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Pillole - Un romanzo con controindicazioni
Pillole - Un romanzo con controindicazioni
Pillole - Un romanzo con controindicazioni
E-book223 pagine3 ore

Pillole - Un romanzo con controindicazioni

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Info su questo ebook

Un tentato suicidio, un Santo Graal di psicopillole e infine il risveglio in uno strampalato ospedale psichiatrico, le cui brutture diventano per il protagonista lo specchio delle contraddizioni della società contemporanea, senza dimenticare che, in fin dei conti, “il suicida è qualcuno che, fino all’ultimo, ha immaginato un finale diverso”
di Michela R.
In un appartamento al dodicesimo piano di un palazzo color marrone, un uomo tenta il suicidio ingurgitando un intero Santo Graal di psicopillole. Lo fa perchè vede la sua vita come un susseguirsi di fallimenti: vive solo dopo che tutte le sue storie sono naufragate; lavora in una copisteria gestita da un pedofilo polacco; da anni è in cura, senza successo, da una psicologa freudiana; è dipendente dal provocare risse nei bar. Qualcosa non va per il verso giusto, però, perché si risveglia all’interno di una struttura psichiatrica. Le brutture e le contraddizioni di quel luogo diventano per lui lo specchio della contemporaneità tutta: una società fatta di hashtag selvaggi e selfie strategici, in cui il benessere passa attraverso l’assunzione di psicopillole, programmi per assopire la coscienza e filosofie orientali a buon mercato.
Scritto con un fine umorismo che lo accomuna a “Piccoli suicidi tra amici”, di Arto Paasilinna, il testo accompagna il lettore verso la sua sorprendente conclusione, perché, in fin dei conti, “il suicida è qualcuno che, fino all’ultimo, ha immaginato un finale diverso”.
LinguaItaliano
Data di uscita27 lug 2020
ISBN9788833284507
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    Anteprima del libro

    Pillole - Un romanzo con controindicazioni - Michela R.

    Copertina

    1.

    «È un animale da palcoscenico!» urla il presentatore alla TV.

    Un ragazzo di vent’anni, in jeans neri attillati, ondeggia come un ubriaco in stazione mentre scandisce sul basso il ritmo di una canzone dark punk.

    Ragazze, sguardo vuoto e calze a rete, ciondolano la testa a tempo. Mostrano con orgoglio braccia rachitiche con tagli di lametta orizzontali.

    Dilettanti.

    Si slacciano i reggiseni e li lanciano sul palco. Paracadute sgargianti che, in caduta libera come le donne a cui appartengono, si schiantano ai piedi del bassista.

    Deve essere questo il bello della fama: le ragazze si tolgono il reggiseno da sole.

    E tu non devi stare a lottare con quei maledetti gancetti.

    Tu, a vent’anni, avevi slacciato solo tre reggiseni.

    Di cui uno di tua madre.

    Avresti dovuto suonare il basso e non l’ukulele.

    Ultimo accordo. Il pubblico esplode in un applauso.

    Una ragazza alza la maglietta che, come un sipario, mostra gli attori in scena. Due enormi capezzoli turgidi.

    Il cameraman indugia sulle due areole rosa. I genitori, nella sala da pranzo, dall’altra parte del tubo catodico, di certo stanno gridando con orgoglio: «È nostra figlia!»

    Il presentatore premia il ragazzo con una statuetta dorata: una graziosa dea greca che innalza una grande vagina.

    Le dà la carica e la vagina si apre e si chiude spasmodicamente.

    L’uomo ride di gusto.

    Il ragazzo, sguardo smorto, tasso alcolemico imbarazzante, afferra il premio e lo getta a terra con furia. La statuetta va in mille pezzi.

    La vagina si stacca dalle mani della dea e saltella in giro, affamata.

    Come solo certe vagine sanno fare.

    «Siamo i Death Pain e odiamo la vita!» sbraita il ragazzo, fissando con disprezzo il presentatore.

