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Il colore dei suoi capelli
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E-book308 pagine4 ore

Il colore dei suoi capelli

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Info su questo ebook

Anneline, è un brillante avvocato, divorziata, ha una figlia con cui ha un ottimo rapporto, e una storia d'amore con Matteo.

Una vita apparentemente soddisfacente, se a tutto ciò non si aggiungesse una scomoda convivenza con ciò che Anneline chiama mostro. Un' angoscia, una paura profonda che si è impossessata di lei, già all'età di 19 anni.

Forse alla base del suo malessere, c'è un difficile rapporto con il padre iniziato in età adolescenziale. Anneline è stanca di tutto questo, sarà anche per via dell'età che avanza.

Decide pertanto di entrare in analisi. L'analista assumerà un ruolo fondamentale, e insieme a lui, Anneline ripercorrerà il proprio passato da cui ha sempre cercato di scappare, scoprendo quanta rabbia si nasconde dentro di lei, insieme alla difficoltà di perdonare e di amare.

Sarà il caso, o forse il destino a farle scoprire la verità sulla sua vita. Solo provando a riconoscerla e ad accettarla, Anneline potrà finalmente sciogliere tutti i suoi nodi.
LinguaItaliano
Data di uscita5 set 2022
ISBN9791221417395
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    Anteprima del libro

    Il colore dei suoi capelli - Evy Giovannini

    UNO

    Stanotte, verso le due e mezza, mi sono svegliata di soprassalto sentendo dei passi sul balcone. Mi sono spaventata così tanto che mi c’è voluto un po’ per capire che ero appena uscita da un incubo. Avevo sognato che Ludovica era stata violentata, e che per il trauma subìto era tornata a essere di nuovo piccola, una neonata.

    Era accaduto in un momento in cui stranamente non ero con lei.

    Alcune persone mi raccontavano ciò che era accaduto, ma in modo incomprensibile. Sembrava che lo facessero apposta, proprio per non farmi capire, e io ero sconvolta. Poi, sempre nel sogno, vedevo un’altra neonata che però sembrava essere sempre Ludovica, e un uomo che voleva farle del male – non so in che modo – ma nessuno dei presenti interveniva. Inoltre mi sembra di ricordare che ci fosse anche un altro uomo che nascondeva dietro di sé dei pannolini per neonati.

    Dopo il brusco risveglio, ripensando all’incubo, subito sono stata assalita da una grande paura di sentirmi male e da una gran voglia di piangere.

    Non volevo svegliare Matteo, ma ero talmente spaventata che ho preso il cuscino e sono andata da lui. D’estate dormiamo in stanze separate, io in camera da letto, lui nel soggiorno, per via che soffre tanto il caldo al punto da dormire tutto nudo con il condizionatore a palla, dritto proprio sulla schiena. L’ho guardato mentre dormiva a pancia in giù, con un braccio disteso lungo il fianco, e l’altro piegato con la mano sul cuscino. Mi fa pensare a un Bronzo di Riace. Le spalle ampie, le gambe lunghe e muscolose, i fianchi stretti e affusolati, frutto delle scalate in montagna, il suo sport preferito da quando era ragazzo fino a una decina di anni fa.

    Appena mi sono distesa al suo fianco si è svegliato. Gli ho raccontato dei passi sul balcone che avevo creduto di sentire, ma che fortunatamente mi avevano risvegliata da un sogno bruttissimo. Ha cercato di tranquillizzarmi dicendo che non era successo niente e di prendere il cuscino per rimanere con lui.

    Gli ho risposto che il cuscino l’avevo già. «Ah sei venuta attrezzata!» ha esclamato. Quella sua frase scherzosa, detta nel modo in cui solo lui sa essere ironico, mi ha suscitato una risata convulsa mista al pianto, così ridevo e piangevo come una bambina. Matteo avrebbe voluto consolarmi, ma il sonno ha avuto la meglio su di lui e si è addormentato.

    Io non so cosa voglio in quei momenti. Guardavo verso la camera da letto con un senso di sgomento, poi, dal momento che sudavo – non so se per l’angoscia che ancora mi serpeggiava dentro o se per il timore di svegliare di nuovo Matteo –sono tornata nella mia stanza, ma con la luce accesa, seduta sul letto con due cuscini dietro la schiena.

