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I silenzi di Roma: La prima indagine dell'ispettore Proietti
I silenzi di Roma: La prima indagine dell'ispettore Proietti
I silenzi di Roma: La prima indagine dell'ispettore Proietti
E-book230 pagine3 ore

I silenzi di Roma: La prima indagine dell'ispettore Proietti

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Info su questo ebook

Ernesto vive un rapporto ormai logoro con la moglie depressa, il suo taxi è teatro di storie che si intrecciano a un delitto nella Roma "bene". La vittima è uno scultore di fama internazionale, pochissimi avevano accesso all’appartamento dove viene ritrovato cadavere e nessuno ha un movente valido per torturarlo a morte.L’ispettore Paolo Proietti, a capo dell’indagine, intuisce che sta per sollevare un verminaio. La verità lo lascerà schifato, esausto e fragile come mai un poliziotto dovrebbe sentirsi. É un malessere che conosce fin troppo bene, lo rivive negli incubi che lo angosciano a quattordici anni di distanza da un caso in cui si è lasciato coinvolgere troppo. Ernesto e Paolo sono fratelli senza un filamento di DNA in comune, condividono tutto fin dal giorno in cui si sono incontrati sui banchi delle scuole superiori. Tutto, tranne un segreto che ciascuno nasconde all’altro: il poliziotto per non giocarsi il distintivo, il tassista perché è impossibile confessare al suo amico cosa lo torturi da giorni. Il silenzio viaggia nel mondo degli artisti malati, viziati e viziosi, e in quello dei ricordi che fanno male da morire, nella paura di non essere più abbastanza o di non averci provato a sufficienza, protegge i mostri e offende gli innocenti. Si spezzerà, poi, nella voce di una giustizia sommaria che non regala pace o reale assoluzione dai peccati, ma dignità a quanti sono costretti a macchiarsi le mani di sangue.

Luana Troncanetti è nata e vive a Roma. Ama spaziare dalla scrittura ironica al noir.

Pubblicazioni:
Dal 2010 a oggi ha partecipato a numerose raccolte per Giulio Perrone, contribuito all’antologia Hai voluto la carrozzina? per Fabbri Editori, scritto umorismo per Comix, Homo Scrivens e Cento Autori. Fra le sue opere su Amazon, figurano due raccolte di racconti brevi: Gabbie e Agrodolce (già pubblicato nel 2016 da L’Erudita - Giulio Perrone editore). E’ fra gli scrittori che hanno collaborato alla Staffetta Letteraria Bimed 2017/2018, un meraviglioso progetto di narrazione collettiva che coinvolge studenti di ogni ordine e grado in storie scritte a più mani. Aprile 2018 - OFF viene pubblicato nell’antologia Delitti al Thriller Cafè - I Buoni Cugini editori (introduzione di Romano De Marco - partecipazione di Piergiorgio Pulixi). Maggio 2018 - Partecipa all’antologia Attesa frammenti di pensiero - Homo Scrivens (a cura di Brunella Caputo) con il racconto breve Bella a metà.

Riconoscimenti letterari:
Silenzio, romanzo auto pubblicato tramite Amazon, nel 2017 vince il Premio Internazionale Amarganta. Nel 2018 ottiene una menzione d’onore al Premio Residenze Gregoriane e vince il Premio Garfagnana in giallo - sezione Nero digitale. Nel 2019 viene selezionato al Premio Alberoandronico. Finalista al Premio Corti e brevi (2016) e al Fabrizio Canciani (2015), ha vinto il Tifeo Web Narrativa on line (2009), il Premio Massimo Troisi - Sezione scrittura comica (2009) e il Donna sopra le Righe con Carmen (2016). Sempre nel 2016, Carmen riceve una menzione d'encomio al Premio Internazionale Michelangelo Buonarroti e arriva, nel 2017, fra i venticinque finalisti del Premio Zeno. Nel 2018 il racconto OFF - terzo al Fabrizio Canciani nel 2017 - vince il Concorso Thriller Cafè. Nel 2018 il racconto Il gatto che non è proprio mio riceve una menzione d’onore al Premio Letterario La Tridacna e risulta fra le migliori quattro opere (non vincitrici) al Premio Cavallari di Pizzoli. Nel 2018 Il racconto breve Adalet rientra fra le migliori 17 opere in gara al Concorso Caffè Letterario Moak e fra i 25 finalisti al Premio Zeno.
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2019
ISBN9788869433504
I silenzi di Roma: La prima indagine dell'ispettore Proietti