    Tu sei seduto sulla poltrona del tuo salotto.

    Al dodicesimo piano di un palazzo color marrone.

    E decidi che è giunto il momento di farla finita.

    ***

    Eccola, l’ultima polaroid della tua vita: seduto al tavolo a fissare il calice smerigliato, trafugato dalla vetrinetta del soggiorno.

    La proprietaria di casa ti aveva proibito di aprirla.

    Rivedi le sue labbra rugose schiudersi come una vecchia fisarmonica polverosa, soffocate da un rossetto rosa-aranciato.

    «Ci sono cose preziose, qui dentro», aveva detto, indicando, con plateale gesto della mano, posate simil argento e bicchieri simil cristallo. E un grande calice pacchiano.

    In mezzo a quel ciarpame avevi notato anche una scatoletta di legno intagliato e, quando avevi chiesto cosa contenesse, avevi visto il suo viso rugoso illuminarsi come quello di una tartaruga rischiarata dalla luce di una torcia.

    Aveva aperto la vetrinetta e con orgoglio ti aveva mostrato che conteneva una scheggia di legno.

    «È un pezzo della croce di Cristo», aveva detto.

    Comprato al mercato rionale.

    Certo.

    La vecchia aveva annusato il tuo facile scetticismo.

    Con fare brusco aveva richiuso la vetrinetta. E ti aveva intimato di starne lontano puntandoti contro il suo indice ricurvo.

    Tu, oggi, disobbedisci.

    Un piccolo gesto di ribellione in una vita di Sissignóre.

    Ed eccolo qui, il tuo personalissimo Santo Graal.

    Da mezz’ora lo osservi immobile, come quando, da bambino, fissavi il piatto con la cena e non ne volevi sapere di finirlo: lo sguardo severo di tuo padre alla tua destra, quello compassionevole di tua madre alla tua sinistra e lo stridio della forchetta sulla porcellana dai ghirigori bluastri.

    Conta le pasticche e mettile nel calice.

    ***

    Prozac.

    Principio attivo: fluoxetina cloridrato. Antidepressivo.

    Sette pasticche.

    Ottima scelta.

    Quattro milioni di persone non possono certo sbagliarsi. Perché questo è il numero di individui che ne fa un uso quotidiano.

    Guardali ingurgitare, giorno dopo giorno, la loro dose di felicità formato tascabile.

    Sai come funziona?

    Il farmaco aumenta la concentrazione di serotonina nei neuroni.

    Una semplice pillola spazza via secoli di inutili disquisizioni filosofiche.

    Cos’è la felicità? Niente più che un ormone.

    La gente segue tre lezioni di yoga alla settimana, da incastrare tra sedute di psicoterapia e corsi di ballo latino americano, quando basterebbe rivolgersi alla chimica.

    Facile, immediata, indolore.

    Di certo non come il ballo latino americano.

    Pensa a quando eri un bambino. Il bambino più triste della storia.

    I tuoi genitori incolpavano te, gli psicologi i tuoi genitori.

    Uno scaricabarile infinito.

    Quando sarebbe bastata una semplice pillola.

    Vuoi sapere una cosa divertente?

    Sembra che il Prozac sia stato scoperto casualmente, proprio come il Viagra.

    Non fingere di non conoscerlo. Sono le pillole blu nascoste nell’armadietto del bagno tra aspirina e schiuma da barba alla menta.

    Bene, pare che il Viagra sia stato scoperto mentre gli scienziati cercavano di creare un farmaco contro l’ipertensione e l’angina pectoris.

    E alla fine, a chi interessa curare l’infarto se si può avere una gloriosa erezione, dico bene?

    Nel fondo del calice ora ci sono sette pillole di Prozac.

    Sette pasticche metterebbero k.o. un cavallo. Un cavallo molto felice, però.

    Sette, come le volte che hai detto a Vanessa che la amavi.