    Sono rimasta sveglia fino all’alba, scivolando poi in un dormiveglia inquieto fino alle sette, quando Matteo è venuto a portarmi il caffè. Siamo andati in spiaggia dopo che in pratica non avevo dormito per niente. C’era un vento forte e il mare era agitato. Detesto il vento! Comunque, fortunatamente la temperatura è diminuita e oggi pomeriggio sono rimasta distesa sul letto insieme a Matteo fino alle otto, con la finestra aperta e un’arietta appena appena fresca che increspava le tende e ci accarezzava i piedi.

    È importante stare bene dentro casa, senza doversi difendere dall’afa estiva che ti opprime, ricorrendo all’aria artificiale e fastidiosa del condizionatore, altrimenti ti prende una smania di uscire pur senza averne alcuna voglia effettiva e senza sapere dove andare. È bello invece, soprattutto in vacanza, godersi l’ozio casalingo riempiendolo di tutte quelle cose che abitualmente non fai, come leggere, scrivere o semplicemente vedere un film in tv, anche se è la trecentesima volta che lo vedi. Soprattutto in estate, in televisione fanno sempre gli stessi film.

    Il pomeriggio antecedente al mio incubo eravamo andati al porto turistico di San Felice Circeo. Non dista molto da casa nostra per cui ci andiamo spesso sia per passeggiare che per fare shopping.

    Quel pomeriggio eravamo andati giusto per acquistare alcune cose per la casa, come tovaglie, asciugamani e roba varia, ma purtroppo io avevo le mie paturnie e, fra le tante cose che vedevo, non riuscivo a scegliere. Avrei voluto lasciar perdere, come di solito faccio in tali circostanze, ma c’era Matteo e non potevo, così ho fatto una violenza a me stessa. Ho fatto quello che mi dice sempre di fare il mio dottore, cioè di espormi alla paura, e mi chiedo se all’origine dell’incubo notturno non ci sia proprio questo.

    La cosa importante è che, contrariamente al passato, ho voluto scrivere tutto sulla mia agenda personale. Mi sono detta che anche questo è un modo per affrontare il problema. Prevale in me, o almeno cerca di trovare un varco nei meandri del mio cervello, la voglia di vivere. Una smania che palpita sotto le paure, sotto i doveri: il dovere di andare in ufficio, di fare la madre, la figlia, la compagna e tutto ciò che è consequenziale. Sarà perché l’età avanza.

    Siamo nel 2000, e nel mese di maggio ho compiuto quarantasette anni, un altro passo avanti verso i fatidici cinquanta. Ma come è possibile? Io che ancora aspetto di vivere la mia gioventù. Tutta colpa del mostro che si è impossessato di me all’età di diciannove anni. Un ragno, un verme schifoso, un tarlo che mi batte in testa e non mi permette di vivere, ma che soprattutto non mi ha permesso di scegliere la vita che avrei voluto vivere.

    E pensare che ero una ragazza serena, con un carattere forte, coraggiosa, non c’era nulla di cui avessi timore. A scuola ero sempre la più brava, ho conseguito la maturità classica con il massimo dei voti e con tanto di complimenti da parte del presidente della commissione d’esame. Le amiche mi volevano tutte un gran bene perché ero simpatica, spiritosa, oltre a essere molto sicura di me stessa. Insomma… andava tutto bene. All’improvviso il cambiamento. All’improvviso è subentrata dentro di me l’angoscia, o per meglio dire un senso di minaccia dai contorni incerti, indefiniti, non individuabile, e questa angoscia, inquietante e costante, mi logora giorno dopo giorno, attimo per attimo, rubandomi la gioia di vivere. Prigioniera dunque di un’entità vaga che mi sorprende quando meno me l’aspetto, anzi proprio sul più bello, quando sto effettuando una scelta, qualunque essa sia, o quando sto prendendo una decisione di per sé innocua e del tutto legittima. È proprio in questi momenti che l’entità vaga smette di essere tale, assumendo le sembianze di un mostro che si diverte ad accanirsi su di me, strizzandomi il cervello, togliendomi il respiro fino a soffocarmi. L’unica via d’uscita – momentanea – è scendere a compromessi con la bestia. Un compromesso che, nella migliore delle ipotesi, si configura in una forma di baratto, rinunciando alla mia scelta originaria per un qualcos’altro che in una situazione normale non sceglierei mai, altrimenti non rimane che la rinuncia totale a ogni mio desiderio, pena il realizzarsi della fantomatica minaccia.

