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Il colore bianco degli inizi
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E-book416 pagine6 ore

Il colore bianco degli inizi

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Info su questo ebook

Nella casa invasa dalla polvere il disordine regna sovrano. Sono passati anni dall'ultima volta che Mary vi è entrata. A ogni passo i ricordi rischiano di sopraffarla, ma non può fermarsi. Sta cercando gli abiti di famiglia. Non sono abiti qualsiasi. Sono gli abiti delle possibilità, gli abiti delle speranze e dei nuovi inizi. Gli abiti bianchi del battesimo, della prima comunione, del matrimonio. Gli abiti che sua madre Anne, e sua nonna Aurelia prima di lei, hanno conservato gelosamente per anni. Stoffe e ricami che sanno di gioia, di feste e di risate, ma non solo. Perché l'infanzia di Mary non è stata facile, segnata dal rapporto contrastato con la madre Anne, una donna brillante eppure emotivamente vulnerabile.

Mary è una giornalista affermata, ma non ha dimenticato gli occhi appannati, i sorrisi assenti che si alternavano agli abbracci pieni d'amore e ai folli pomeriggi alla ricerca dell'abito perfetto per un giorno importante. Adesso che sua madre non c'è più, sa che deve cercare di comprendere la sua vita e i suoi segreti. Per sua madre, ma anche per se stessa.

Per farlo deve compiere un viaggio, un viaggio scandito dai dodici abiti bianchi di tre generazioni di donne. Deve tornare a un tempo lontano, a una storia di silenzi, coraggio, paura e voglia di ricominciare. Ma soprattutto alla storia di un amore unico come quello che lega indissolubilmente una madre e una figlia, nel bene e nel male. Un amore in cui tutto, a volte, può essere perdonato.



Il colore bianco degli inizi è un caso editoriale unico, bestseller del New York Times. La commovente testimonianza di una madre e di una figlia che hanno saputo trasformare segreti inconfessabili e dolori nascosti in un amore ancora più grande, nonostante tutto e tutti.





"Un onesto, commovente memoir sulla complessità delle relazioni familiari." - Kirkus Reviews



"Ciò che rende questo libro intimo e attuale combinazione rara in un memoir è che si tratta di una storia complicata, scritta da un personaggio complicato." - Chicago Tribune
LinguaItaliano
Data di uscita7 set 2017
ISBN9788858970355
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    Anteprima del libro

    Il colore bianco degli inizi - Mary Pflum Peterson

    Pflum)

    Introduzione

    Dovevano esserci.

    Dovevano esserci. Lì, da qualche parte.

    Ma dove?

    Dove?!

    L’ondata di panico che mi travolse mi mozzò il fiato. L’odore, il tanfo tremendo di quel posto mi rivoltava lo stomaco. L’aria era pesante, satura del… profumo nauseante di un vecchio fienile putrido in cui non entrava aria fresca da quasi un decennio. Sentivo il vomito bruciarmi in fondo alla gola.

    Non adesso. Non adesso! Avrei avuto tempo di sentirmi male dopo, in albergo. Adesso dovevo trovarli. E non avevo molto tempo.

    Muovermi era un’impresa. Non avevo più i piedi. Li avevo persi da qualche parte fra la porta d’ingresso e le scale, sepolti sotto montagne di numeri del Milwaukee Journal, di posta ancora chiusa, di guinzagli per gatti e decine di macchine fotografiche usa e getta, alcune addirittura ancora chiuse nelle confezioni di plastica gialla della Kodak. Scattare fotografie le era sempre piaciuto tanto, peccato però che non avesse mai voluto guardare nello specchio.

    Non ero riuscita a trovare il modo di salvarla da tutto questo: come avevo potuto?

    Piano, centimetro dopo centimetro, riuscii a farmi strada verso le scale. Di sopra, si trovavano senz’altro di sopra. Sempre che ci fossero ancora, ovviamente. Che lei non li avesse spostati. Che non fossero andati distrutti.

    Quante volte nei miei servizi mi ero occupata di catastrofi naturali? Fin troppe per tenerne il conto. Dopo l’uragano Katrina ero rimasta a New Orleans per oltre una settimana. Nel 1999 mi trovavo in Turchia durante il terremoto di magnitudo 7,8 della scala Richter che era durato ben quarantacinque secondi (un’eternità per un terremoto) e aveva mietuto decine di migliaia di vittime. Allora, proprio come adesso, c’erano macerie ovunque.