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    Anteprima del libro

    I silenzi di Roma - Luana Troncanetti

    I

    Fuochi d’artificio

    Il dolore ti infila in una pelle diversa, ti riveste di volti sconosciuti, scolpisce lineamenti estranei finché non ti smarrisci in un’immagine oscura. Diventi così un’ombra, qualcosa di mostruoso che ti fissa al di là dello specchio. Segui le pieghe della tua nuova faccia con le dita appena tremanti, senza porti domande.

    A questo ti porta il dolore.

    Devi provarne molto, ora. Tutto il dolore possibile, quello che sega in due il respiro e ti fa implorare la morte. Lo senti? Lo senti quanto fa male, bastardo?

    L’ombra incide l’osso con ferocia, le cesoie potano ritagli di cattiveria. Non distingue più la sua malvagità da quella della carne viva che sta torturando, è colpa del dolore di entrambi. Preme con più decisione e l’indice salta via, con il pollice è stato meno complicato. Fuochi d’artificio densi di rosso lo sparano in alto per qualche secondo. L’attimo di festa muore subito sul pavimento ma ci sono altre dita, altra sofferenza aspetta entrambi. Non ha fretta, quel dolore, ama andare in scena adagio. È una primadonna che esce per ultima sul palcoscenico, così l’attesa sarà più dolce. Gli applausi più calorosi.

    L’ombra ammira compiaciuta lo spettacolo, sembra un giardiniere che sfronda rami secchi o cerca equilibrio nei tagli di una siepe. Il bastardo piange, instupidito di terrore, supplica pietà in grida confuse che diventano ovatta nel bavaglio e piscio nei pantaloni.

    Il whisky le aggredisce la gola, brucia in una pigra scia di calore e poi scivola dritto nello stomaco. La bottiglia è quasi vuota. Ci vuole alcol per ardere la mostruosità e alimentare il coraggio. Alcol, per ripulire quel marcio e arrestare una fine troppo precoce.

    L’ombra versa il liquore sui moncherini, un urlo debole affianca il suo sorriso. Afferra il lanciafiamme dal tavolo degli attrezzi. Appicca il fuoco con cautela, nei suoi occhi la scintilla di un bimbo sorpreso. Il porco è scosso da un tremito convulso, le palpebre rovesciate all’indietro, le gambe impazzite ballano senza via di fuga.

    Dolore.

    Una falange alla volta, senza nessuna urgenza. Fiotti di sangue e poi fuoco perché la festa non finisca troppo presto.

    La luna china la testa per infilarsi nel seminterrato. È abituata ai fuochi d’artificio, il male passeggia sotto di lei ogni notte. Fissa quell’anima intenta a uccidere, ne è affascinata. Ha appena visto un barbone ammazzato a calci per gioco e una donna stuprata da un branco di animali; assistere a un atto come quello, invece, è una rarità. Non confonde la sua azione con la barbarie, sente una pena insostenibile alleggerirsi a ogni colpo di cesoia. Vuole restare tutto il tempo a tenerle compagnia. Se lo merita.

    Il pezzo di carne non si lamenta più. È solo svenuto, non ha il permesso di morire subito.

    Decido io quando potrai crepare. Io.

    Freddo.

    L’ombra sta battendo forte i denti. È la stanchezza, forse. Paura no, adesso non è lei quella spaventata. Spalanca l’armadietto dei liquori, la sua vista è tornata di nuovo nitida. Ha bisogno di altro whisky per appannare la coscienza.