    Un anno fa ho deciso di andare da uno psicologo. Mi sono detta: Proviamoci! perché così non posso andare avanti. A dire il vero, già sei anni fa avevo fatto un primo tentativo con l’analisi, ma la cosa non funzionava e mi ero vista costretta a rinunciarci. L’analista in questione era freudiano e riportava tutto alla figura materna. Io insistevo nel dire che i miei problemi derivavano da mio padre, mentre lui sosteneva che l’opinione che avevo di mio padre, si era formata attraverso il messaggio negativo da parte di mia madre. Non avrebbe potuto dire nulla di più sbagliato. Mia madre non parlava mai male di nostro padre, né a me né a mio fratello. Senz’altro c’erano delle divergenze fra di loro, ma come in ogni coppia che si rispetti. Più volte, soprattutto quando ero piccola, sentivo mia madre rimproverargli la sua poca presenza in famiglia perché troppo preso dalla sua professione di Biologo, come pure gli rimproverava di pretendere troppo da noi figli in fatto di studi, ma, a parte questo, per il resto mia madre non aveva niente da ridire su nostro padre che, a differenza di lei seria e rigorosa, aveva un carattere gioviale. Sapeva essere affettuoso e divertente. Un papà buono che non vedevo l’ora che tornasse dai suoi viaggi di lavoro per stare insieme, anche perché ogni volta che partiva mi assaliva una strana inquietudine che scompariva del tutto al suo ritorno. Sarà stato anche perché la sua presenza riusciva a stemperare l’atmosfera a volte troppo pesante che c’era in casa per via delle rigide regole disciplinari imposte da mia madre. Regole che riguardavano soprattutto me, in quanto femmina. Mentre Guglielmo, pur essendo più piccolo di me, in qualità di maschio, godeva di maggiori libertà. Per questo preferivo la vicinanza di mio padre, con il quale avevo una confidenza che con mia madre non avevo. Tutto questo fino ai miei quindici anni di età. Poi le cose sono cambiate.

    A quel tempo, il mio desiderio più grande era quello di suonare il pianoforte. Sognavo di diventare concertista. Una passione stimolata proprio da mio padre che mi aveva insegnato ad ascoltare la musica classica fin da piccola. A dieci anni conoscevo perfettamente le nove sinfonie di Beethoven, le quattro stagioni di Vivaldi e poi Mendelssohn e Bruck. Mio padre era felice che condividessi la sua stessa passione, ma non credeva nelle mie capacità musicali, non sfiorandolo minimamente il pensiero di mettermi alla prova. Amavo anche il disegno e la pittura. In quinta elementare avevo dipinto degli acquerelli: una marina e un lago fra due colline, suscitando l’entusiasmo della maestra che aveva voluto parlare con mia madre per dirle che avevo un grande talento artistico.

    Ma, nonostante questo, mio padre si ostinava nel non voler prendere sul serio queste mie passioni che, tutt’al più secondo lui, avrei potuto coltivare come hobby, nei momenti di libertà dalla mia futura professione di Ricercatrice sua pari. Eh sì! Lui aveva già deciso il nostro futuro. Entrambi, sia io che Guglielmo, avremmo dovuto seguire la sua professione di Biologo ricercatore in campo medico. Amava così tanto la sua professione! Con una dedizione assoluta, scosso da una grande spinta verso la vita, pervaso da una profonda fede nella scienza e nelle proprie capacità. Quelle stesse capacità che pretendeva avessimo anche noi figli.

