedeli.

    Eddie. Forse ho preteso troppo dal mio coraggio. Questo passato che mentre scrivo si svela davanti poco alla volta, in un susseguirsi di sipari sollevati, pronti a mostrare scenari nuovi e un attimo dopo riconosciuti. Ora so che altri dolori giungeranno e faranno male, ma non voglio fermarmi. Ho già scritto che non sarà sempre brutto ricordare. Mi attendono capitoli dove dimenticherò ogni cosa. Devo essere paziente e assecondare la memoria.

    Ora davanti ho solo il tuo volto Eddie, il tuo volto e una storia rimasta impressa come caratteri cuneiformi su una tavoletta sumera. Ti piaceva parlare con me, l’inferno che ti travolse non ebbe il potere di renderti taciturno. Le poche volte che accadeva la tua mente era altrove. Compresi solo più tardi che in quei momenti rivivevi il tuo dramma. Un crudele amarcord che si componeva tetro, si teatralizzava e non potevi rifiutarlo. Era parte di te. Al tuo fianco c’era un bambino che correva felice, e allora la mente si arrendeva e tornava indietro, lontano, quando giocavi con i compagni. Cominciasti a cadere a terra senza motivo, una volta, due, cinque in un solo mese e non era un gioco. Hai dovuto trovare il coraggio di raccontarlo a casa, quei lividi ormai non potevano più essere nascosti, soltanto da quel momento tutto ciò è diventato reale. Anche se le altre famiglie già mormoravano dell’amichetto dei loro bimbi che crollava a terra senza un motivo. Alla prima caduta la bocca si riempì di verde. Quell’erba che amavi così tanto non immaginavi avesse un sapore tanto amaro.

    Poi cominciarono le visite dagli uomini vestiti di bianco. Non erano eroi buoni, dovevano essere per forza malvagi perché dalla loro bocca uscivano parole strane, termini misteriosi che la sera provocavano i disperati singhiozzi di tua madre.

    Il punteruolo dei ricordi non si fermava. Anni dopo, quando la carrozzina dava già il suo buongiorno ai piedi del letto, la morte dei tuoi genitori. L’incidente che li spazzò via e tu che continuavi a sentirti fortunato per avere due sorelle che avrebbero curato il fratello più piccolo. Non ti avrebbero mai lasciato solo. Almeno per qualche anno. Fino a quando non si sarebbero sposate e allora avrebbero preso a dividersi il

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1