    Davanti a una calamità, non importa dove, e qualunque sia la portata della distruzione, che si tratti di incendi o di inondazioni o di uragani, le persone si comportano sempre allo stesso modo: giovani o vecchi, ricchi o poveri, tutti vogliono salvare prima di tutto se stessi e i propri cari. E poi le piccole cose. I grandi oggetti sino ad allora così importanti, come mobili ed elettrodomestici, e scarpe e piatti e apparecchi vari, persino automobili e biciclette frutto di mesi di risparmi e scelte con tanta cura, non hanno più alcuna importanza. No, dopo la vita vengono i cimeli di famiglia: vecchie coperte, copriletti cuciti a mano, Bibbie che si tramandano da generazioni, biglietti e lettere scritti a mano che chi è colpito da una catastrofe cerca disperatamente di mettere in salvo.

    Ed era quel che stava succedendo in quel momento. Al diavolo i mobili. Chi se ne importava dell’auto. Avevo ben altro da salvare.

    Non avevamo mai avuto veri cimeli di famiglia. Non dalla parte di mia madre, almeno. No, lei e io avevamo gli abiti bianchi.

    Proprio come gli anelli nel tronco di una vecchia quercia, gli abiti bianchi segnavano il trascorrere del tempo, gli avvenimenti importanti delle nostre vite. Belli o brutti, piacevoli o spiacevoli che fossero. Quei vestiti non erano solo importanti: per noi erano sacri.

    Mia madre non era schiava della moda. Tuttavia, rispettava alcune regole: la gonna si indossava solo con i collant di nylon o la calzamaglia, a meno di non aver ancora compiuto i dodici anni o di trovarsi a una partita di tennis; bikini e top erano off limits a qualsiasi età (un bel costume intero era, a suo dire, l’unica scelta giusta, sempre e comunque) e il bianco si indossava solo tra il fine settimana del Memorial Day (che in origine si chiamava Decoration Day) e il Labor Day, ossia tra la fine di maggio e l’inizio di settembre. Era strettamente proibito in autunno, in inverno e all’inizio della primavera, tranne che in occasione di battesimi, prime comunioni, diplomi o matrimoni.

    Quanto alle prime due regole, le trovavo ridicole e non facevo nulla per nasconderlo; anzi, avevo trascorso buona parte dell’adolescenza a sfidarle apertamente. Ma l’ultima – che avevo ribattezzato il Comandamento del Bianco – l’avevo accettata e fatta mia.

    Mia madre mi ha insegnato ad amare tutto ciò che questo colore rappresenta: pulizia, innocenza, semplicità, raffinatezza e, soprattutto, possibilità. E non semplici possibilità. Per lei il bianco rappresentava Infinite Possibilità. Il bianco – una tela bianca – incarnava la speranza e la promessa di nuovi inizi e di un futuro pieno di cose belle.

    Nel giorno più felice della mia vita, quello del mio matrimonio, il Comandamento del Bianco era in auge. Mi sono sposata nel fine settimana del Memorial Day avvolta in un abito bianco candido di Vera Wang che avevo dovuto ordinare apposta perché, mi avevano spiegato, le spose moderne preferiscono l’avorio. Non io. Non la mamma.

    Il Vera Wang era al sicuro, chiuso in una cassa di legno sotto il letto mio e di Dean, a un migliaio di chilometri di distanza a New York.

    Ma che ne era stato degli altri abiti bianchi? Lo ignoravo. Sapevo solo che dovevo salvarli.

    Per lei. Per me. Per noi.

    Mi girava la testa mentre mi arrampicavo su per i gradini. Respiravo ancora a fatica e vedevo tanti puntini luminosi, prima gialli, poi neri, che mi impedivano di vedere bene la scala… o meglio quella che un tempo era stata una scala. Impossibile distinguere gli scalini: c’era solo una gigantesca salita di stoffa, come se una decina di lavatrici avessero vomitato camicette macchiate e vecchi pantaloni, sciarpe ormai dimenticate e muffole e asciugamani e biancheria e panni vecchi di decenni. Basta, dovevo uscire o sarei svenuta, sarei finita lunga distesa su una di quelle pile di oggetti e indumenti mischiati a casaccio: le scatole di bicarbonato ancora chiuse e le uova di cartone tutte lacere con dentro collant mai indossati, i sacchetti del fast food, i bicchierini di plastica sporchi e i fazzolettini di carta.

    Dovevo trovarli prima che fosse troppo tardi.

    Mi aggrappai al corrimano e mi arrampicai su, una mano davanti all’altra, sino in cima, facendomi strada verso la mia stanza tra altri cumuli di vestiti sparpagliati ovunque. La prima porta sulla destra. La mia oasi, era lì che avevo studiato e giocato e pianto e sognato.

    «Oh, santo cielo!» ansimai entrando.

    Prima era tutta rosa e femminile e piena di luce e di oggetti, adesso era buia e ricoperta da uno spesso strato di polvere nera.