    Tuttavia mia madre, sfidando la sua collera, si era informata per iscrivermi al Conservatorio. Dopo la licenza media avrei dovuto fare un esame per vedere se avevo musicalità. Se fossi stata bocciata avrei perso un anno di studio e, quando fu il momento di decidere, non ebbi il coraggio di andare contro la volontà di mio padre. Non sopportavo di discutere con lui. Così, rinunciando per sempre al mio sogno di diventare concertista, mi ero iscritta al quarto ginnasio con la prospettiva di dover scegliere all’Università il corso di Biologia. Una strada tutta in salita per me, in quanto troppo lontana dalla mia forma mentale, al contrario di mio fratello che ha ereditato appieno le stesse inclinazioni paterne.

    DUE

    Oggi, tredici agosto, sono riuscita a fare il bagno in mare con l’acqua fino alla gola: un evento straordinario per me dal momento che l’acqua mi dà un senso di soffocamento, ma stranamente questa mattina ero molto rilassata.

    Stiamo andando presto la mattina in spiaggia. Il mare è romantico a quell’ora, quando intorno non c’è anima viva e si ode solo il fruscio sommesso delle onde che risalgono verso la riva, anche se poi è più bello pensarlo che viverlo, perché, quando sono lì, il mare neanche lo guardo, i miei pensieri non hanno nulla di straordinario e i nostri discorsi sono fatti più di silenzi che di parole.

    Quest’anno sto cercando di fare la brava, ossia di non discutere, anche se ci sarebbe molto da discutere in certi momenti, come oggi a mezzogiorno mentre tornavamo a casa dalla spiaggia.

    Di punto in bianco Matteo se ne è uscito dicendomi: «Quest’anno ancora non abbiamo discusso, come mai? Perché prima di partire ti ho detto che non ne avevo nessuna voglia?». Mi ha così irritata quella frase! Pensa che esista solo lui.

    Il padre padrone: lui parla e io obbedisco. Non pensa che potrebbe essere una scelta anche mia, che sono stanca di discutere in continuazione, come l’anno scorso che a fine vacanza ero letteralmente isterica per i continui litigi. Così, quando siamo stati in prossimità di casa, all’improvviso, senza dirgli una parola, me ne sono andata per i fatti miei, proseguendo sul lungomare fino al porto.

    Mentre camminavo mi ha telefonato Ludovica per dirmi che era appena rientrata a Roma insieme a Stefano, il fidanzato, dalla vacanza in Svezia.

    Sono contenta che viaggino, che conoscano il mondo, che si divertano, anche se per me ogni loro viaggio è motivo di grande ansia che, naturalmente, cerco in tutti i modi di non mostrare.

    Faccio i salti mortali per dare a mia figlia l’immagine di una madre serena. Credo di riuscire nel mio intento, ma chi lo sa quanto sia vera questa cosa!

    Comunque sono felicissima di sapere che finalmente è a casa.

    Chiacchierando con lei al telefono sono arrivata alla spiaggetta del porto e, dopo averla salutata, sono rimasta a guardare il mare di un verde smeraldo bellissimo, perdendomi nella suggestione del panorama circostante. La piccola spiaggia, infatti, si trova proprio sotto Torre Fico, la torre costiera che si eleva sul promontorio del Circeo. Sarei rimasta ancora a godermi quell’attimo di pace, ma per quieto vivere mi premeva tornare a casa.

    Appena rientrata, Matteo mi ha chiesto se volessi andare a cena fuori questa sera. Non avrei voluto dargli soddisfazione, ma ero così contenta di aver parlato con Ludovica che ho subito risposto di sì, anche perché mi sono voluta illudere che fosse un modo per chiedermi scusa per la frase antipatica che mi aveva rivolto mentre tornavamo dalla spiaggia.

    Siamo andati a cena da Candido nella frazione di San Vito. È una trattoria semplice, a me piace chiamarla locanda, sarà perché c’è un’atmosfera d’altri tempi e il tipo di cucina è molto tradizionale, ma soprattutto ci sono molto affezionata perché è proprio qui che Matteo e io abbiamo cenato insieme la nostra prima volta.