    Sette volte in sette mesi.

    Una buona media.

    Vanessa è il Prozac.

    Una felicità facile, a portata di mano.

    Un paradiso artificiale comandato da un dio sintetico.

    Sette pasticche, una per ogni lettera del suo nome.

    ***

    Xanax.

    Principio attivo: alprazolam. Ansiolitico. Otto pillole.

    È la tua prima volta con lo Xanax.

    Tua sorella, invece, ne fa un uso smodato: dice che è per colpa del marito che la tradisce con la segretaria.

    Sarebbe più coerente lasciarlo che imbottirsi di alprazolam, ma il comportamento delle donne ha molto poco a che vedere con la logica e questo, ormai, ti è chiaro.

    Lasciatelo dire, la tua famiglia è un miscuglio esplosivo di psicofarmaci e cliché.

    A differenza di te, tua sorella era una bambina con grandi ambizioni, di quelle che fanno un rumore assordante quando, in età adulta, si rompono in mille pezzi.

    La ricordi in versione codine e gonna a fiori?

    Lei era quella che, in un mondo di aspiranti ballerine, si preoccupava di escogitare un piano per fuggire da un mondo con scarsità di energie rinnovabili: avrebbe lasciato il Pianeta Blu a bordo della sua navicella e da distanze siderali avrebbe osservato le patetiche donnette danzare in tutù tra le macerie di un pianeta in distruzione.

    Qualcosa, negli anni, deve essere andato per il verso sbagliato, perché gironzola ancora sulla Terra e le uniche macerie che osserva sono quelle del suo matrimonio.

    Quando le hai chiesto qualche pillola, si è raccomandata di non esagerare con le dosi. Scommetto che se ti vedesse in questo momento sarebbe decisamente alterata. E ti fisserebbe con quell’espressione di odio e ribrezzo che spesso appare sul suo viso. Come quella volta che l’avevi sorpresa in bagno a tagliuzzarsi una coscia con una lametta con la precisione di un cardiochirurgo.

    Eri rimasto immobile sulla porta, incantato dal luccichio della lametta e dai rivoli di sangue che scorrevano sul suo polpaccio.

    Chi avrebbe mai potuto sospettare che tua sorella fosse un’autolesionista? Miss Perfezione pagava lo scotto di essere sempre sotto i riflettori. Miss Perfezione non era, alla fine, così perfetta.

    «Lo dico a mamma!» avevi urlato, con la perfidia tipica dei ragazzini.

    Finalmente avresti potuto provare di non essere l’unico disagiato in famiglia.

    Quando, però – petto in fuori e sguardo fiero – eri andato a spifferare tutto a tua madre, lei aveva fatto quello che le era sempre riuscito meglio: far finta di nulla.

    Aveva sospirato con rassegnazione, con il suo fare da cattolica indolente. Poi, come per distrazione, aveva rivolto lo sguardo alle sue unghie blu elettrico, fresche di estetista e cattivo gusto. All’improvviso aveva notato con orrore una profonda e antiestetica crepa nel blu. Era rimasta immobile, quasi ipnotizzata da quel fulmine che correva zigzagando sul piccolo specchio color oltremare. E in quel preciso momento la vita le era apparsa vuota e terribilmente imperfetta.

    Ripresasi dal suo stato di trance, aveva detto, laconica: «C’è il polpettone per cena.»

    Quella sera, davanti a un triste piatto di carne pressata, nessuno aveva parlato. Tua madre sguardo fisso sull’unghia imperfetta, tuo padre sulla pagina sportiva di un quotidiano locale, tua sorella occhi puntati su di te e tu sul piatto.

    Tua sorella non ti aveva rivolto la parola per mesi. E non perché avevi spifferato tutto, ma perché le avevi reso evidente quello che in cuor suo sapeva già. Che a vostra madre non importava nulla dei suoi problemi.