    Il sudiciume regnava ovunque: si era impossessato anche delle mie amate bambole e ne aveva ingrigito i bei capelli biondi, per non parlare dei trofei vinti ai festival della scienza, che, da dorati, erano diventati di un marrone orrendo. La bacheca rosa appesa sopra il mio letto era ancora piena di foto ormai sbiadite e delle coccarde raccolte durante una competizione sportiva cittadina. Ragnatele penzolavano ai quattro angoli della stanza. L’unica finestra era ricoperta da una pellicola di sporcizia da cui solo pochi raggi del sole invernale riuscivano a filtrare.

    Scossi la testa incredula. Nulla era rimasto come prima.

    Presi un respiro profondo. A quel piano l’aria era un po’ meno opprimente. E faceva anche molto più freddo per via del buco nel tetto, quello che lo zio aveva scoperto l’anno prima. I pipistrelli dovevano essere entrati da lì. Rabbrividivo al solo pensiero: pipistrelli dentro casa.

    Un passo alla volta, mi feci strada verso l’armadio a muro. Il poster su un’anta, quello di Top Gun con Tom Cruise in posa da duro, era tutto sudicio. Ti scongiuro… Aprii l’anta di destra. Mi balzò subito agli occhi una macchia di tessuto giallo che riconobbi immediatamente. Era lo scialle che avevo indossato a quattro anni per la messa della domenica di Pasqua. Il bel giallo brillante si era sbiadito per via della polvere. Allungai una mano per toccarlo e cacciai un grido quando ne scese un ragno con le zampette lunghe e sottili… un gambe lunghe, come li chiamava mia madre.

    Accanto allo scialle, nell’armadio, era appesa la camicetta casual a maniche corte della The Limited che avevo comprato in prima liceo con i soldi guadagnati facendo la babysitter. Com’era sbiadita, incrostata dallo spesso strato di polvere che aveva inghiottito tutta la stanza!

    Avevo il cuore in gola. Di nuovo il panico mi montava dentro come un’ondata angosciosa. Per favore. Per favore! Dovevano essere lì dentro. Di tutto il resto non mi importava, poteva anche bruciare, ma non potevo andarmene senza di loro.

    Scostai un vecchio abito senza maniche color pesca, cimelio di un’altra Pasqua, poi un cardigan di pizzo avorio, pieno di buchi e mezzo smangiato dalle tarme.

    Questo no… Questo nemmeno… E neanche quest’altro… No… no… Niente abiti bianchi.

    Un attimo! Eccolo lì, in fondo all’asta, schiacciato contro la parete del guardaroba: il mio vestito della prima comunione. Era rimasto lì appeso in bella vista per quasi trent’anni e, chissà come, aveva anche conservato il suo bianco candido. Come una sorta di armatura, i recessi dell’armadio l’avevano protetto dalla tempesta che aveva travolto la casa. Le lunghe maniche semitrasparenti erano ancora bellissime, il delicato pizzo del corpetto era ancora integro, persino le pieghe e la lunga fascia di satin erano intatte: un vero e proprio miracolo!

    «Oh Dio, ti ringrazio» gridai, prendendo il vestito, con la sua gruccia e tutto, per stringerlo forte. «Oh Dio, ti ringrazio!»

    Avevo di nuovo un abito bianco, un pezzo di lei. Un pezzo di noi. Non mi restava che trovare gli altri…

    1

    IL BATTESIMO DI MIA MADRE

    Settembre 1935

    Era un’assolata giornata autunnale del 1935, ed eccoli lì, tutti e tre insieme: Al, bellissimo nel suo completo scuro e con i riccioli castani scompigliati dal vento; Aurelia, con indosso un abito blu profondo a vita bassa cui, nel tentativo di nascondere una massa di ricci impresentabili, aveva abbinato un cappello dello stesso colore, e la loro figlioletta appena nata Anne. Anne Virginia Diener.

    La piccola, con la testa ricoperta solo da una lieve peluria scura, si contorceva nel lungo vestitino di cotone bianco che l’avvolgeva. Il vestitino, regalo della nonna paterna Trudy, era splendido, la nonna stessa lo definiva sontuoso! A dir poco sontuoso!: orlo e corpetto erano guarniti di pizzo, si chiudeva sulla schiena con una fila di bottoni di madreperla e, quando la piccola indossava anche un cappellino coordinato, la trasformava proprio nell’immagine della bambina a modo che Trudy aveva tanto sperato fosse quando aveva saputo della sua nascita.

    Certo, erano gli anni della Grande Depressione, e bisognava tirare la cinghia come non mai. Ma, si era detta Trudy, si trattava pur sempre della sua prima nipote – figlia del suo primogenito! – e Dio sapeva bene che quei due ragazzi non avrebbero potuto permettersi di comprare nulla di simile. Per l’amor del cielo, non potevano permettersi nemmeno un lettino vero. Nemmeno una culla! Con sommo orrore della nonna, infatti, la bambina dormiva in un cassetto del vecchio comò di Aurelia, cassetto che prima ospitava maglioncini e adesso era foderato di coperte.