    Quel giorno, primo sabato di marzo, era una giornata bellissima, preludio di primavera. Matteo era venuto a prendermi all’uscita dallo studio legale dove lavoravo e tuttora lavoro. Ci conoscevamo da un paio di mesi. Fino a quel giorno ci eravamo visti spesso, ma solo per prendere un caffè insieme a metà mattinata, oppure la sera, dopo il lavoro, per un aperitivo in un bar nei pressi dello studio, su viale Trastevere. All’epoca, lo studio era aperto anche il sabato fino alle quattordici, e Matteo era venuto a prendermi proponendomi di fare una corsa al Circeo dove lui aveva casa, ma io avevo risposto che non potevo.

    «Devo andare a prendere mia figlia a casa dei miei genitori, altrimenti chi lo sente mio padre.»

    «Ma non possiamo perderci un pomeriggio così! Se ci sbrighiamo facciamo in tempo a vedere il tramonto sul mare, dalla spiaggetta del porto.» Quella frase mi aveva fatto sussultare. Che bello il tramonto sul mare! Quanto tempo era che non facevo più una cosa del genere! Di corsa ero risalita nella mia stanza per telefonare a mia madre. Mia madre sapeva di Matteo e stranamente era dalla mia parte, per cui mi aveva assicurato che con mio padre se la sarebbe vista lei. Quanto a Ludovica, l’avrebbe portata alle giostre vicino casa, insieme a una sua amichetta che abitava nel villino adiacente al nostro. Le avevo assicurato che sarei rientrata prima di cena ma, una volta giunti al Circeo, Matteo mi aveva invitato a casa sua. Una villetta che fa parte di un comprensorio attraversato da una via breve e non tanto larga, costeggiata da alberi di Bougainville. Alla fine di questa via c’è un tunnel pedonale, basso ma abbastanza largo, che porta direttamente sulla spiaggia.

    La villetta è a due piani. Il tramonto l’abbiamo visto dal balcone della camera da letto. È stato lì che, mentre il sole scendeva all’orizzonte e le onde del mare si infrangevano sulla scogliera, Matteo mi ha dato il primo bacio. Un bacio lungo, appassionato e accorato, come di chi è stanco e finalmente ha trovato il suo porto.

    Saremmo dovuti ripartire subito, ma Matteo aveva tanto insistito per rimanere a cena! E così eravamo andati da Candido. Una volta tornata a casa, ero ancora sulla porta quando mio padre mi rifilò – per la prima volta in tutta la mia vita – una sonora sberla. Un gesto a tradimento, che in un attimo aveva cancellato tutta la dolcezza di quel pomeriggio così insolito per me.

    Ero divorziata da mio marito da sei anni, sei anni che conoscevo solo il tragitto casa ufficio-ufficio casa, con l’unica variante della spesa al supermercato.

    Gli unici momenti belli erano le passeggiate con mia figlia al parco o alle giostre. Non pensavo assolutamente a rifarmi una vita, anche perché come avrei potuto con tutte le difficoltà che mi creava mio padre? Non faceva altro che ripetermi con il dito alzato: «Ricordati che hai una figlia a cui devi dare il buon esempio!». Inoltre aveva preso le distanze. Non aveva piacere che nei fine settimana mia figlia e io ci fermassimo a dormire a casa loro, soprattutto se dicevo di voler uscire con un’amica, figuriamoci quando all’orizzonte è apparso Matteo. Fortunatamente, almeno in quella circostanza, potevo contare sulla complicità di mia madre, pur essendole molto difficile fronteggiare l’ostilità di mio padre che nel corso del tempo aumentava sempre più. Finché otto anni fa, mio padre ha deciso di uscire di scena sparendo nel nulla. Unica traccia un biglietto che mia madre – rientrando a casa una sera di fine ottobre – aveva trovato in camera da letto sul comò. Sul biglietto c’erano scritte tre frasi, semplici e perentorie: Me ne vado. Non cercarmi, sarebbe inutile. Nessun accenno a noi figli, come se non fossimo mai esistiti. Nessun accenno a Ludovica, la sua adorata nipotina. Mia madre stentava a credere che fosse vero.