    Mancano soltanto due dita.

    Peccato.

    Se le gusta con calma. Il maiale è rinvenuto, può godersi ancora la sua sofferenza. L’ultima falange schizza via, lo scrocchio dell’osso spezzato non è più musica adesso. È fine del concerto.

    Riflette. Manca qualcosa, l’opera è incompleta. Cerca una sega, deve essercene una da qualche parte.

    Sì, eccola. Eccola qui. È perfetta, sì. Proprio quella che usi per i tuoi capolavori, porco.

    Gli slaccia in fretta i pantaloni, soffoca un conato di vomito. La puzza di urina si mescola a quella dolciastra del sangue. Amputa l’ultimo pezzo di carne, il più schifoso. Deve trovargli la giusta collocazione. Ondeggia sul suo fantoccio ormai a brandelli, ubriaca di una vendetta che la rende assassina. Afferra quell’ultima porzione di verme, la barriera dei guanti non vince il disgusto. Strappa via il bavaglio, spalanca la bocca dell’uomo e preme con forza. Deve ingoiarlo tutto, riempirsi di sé fino alla gola. Nessuna pietà, lui non ne ha avuta.

    Stacca con calma dai cavalletti i suoi quadri, splendidi dipinti partoriti da mani ormai a pezzi. Non potranno più creare meraviglia, stupore né applausi, le sue dita da artista. Non potranno più generare pena, chissà quante altre volte hanno offeso innocenti con illusioni di grazia aggrappate alla cornice. Oltre la tela, il terrore.

    Li osserva un attimo, quei bellissimi quadri puri nel tratto, perfetti nei colori. Le spiace che si sporchino. Non hanno alcuna colpa, loro. Li dispone per terra con deferenza, ammira in lacrime l’ultimo sfondo a quella notte dannata.

    L’opera non è ancora finita. Afferra un grosso coltello, incide in profondità i polsi dell’uomo. Tendini e muscoli si arrendono subito come soldati senza coraggio. Il sangue si riversa sulle tele, acceca due amanti che si baciano con passione, scivola sul volto pallido di un angelo, accarezza i glutei di un giovane nudo che la fissa voltato di tre quarti.

    Il coltello è un movimento autonomo, la mano si limita ad accompagnare la sua furia. Tagli, ovunque. In ogni centimetro di quel corpo lurido.

    Nausea.

    L’ombra affoga nel bisogno d’aria. Si blocca per riprendere fiato e vede, finalmente, in cosa l’ha trasformata il dolore.

    Cristo, cosa ho fatto! Cosa cazzo ho fatto?

    Nulla, in confronto a quello che ha fatto lui. Nulla, però adesso sta dando di stomaco anche le budella. Il volto dell’angelo è lordo di vomito e rimprovero. Non doveva finire così. Non doveva neppure cominciare, ma a dare inizio all’orrore è stato quel pezzo di carne avariata. Certe cose l’angelo non le sa.

    Scorge un mazzo di carte su un tavolinetto, le passa in rassegna fin quando non trova quella che le interessa. La estrae e la lancia nel fiume scarlatto ai suoi piedi, sfila dal collo il grembiule di plastica e i guanti. Cambia le scarpe e getta quelle inzuppate di sangue in una sacca assieme alle bottiglie vuote di whisky, al cellulare e al tablet del maiale. Controlla di non essersi sporcata troppo. Soltanto una macchia sul bordo dei jeans ma è ancora notte fonda, nessuno se ne accorgerà.

    La luna torna svelta al suo posto, poi si tinge di rosso per rendere omaggio all’ombra. Al contrario dell’angelo ha capito, lei, che il vero assassino è quello massacrato sul tavolo.

    II

    Sogni

    Ernesto sognava di colorare il mondo, da piccolo. Aveva iniziato a spalmare arte sui muri di casa con le gambette ancora infilate nel girello, la madre disperata a corrergli dietro per strappargli di mano qualsiasi oggetto producesse segnacci. Lui inventava vita, con quei segnacci, e non aveva nessuna intenzione di smettere.