    Se ti vedesse ingurgitare tutte le pillole, oggi ti odierebbe come allora.

    E l’immagine di tua sorella che ti fissa con il suo sguardo di disprezzo si insedia nella tua mente.

    Guardala scuotere la testa in segno di disapprovazione mentre versi nel Santo Graal le sue pillole di ansiolitico.

    Ve ne state seduti uno di fronte all’altra, mentre tu, nel tuo sogno lucido, inizi a ingoiare i tuoi lasciapassare formato tascabile per l’inferno.

    E allora la immagini sciogliersi in un pianto dirotto e liberatorio. Lacrime e muco straripano dagli argini e, come un fiume in piena, travolgono i lineamenti del suo viso.

    Atto finale. Ultima scena.

    Tu, prossimo a morire tra le sue braccia, le strappi un’ultima promessa perché, almeno nell’immaginazione, ti riservi la parte dell’eroe romantico.

    Lei ti promette che sistemerà la sua vita e che smetterà con gli psicofarmaci. E lo fa perché ai moribondi non si nega mai nulla.

    Con le tue ultime forze ricordale però di smettere lentamente, per via dell’effetto rimbalzo.

    Il segreto, per uscirne puliti, è diminuire la dose gradualmente. Disintossicarsi giorno dopo giorno.

    Come quando sei stato lasciato da Veronica.

    Veronica è lo Xanax: lei ha lasciato te in estate, tu lei in autunno.

    ***

    Ziprasidone Teva.

    Principio attivo: ziprasidone cloridrato monoidrato. Antipsicotico. Sei pillole.

    E così ti sei procurato un antipsicotico utilizzato nel trattamento del disturbo bipolare.

    Un buon motivo per frequentare Diego, non trovi?

    Quando chiedi a Diego come ci si sente ad avere la sua malattia, lui risponde che è come stare sull’altalena: si va su e si va giù.

    Tu odi le altalene. Da sempre.

    Pensi siano un gioco diseducativo: ti lasciano credere ci sia qualcuno disposto a spingerti con tutta la forza che ha in corpo perché tu possa arrivare il più in alto possibile e pronto a riprenderti quando tornerai, miseramente, indietro.

    Dovrebbero vietarle.

    Anche Diego è d’accordo: a volte sì, a volte no, per la verità.

    Dipende dai giorni.

    Diego dice di avere una ragazza dai capelli nero corvino, con un occhio marrone e uno verde. E che guarda quello marrone quando è triste, quello verde quando è felice.

    La ragazza perfetta per un bipolare, no?

    Tu sai che il problema principale della loro relazione è che lei non ne sa nulla.

    I dottori la definiscono Sindrome di de Clerambault, e se ci sono di mezzo i francesi, stai pur certo che si tratta di amore malato o di un formaggio costosissimo.

    Povero Diego, che passa dalle vette più alte del monte euforia agli abissi più profondi del mare della disperazione in una manciata di ore.

    Povero Diego, che non si alza dal letto per giorni e non si lava fino a quando un odore selvatico impregna tutta la stanza.

    Povero Diego, che dopo mesi di letargica apatia si sveglia, si annega in un profumo a buon mercato ed esce di casa, esaltato e in preda a deliri di onnipotenza. L’ultima volta lo hanno trovato alle tre di notte sul tetto di un palazzo, ubriaco e completamente nudo.

    Urlava di essere il messia, ma, nonostante la barba lunga e una buona dialettica, nessuno gli aveva creduto.

    Povero Diego, che funziona come un interruttore: o spento o acceso.

    Solo imbottirsi di farmaci lo salva dai terribili sali e scendi del suo umore ballerino.

    Non ti deve essere stato difficile prendere alcune pillole dalla sua scatola di scorta. Sai che Diego la tiene nel comodino, nascosta sotto le foto della sua ragazza eterocromatica, una pila ordinata di venti polaroid, venti istantanee sfocate, in cui lei non fissa mai l’obiettivo, ma guarda sempre altrove.