    Anne aveva appena quattro settimane e, mentre i genitori facevano a turno per tenerla in braccio nella brezza autunnale, lei piangeva e dormiva in continuazione. Appena un’ora prima, si era assopita per quasi tutta la cerimonia del suo battesimo. Solo quando l’anziano prete, recitando le formule in latino, l’aveva bagnata con l’acqua, la piccola si era stiracchiata e aveva spalancato quei suoi occhioni color nocciola.

    Dopo la funzione, Al e Aurelia avevano portato la loro nuova responsabilità nel parco non lontano dalla casa di Trudy e August Diener, nella zona nord di Indianapolis, per qualche scatto estemporaneo. Prima in posa da un lato, poi dall’altro. Al riusciva ad abbozzare qualche sorriso, ma l’espressione di Aurelia era perennemente mogia. Sapeva che avrebbe dovuto essere felice, ma la maternità si era rivelata più di quanto avesse messo in conto. Sino ad allora non le era piaciuta quasi per nulla. La bambina aveva bisogno di attenzioni pressoché costanti. Non aveva più un attimo per sé e, peggio ancora, a stento l’aveva per restare da sola con Al. Prima c’era stato tempo per leggere, tempo per scrivere, per le cene a tarda sera e, oh!, per quelle esplosioni di passione quasi ogni notte che avevano portato all’arrivo della bambina.

    Aurelia aveva desiderato Al nel momento stesso in cui l’aveva visto a quella festa di compleanno al liceo e aveva subito iniziato a progettare il modo di acchiapparlo. La festa era stata organizzata dal gelataio del quartiere per festeggiare i suoi nipoti: Aurelia era compagna di scuola della ragazza, Al del fratello. E quando Aurelia lo vide, non ebbe bisogno d’altro. Lo voleva. Con tutto il cuore. E non solo. Ma non era stato facile. Lui proveniva da una buona famiglia, con un antico patrimonio che affondava le radici nella produzione di lapidi e lastre, una fabbrica tra le più importanti del Midwest e la più affermata di tutto l’Indiana. Aurelia, dal canto suo, proveniva dal nulla: era figlia di un uomo brillante ma sordo che, incapace di trovare impiego come ragioniere durante la Grande Depressione, era stato obbligato ad accettare qualsiasi lavoro gli venisse offerto; a un certo punto era stato anche lavandaio e, fra le altre cose, si era ritrovato a lavare perfino biancheria femminile sporca.

    Differenze sociali a parte, tuttavia, loro due avevano molto in comune. Al era cattolico, e così Aurelia. Al era uno studente brillante, primo della sua classe. Aurelia era una studentessa brillante, prima della sua classe. Aveva giurato a se stessa che l’avrebbe conquistato.

    Si erano frequentati per anni. Al aveva anche cercato di convincere i genitori che si trattava di un rapporto superficiale, nulla di impegnativo. La verità però era ben diversa, tanto che nel giugno del 1934 si erano sposati in segreto. Aurelia l’aveva persuaso ricorrendo alla più infallibile delle armi, per un cattolico: il senso di colpa.

    «Non possiamo vivere nel peccato per sempre» gli aveva intimato una notte, con la camicetta sbottonata e la gonna sollevata sopra le ginocchia, dopo l’ennesimo incontro a base di gemiti e pomiciate.

    Al, in preda a un misto di senso di colpa e di ardore carnale, si era detto d’accordo e aveva organizzato un matrimonio lampo in una cittadina vicina, dove aveva chiesto e ottenuto che un vescovo – un vescovo, nientemeno! – li sposasse. Avevano mantenuto il segreto per quasi un anno, confidandosi solo con Mary Jane, la sorellina di Aurelia, poi si erano finalmente decisi a rivelarlo anche ai rispettivi genitori. Trudy era scoppiata in lacrime, aveva gridato con quanto fiato aveva in gola, aveva pregato il figlio di chiedere l’annullamento. Non si rendeva conto che Aurelia gli avrebbe rovinato la vita? Non si rendeva conto che la carriera di medico che aveva tanto sognato – che lei aveva tanto sognato per lui – sarebbe stata persa per sempre se fosse rimasto con quella donna? Ma ormai era troppo tardi, Anne era già in arrivo. Al aveva deciso di rinunciare agli studi di Medicina per iscriversi a Ingegneria, nell’intento di laurearsi, e quindi trovare un lavoro, in minor tempo. Dopotutto aveva una famiglia da mantenere.