    Era arrivata perfino a dire che non era la scrittura di mio padre, che probabilmente si trattava di un pessimo scherzo, ma da parte di chi? Di corsa aveva telefonato sia a me che a mio fratello. Immediatamente io mi ero precipitata a casa sua, insieme a Ludovica e Matteo, mentre Guglielmo, che all’epoca viveva a Torino già da circa cinque anni, avrebbe preso la mattina seguente il primo aereo per Roma.

    Tutti insieme, in preda a uno stupore talmente grande da lasciarci completamente attoniti, avevamo aperto l’armadio, il comò, i cassetti della scrivania, per renderci conto di ciò che poteva essere effettivamente accaduto. Mancava il suo borsone da viaggio insieme a poca biancheria, un pigiama, due camicie, un paio di pantaloni, una giacca e il cappotto. Poche cose, ma sufficienti a confermare quanto aveva scritto nel biglietto. Mio padre se n’era andato. Ci aveva lasciato. Inaspettatamente, inspiegabilmente. Nei giorni e nei mesi precedenti non era accaduto nulla che potesse giustificare un gesto del genere. Mia madre aveva telefonato agli amici che di solito frequentavano ma nessuno sapeva nulla, e tutti rimanevano sbigottiti nell’apprendere ciò che era accaduto. Naturalmente quella notte nessuno di noi era riuscito a dormire.

    L’indomani mattina, all’arrivo di mio fratello, eravamo andati di corsa al laboratorio di ricerca dell’Università. Quello era il suo posto di lavoro, non potevano non avere sue notizie, ma con grande sorpresa ci avevano informato che mio padre, già tre mesi prima, aveva chiesto il trasferimento a un’altra Università e che di più non potevano dirci non essendone autorizzati.

    Tre mesi prima! Dunque la fuga non era stata improvvisa, ma meditata, pianificata con estrema freddezza e indifferenza nei nostri confronti! Ma perché? C’era di mezzo un’altra donna? Ipotesi assurda per mia madre e anche per noi figli. L’unica ipotesi plausibile, secondo mia madre, era che potesse aver scoperto di essere affetto da un male incurabile. Sentendosi condannato, conoscendo il suo orgoglio, aveva preferito allontanarsi pur di non chiedere aiuto, pur di non farsi commiserare o di dare fastidio. In effetti era l’ipotesi più credibile.

    Ludovica ne era rimasta straziata, pensando che non avrebbe più rivisto il nonno, e piangendo si rimproverava di non essergli stata più vicina di quanto non lo fosse stata, e guardava me sperando in un mio abbraccio amorevole e consolatorio, mentre io ero rimasta impassibile, percorsa da una totale assenza di sentimenti. Ero troppo arrabbiata con mio padre per provare dolore per la sua fuga improvvisa e per una sua ipotetica malattia, ma quell’assenza di dolore mi faceva soffrire ancor più di quanto avrei sofferto se fossi riuscita a piangerlo.

    Alla fine ce l’avevo fatta ad abbracciare mia figlia, ma ancora adesso penso di non essere stata capace, in quel momento, di trasmetterle alcun conforto. Ludovica era riuscita a stabilire con il nonno un rapporto molto speciale di cui ero felicissima e che le invidiavo. E pensare che fino all’età di quindici anni anche io avevo avuto con mio padre un rapporto bellissimo, esclusivo addirittura, fatto di amore e complicità.

    Quand’ero piccola, la sera andavo a letto che lui non era ancora rientrato dal lavoro, ma sapevo che, appena arrivato, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata quella di aprire piano piano la porta della mia stanza per guardarmi dormire, dall’uscio, senza avvicinarsi, per timore di svegliarmi. Io, in realtà, aspettavo proprio quel momento per addormentarmi, e da sotto le coperte gli mandavo un bacio senza che lui potesse vederlo. Una sera, quando come al solito aveva aperto la porta per guardarmi dormire, ero saltata sul letto battendo le mani, pensando di fargli una sorpresa. Mio padre mi aveva abbracciato forte forte chiedendomi scusa, credendo di essere stato lui a svegliarmi. Io mi ero affrettata a rassicurarlo che ero già sveglia e che pertanto non aveva nessuna colpa, per

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