    La si può vedere sorseggiare distrattamente il suo caffè mattutino in un bar, pedalare al parco, gambe al vento e pensieri in aria, o esplodere in una risata cristallina davanti a un bicchiere di rosso in una brasserie del centro.

    Venti polaroid che testimoniano l’amore di Diego; un amore a distanza per una donna di cui non conosce neppure il nome.

    Da quando prende le sue pillole, però, Diego dice di sentirsi meglio. Forse un giorno avrà il coraggio di presentarsi alla donna che ama in segreto. E invitarla nel locale francese che lei ama tanto. Magari anche lei si innamorerà di lui quando, davanti a un coteaux-de-chalosse, lui rovescerà le polaroid sul tavolo. E davanti a quella cascata di venti istantanee sfocate, lei, occhi lucidi per il vino e la commozione, abbraccerà quell’uomo che la amava ancor prima di conoscerla.

    O, più probabilmente, lo denuncerà per stalking.

    Quello che forse Diego non immaginava del farmaco che prende per evitare le sue montagne russe emotive è la serie di importanti controindicazioni.

    Mesi fa il suo cuore fu vicino a cedere a causa di una torsione di punta.

    Respiro corto, elettrocardiogramma impazzito, carica 200. Povero Diego, che saltava come un salmone spiaggiato su un lettino d’ospedale mentre la carica elettrica cercava di fargli ripartire il cuore. Lo hanno salvato appena in tempo.

    A Diego, però, non importa che il suo cuore si fermi. Continuerà la terapia per il suo amore eterocromatico, perché, come dice lui, un bipolare, quando ama, ama per due.

    Ziprasidone, sei pasticche, dritte dritte nel calice, sopra lo strato di Prozac e Xanax.

    Lo Ziprasidone è la tua Sophia: non ti ha ucciso, ma ci è andata maledettamente vicino.

    ***

    Ritalin.

    Principio attivo: metilfenidato cloridrato. Stimolante. Sei pasticche.

    Hai tra le mani una pillola bianca con la scritta CIBA.

    Significa che stai maneggiando del Ritalin.

    Ricordi quando ne hai sentito parlare per la prima volta?

    Se stai pensando al tuo compagno di giochi di quando eri bambino, sei sulla strada giusta.

    A sei anni gli era stata diagnosticata la sindrome da deficit di attenzione: una gran fortuna, perché in giro si diceva fosse solo un gran coglione.

    Una sindrome fa guadagnare rispetto sociale. Infatti la madre, dopo che le avevano comunicato che il figlio aveva una malattia, per giunta una che andava per la maggiore in America, aveva smesso di aggirarsi per il vicinato a testa bassa.

    Se ne andava in giro tronfia, con il suo lasciapassare sociale sottobraccio. E si fermava a parlare amabilmente con i vicini fuori dalla chiesa dopo la funzione domenicale; esponeva la diagnosi non lesinando particolari e rispondeva con prontezza alla curiosità della gente.

    Oppure sfrecciava per le strade a bordo della sua macchina sul cui lunotto posteriore aveva piazzato, in bella mostra, uno sgargiante adesivo con la scritta iperattivo a bordo.

    Ogni volta che si fermava al semaforo dava gas per attirare l’attenzione, perché tutti dovevano sapere che lei aveva un bambino speciale, ma, soprattutto, che lei era una madre speciale.

    E mentre aspettava che il rosso virasse al verde, la sua fantasia vagava.

    Immaginava che la città organizzasse una raccolta fondi per il suo bambino, con il beneplacito del sindaco che sarebbe stato addirittura presente con la sua fascia tricolore. Magari il tutto si sarebbe svolto durante un piccolo party a base di tartine, ostriche e champagne; niente di pretenzioso, certo, quel tanto che sarebbe bastato per consentirle di sfoggiare il tailleur grigio

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