    E adesso la loro vita era piena di pannolini sporchi, di asciugamani macchiati e, per Aurelia, di seni doloranti. Per due giorni aveva provato ad allattare Anne, dichiarando infine di non avere abbastanza latte. In realtà, sapeva che doveva averne eccome, ma non aveva bisogno dell’ennesima ragione per restarsene incastrata con una neonata urlante e paonazza. Il biberon le dava una certa libertà che altrimenti non avrebbe avuto, poteva lasciare la figlia dai suoi genitori e, al bisogno, dai genitori di Al. Ai suoceri lei non piaceva: la odiavano per avere sposato il loro primogenito. Per averlo preso in trappola, dicevano. Ma, santo cielo, quanto amavano quella bambina.

    Al era stato molto furbo, bisognava ammetterlo, nell’insistere per chiamarla Anne: sant’Anna, madre della Vergine Maria, era infatti una dei santi a cui Trudy era più devota. Era a lei che Al si era rivolto quando la madre era stata male. E Trudy era entusiasta sin nel midollo che il figlio avesse scelto di dare proprio quell’amato nome alla sua primogenita: era la dimostrazione che, nonostante il pessimo gusto in fatto di mogli, i semi del cattolicesimo che aveva piantato in lui quando era bambino avevano attecchito ed erano germogliati. Anne era una benedizione. La loro piccola Annie.

    Tutta la famiglia era innamorata di lei. Persino Peg, la splendida sorella dai capelli castani di Al, modella di professione che spesso e volentieri la gente scambiava per un’attrice, aveva perso la testa per la bimba.

    Insomma, erano tutti deliziati da quella neonata che non la smetteva un attimo di agitarsi. Tutti tranne Aurelia. Per lei, Anne costituiva più un mezzo per raggiungere uno scopo, perché la sua nascita portava con sé la garanzia che, finalmente, Al era davvero suo. Per sempre. Non avrebbe mai lasciato la madre di sua figlia. Da bravo cattolico, il senso di colpa l’avrebbe ucciso.

    E così, in quel pomeriggio autunnale, dopo Al e Aurelia toccò a Trudy e August e Peg fare a turno per tenere in braccio la bambina e per mettersi in posa davanti all’obiettivo. Nel guardarla sentivano il cuore sciogliersi e gli occhi riempirsi di lacrime. Eccola lì. Una piccolina perfetta nata da una situazione assolutamente imperfetta. Fra l’arancio e il rosso delle foglie che avevano iniziato a cadere, sullo sfondo dell’azzurro vivido di quel tardo settembre, la bambina era un sogno. La loro piccola Annie. La loro visione in bianco.

    Sin dai primi giorni di vita, mia madre, Anne Virginia Diener, era conosciuta per tre segni distintivi: il visetto rotondo e innocente, i profondi occhi castani e una curiosità incontenibile. A un anno dall’arrivo dall’ospedale, era ormai chiaro a tutti che Anne era ansiosa, smaniosa addirittura, di andare alla scoperta del mondo: adorava organizzare spettacoli nel prato davanti alla casa di Dunkirk, nell’Indiana, amava passeggiare e salutare i vicini, chiamando a gran voce chi conosceva per nome, e si divertiva un mondo a trotterellare di qua e di là per il giardino, imparando a memoria i nomi di tutti i fiori. Rododendri e malvarose e i fragranti lillà che sbucavano da cespugli ispidi. E, in primavera, ecco sbocciare le sue preferite: le peonie. Era affascinata dai grossi fiori in cui si aprivano quei boccioli così piccoli, così come dalla colonia di bombi che attiravano, uno più grasso e peloso dell’altro.

    L’interesse per i fiori e per gli insetti, tuttavia, per quanto profondo, era senz’altro superato dalla voglia di conoscere meglio e comprendere la sua stessa famiglia. Era curiosa in particolare del padre e ansiosa di compiacerlo in ogni modo: con quella sua voce profonda e la mente vivace, Al Diener era un uomo di straordinaria bellezza e aveva splendidi occhi castano scuro proprio come i suoi; era alto poco meno di un metro e ottanta, aveva un fisico nerboruto e si abbronzava con facilità, e poi era così affascinante, sia nei completi scuri che sfoggiava per andare a messa che con le magliette che indossava quando faceva giardinaggio o si concedeva una sigaretta dopo il lavoro. Per Anne era una sorta di mistero. Poco dopo che lei si era alzata, usciva per andare a lavorare negli uffici della Armstrong Glass, colossale fabbrica di vetro in cui aveva messo a frutto la laurea in Ingegneria chimica come direttore di stabilimento, e spesso rincasava dopo che la madre l’aveva già portata a dormire. Solo nel fine settimana riusciva a vederlo come si doveva. E buona parte di quel tempo lo trascorrevano a messa.

    Al Diener aveva tre grandi amori: la madre Trudy, la moglie Aurelia e la Chiesa cattolica. E il più delle volte le due donne venivano dopo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. In Cristo, nei sacramenti, nelle parole del Papa e dei cardinali e del suo parroco, Al trovava l’ordine e il significato della vita, e in quell’ordine, in quelle tradizioni e nella rigidità dei sacramenti, poneva la sua fede eterna. La Chiesa era la struttura intorno a cui ruotava ogni cosa, sia sul piano personale che su quello professionale. Non era dunque stato per caso che, come prima casa in cui far crescere la famiglia, Al aveva scelto una casetta grigia nei pressi di St. Mary, l’unica chiesa cattolica di Dunkirk.

    Mia madre capì subito che, se voleva trascorrere più tempo con il padre, se voleva trovare il modo di far breccia nel suo cuore così da essere sicura che ogni tanto le rivolgesse un pensiero durante le lunghe ore che trascorreva lontano per lavoro, avrebbe dovuto farlo attraverso la chiesa. Recitare il rosario con il papà, andare con lui a messa nel fine settimana e aiutare ad apparecchiare quando un prete era invitato a cena erano tutti escamotage per rubare del tempo in più con lui e, soprattutto, per guadagnarsi qualche dose supplementare di quell’amore e quell’approvazione di cui aveva un bisogno disperato. Era affascinata dalle storie di santi che le raccontava, ascoltava rapita i Vangeli e osservava meravigliata, con un misto di paura e incanto, i preti nei paramenti che tenevano banco davanti all’altare, avvolti da pennacchi di fumo che si levavano dai turiboli.

    Se il cattolicesimo era la via per il cuore di suo padre, e non c’era alcun dubbio al riguardo, il modo per far breccia in quello di sua madre non le era però altrettanto chiaro.

    Da bambina, Aurelia Arvin Diener desiderava diventare tante cose, ma una buona madre non era certo in cima alla lista. Aveva visto il patrimonio di famiglia consumarsi per via della drammatica perdita dell’udito subita dal padre e dell’implacabile artrite che aveva colpito l’arcigna madre: un minuto prima, la loro vita era scandita da inviti per il tè e lezioni di danza a Cincinnati, quello dopo la famiglia Arvin era sprofondata nell’indigenza. Per anni Aurelia aveva battuto i binari del treno in cerca di carbone per scaldare la loro modesta casupola di Indianapolis, e lavorato di notte e durante i fine settimana presso un venditore d’auto per poter comprare un cappotto alla sua sorellina. Sperava con tutta se stessa che, una volta sposata, avrebbe finalmente potuto tirare il fiato. La maternità, però, era tutt’altro che rilassante.

    Dover fare attenzione a ogni penny che spendeva e asciugare di continuo il naso della figlia la facevano sentire costantemente in trappola. E non faceva nulla per nasconderlo. Aveva spesso scatti di nervi e si isolava volentieri, tuffando la testa nei giornali o negli amati libri anziché occuparsi della casa o dei bambini. Quel suo umore lunatico faceva sentire la piccola Anne in colpa, come se si stesse comportando male, come se non fosse la figlia che avrebbe dovuto essere.

    I livelli di stress all’interno della giovane famiglia Diener non fecero che aumentare con le gravidanze in rapida successione di mia nonna, che restò incinta ancora, e poi ancora, e poi ancora. Quattordici mesi dopo mia madre nacque un’altra bambina, Mary, che in casa chiamavano Mimi. Il parto fu così veloce che la mia povera zia scivolò di mano al dottore: la nonna fece una smorfia quando sentì la sua testolina colpire il tavolo, ma, per fortuna, la piccola sopravvisse. Poco dopo Mimi arrivò Patty, una ricciolina biondo cenere che, sin dal primo vagito, si mise in competizione con mia madre per l’affetto dei genitori. Poi fu il turno di Kathy, una bellezza castano scuro con un sorriso dolce e gli occhi da cerbiatto. E poi, dopo quattro femmine, finalmente il figlio maschio che mio nonno tanto sognava: Albert Joseph Junior, per tutti Al Joe, un torello che monopolizzava l’attenzione della famiglia.

    Cinque bambini in sei anni e mezzo trasformarono Aurelia in una sorta di robot. Affrontava la cura dei figli in modo sempre più pragmatico ed era più interessata a tenere a bada il caos che a dispensare lodi e abbracci. La cena era in tavola alle cinque in punto. Tutti i figli, compresa mia madre, la maggiore, erano sotto le coperte entro le sei. Era questo il suo modo di ritagliarsi del tempo per ciò a cui teneva davvero: restare da sola con Al. Non aveva tempo per scrivere, per quei romanzi che da ragazzina sognava di pubblicare. E anche il tempo da dedicare alla lettura scarseggiava. Ma per Al… per il suo amato marito avrebbe sempre trovato il tempo. Dopotutto era lui la sua ragione di vita.

    La casa in Broad Street era piccola nonostante i due piani: fratello e sorelle condividevano la stessa stanza, e le sorelle anche i letti, a due a due.

    Il riscaldamento costava caro, per questo era limitato al pianterreno. Durante l’inverno i bambini erano perciò costretti a dormire con due o tre strati di vestiti e due paia di calzini per scacciare il fantasma della polmonite.

    «Non sai quante volte» mi raccontava mia madre, «dentro casa faceva così freddo che, mentre mi cambiavo, vedevo le nuvolette di fiato. E i maglioni stesi ad asciugare diventavano duri come pezzi di legno.»

    A volte capitava perfino che il profumo a buon mercato di sua madre finisse per ghiacciarsi nelle bottigliette.

    Nei periodi di difficoltà, Aurelia aveva slanci di calore e affetto a sprazzi. Quando le finanze lo permettevano, durante le vacanze la sera dava ai figli popcorn e Coca-Cola. E si era dimostrata un’infermiera perfetta quando, a turno, si erano presi la varicella e gli orecchioni e il morbillo e la pertosse.

    Per la maggior parte del tempo, tuttavia, governava in casa con pugno di ferro: imporre e far rispettare le regole era il suo modo di tenere sotto controllo il caos che la sommergeva e, talvolta, la inghiottiva. E la ricerca di nuove regole raggiunse l’apice quando decise che era ormai giunta l’ora che Anne si separasse da Pooh, la sua amata copertina. Per anni quella coperta, ormai lacera e consunta, era stata per mia madre l’unica costante attraverso i cambiamenti imposti dall’arrivo di sorelle e fratellino; di notte si addormentava stringendola forte tra le dita grassocce di bambina, durante il giorno la faceva partecipare ai giochi con le bambole, e aveva persino provato a farci il bagnetto.

    «Adoravo la mia Pooh» mi raccontò un giorno. «Non era solo una coperta: era un’amica.»

    Per Aurelia, invece, Pooh era solo un problema. Anne era la maggiore e, insomma, il troppo è troppo. Era grande per andarsene ancora in giro con una copertina: questo diceva il buonsenso e a questo si sarebbe attenuta.

    Una mattina, mentre mia madre era fuori a giocare, Pooh sparì.

    «Dov’è Pooh?» domandò ingenua, rientrando all’ora di pranzo e andando subito in camera alla ricerca del conforto della sua copertina.

    «Pooh non c’è più» rispose Aurelia sbrigativa mentre, con il grembiule stretto in vita, puliva i fagiolini nel lavandino della cucina.

    «In che senso non c-c-c-’è più?» insistette mia madre spalancando gli occhi e alzando la voce. Aveva iniziato a balbettare e, nei momenti di particolare nervosismo come quello, la balbuzie si esacerbava.

    «Che non c’è più» ripeté Aurelia risoluta, mettendole davanti un sandwich con il roast beef. «Te l’ho già detto. Sei grande ormai, e le bambine grandi non vanno in giro con la copertina di consolazione.»

    «Non era una co-co-co-copertina di co-co-co-consolazione!» esclamò allora mia madre confusa. Aveva lo stomaco sottosopra. Iniziò a piangere. Non sapeva nemmeno che cosa fosse una copertina di consolazione. Sapeva solo che adorava la sua Pooh. Che aveva bisogno della sua Pooh. «Era m-m-m-mia!»

    Non riusciva a respirare. Provò a mangiare il sandwich che aveva davanti, timorosa di far arrabbiare la madre ancora di più. Ma ogni boccone le dava la nausea.

    Pianse la perdita dell’amica per ore, per giorni.

    «Vedrai che ti abituerai a vivere senza Pooh» disse il padre con tono prosaico quel fine settimana, prima di immergersi nell’infinita lista di cose da fare in casa che gli aveva dato Aurelia.

    Ma Anne non si abituò a vivere senza Pooh. Per anni continuò a sperare di vederla saltare fuori, magari fra i cuscini del divano o in fondo a un armadietto della cucina. Ma non accadde mai. E il suo rapporto con la madre cambiò per sempre.

    Con la scomparsa di Pooh, mia madre iniziò a bagnare il letto. Aveva imparato a usare il vasino già da un po’, eppure regredì, e gli spiacevoli episodi presero a ripetersi ogni notte. Cercava di nascondere le lenzuola bagnate, ma di rado ci riusciva.

    «Sei una bambina cattiva!» sbottava Aurelia, premendole rabbiosa la testa contro il materasso prima di disfare il letto. «Sei la maggiore! Non abbiamo tempo per queste cose!»

    E qual era la soluzione al caos che regnava in casa? Spedire Anne dai nonni per lunghi periodi. All’arrivo di un altro bebè, a ogni crisi che si insinuava in famiglia, Anne veniva allontanata per giorni, talvolta per settimane, mentre Aurelia cercava di domare la baraonda e di riprendere il controllo.

    A mia madre piacevano i nonni, tutti e quattro, ma con quelli paterni – Trudy e Papà Diener – trascorreva più tempo e strinse quindi un legame particolarmente intenso. L’amore di Trudy per il suo primogenito Al fu ereditato da mia madre, e in abbondanza: la portava a pranzo alla LS Ayres Tea Room di Indianapolis, le insegnò ad apparecchiare la tavola e a sistemarsi il tovagliolo in grembo, a mangiare la minestra, inclinando appena il piatto e allontanando il cucchiaio mentre la raccoglieva. Le comprava matite colorate e bei quaderni per la scuola e splendidi vestitini che Al e Aurelia Diener non avrebbero potuto permettersi. E, ciò che più contava, Trudy le diede un luogo in cui sentirsi sempre la benvenuta, in cui sentirsi a casa.

    Dai nonni Diener mia madre sviluppò, fra l’altro, un certo gusto per la radio. Glaucoma e cataratte gli avevano portato via la vista a poco a poco, e così August Diener trascorreva lunghe ore seduto davanti all’apparecchio, trasmettendo alla mia curiosa madre la passione per la parola parlata. Al suo fianco Anne seguiva con il fiato sospeso i discorsi del presidente Franklin Delano Roosevelt mentre con il New Deal si impegnava per rimettere la nazione in carreggiata. Insieme ascoltavano incantati il rumore delle mazze da baseball che colpivano la palla e le grida dei tifosi durante le partite dei Cincinnati Reds, la squadra preferita di August. E con Trudy, poi, si riunivano per ascoltare gli sceneggiati radiofonici.

    «La tua generazione ha la televisione» ripeteva mia madre, e io alzavo gli occhi al cielo. «Ma la mia sì che si divertiva, la mia aveva la radio.»

    Quante notti si era addormentata cullata dalla radio, e per quante ore la stessa radio le aveva fatto compagnia quando aveva il morbillo o la febbre! Le note dell’organo, così d’effetto, che scandivano la narrazione di Sentieri, le melodie di Glen Miller, le battute che si scambiavano il ventriloquo Edgar Bergen e il suo pupazzo Charlie McCarthy o George Burns e Gracie Allen durante il loro show la calmavano e le davano la sicurezza che, anche nelle più paurose delle notti, tutto sarebbe andato bene. Mia madre, come tutti i bambini, aveva paura di cose come i mostri sotto il letto, ma era spaventata anche dalle questioni che interessavano tanto gli adulti, fra cui un’epidemia di poliomielite che obbligava le piscine pubbliche a chiudere e bambini della sua età a vivere in polmoni d’acciaio. I suoni della radio erano capaci di farle dimenticare le preoccupazioni, anche solo per qualche minuto. Nella radio Anne Diener trovava la sua felice via di fuga dalla realtà.

    «Non impari a usare davvero l’immaginazione» mi raccontava, «ad assistere alla nascita di una storia che prende vita nella tua mente finché non trascorri un pomeriggio ad ascoltare – e intendo ad ascoltare davvero – parole.»

    Se August Diener le instillò l’amore per la radio e per la parola parlata, Trudy Diener le insegnò ad amare le arti. Tutta in ghingheri con la stola di visone che le era stata regalata molto prima della Depressione e un paio di guanti abbottonati al polso, Trudy accompagnava la piccola Anne ad assistere a musical nei migliori teatri di Indianapolis, ad ammirare la campionessa di pattinaggio artistico Sonja Henie che si esibiva, ad ascoltare orchestre in concerto. Con scrupolosa diligenza, nel corso dei mesi, e poi degli anni, Trudy iniziò la nipotina a Bach, Brahms, Beethoven.

    «Non dimenticherò mai la prima volta che ho ascoltato L’imperatore di Beethoven» sospirava sempre mia madre. «Sentivo di avere scoperto qualcosa di talmente speciale, di così raffinato, che avrei voluto nello stesso tempo condividerlo con tutti e con nessuno.»

    E la musica si faceva protagonista anche la sera, con le ninne nanne. Aurelia e Al non avevano quasi mai tempo per cantarne ai figli, ma per Trudy era diverso: dopo che la maggiore dei nipotini aveva trascorso la giornata ad arrampicarsi sugli alberi e ad ascoltare la radio, la metteva a letto e, nella stanza buia, le sedeva accanto e intonava una canzone dopo l’altra. La preferita di Anne era un antico motivo dei nativi americani, una litania malinconica, che Trudy modulava mentre le rimboccava le coperte. Mia madre se ne stava lì, distesa, ipnotizzata e insieme perplessa perché non sapeva se desiderava di più stare sveglia per ascoltare la nonna oppure abbandonarsi al mondo dei sogni.

    «Trudy mi faceva sentire al sicuro. La sua voce, quella canzone, mi facevano sentire importante» raccontò mia

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