    Non la piantò neppure quando suo padre gliene diede così tante da non riuscire a sedersi per tre giorni. Imbrattò due pannelli di cartongesso appoggiati con cura in un angolo del garage; erano state una tentazione troppo forte per lui, dieci anni e una voglia prepotente di riempire spazi vuoti, quelle due tele candide.

    Aveva tirato fuori da un vecchio baule la tavolozza dei colori a olio, miscelato i pigmenti con l’amore di una massaia che rimescola il ragù, intinto il pennello nel rosso cardinale, per primo. Doveva schizzare fuori qualcosa di potente per trovare il coraggio di far seguire tutto il resto: i colori più tenui per increspare l’acqua, il nero per stendere velluto scuro sul cielo e poi il bianco perla, per costellarlo di piccoli respiri di luce.

    Fissò a lungo quel firmamento con la testa reclinata da un lato e la punta della lingua di fuori, gli occhi stretti a fessura e le dita impazienti di proseguire.

    «Le mani e i cavalli in corsa sono le cose più difficili in assoluto da riprodurre. Visto che in casa non hai un cavallo, allora disegna le tue mani. Fallo di continuo, ruota la posizione e fissale attentamente. Sarà complicatissimo, impazzirai perché sono creature capricciose. Quando sul foglio troverai l’esatta copia della tua mano, allora potrai dire che sai disegnare.»

    Questo gli aveva detto un giorno Ciancastorta, uno dei clienti che frequentavano il bar di suo padre. Nessuno sapeva quale fosse il suo vero nome. Era un uomo piccolo e curvo su se stesso, con la faccia immersa in un delirio di capelli ispidi e barba incolta che si baciavano come l’orizzonte e il mare.

    Ordinava sempre un caffè d’orzo in tazza grande e si sedeva a un tavolino da solo. Sembrava disinteressato al mondo che gli scorreva a due passi dagli occhi, ne osservava in realtà tutti i dettagli per scaricare poi il bottino nei suoi quadri.

    Zoppicava vistosamente, si ripiegava rapido sull’anca a ogni passo, come se avesse sempre un insetto noioso a pungergli il fianco destro. Assomigliava ad Einstein, la stessa faccia da pazzo, e con i pennelli ci sapeva fare sul serio. Era un artista straordinario anche se il mondo, distratto da altre occupazioni, non se ne era mai accorto. Però lui se ne fregava. Ciancastorta era ricco sfondato, così raccontavano in giro, l’unico sistema davvero efficace per lenire la sbadataggine del mondo.

    Ernesto trascorreva il pomeriggio nel retrobottega del bar a fare i compiti, quando suo padre non lo metteva di guardia alla planetaria affinché la panna non impazzisse, e a disegnare figure sui tovagliolini di carta. Non se ne accorgeva quasi, la matita passeggiava sul foglio da sola. Fumetti, in linea di massima, adorava quelli di Diabolik. Amava tratteggiare grandi occhi cattivi, vampiri e creature demoniache, donne dalle bocche polpose grondanti di sangue, gatti neri lanciati nel fuoco. Quelli di Ernesto erano disegni il più delle volte spaventosi, lavori indecifrabili spruzzati di rosso.

    Si divertiva anche a schizzare i volti dei clienti seduti ai tavolini: facce sorridenti, serene o tuffate nella fretta della vita, adolescenti che ammiccavano maliziose mentre leccavano il cono, comitive di turisti ingolositi dalla bellezza di Roma e dal gelato di suo padre.

    Era davvero bravo a prepararlo, una lunga tradizione di famiglia. Ernesto lo osservava dosare gli ingredienti con la precisione di un orefice che soppesa frammenti d’oro; tutta roba genuina, non quella porcheria in polvere che ti appioppano nelle altre gelaterie. Sceglieva con amore la frutta più matura, quella carica di gusto, e il cacao pregiato. Lo ordinava sempre dallo stesso fornitore, da anni. Cioccolato di prima qualità e latte freschissimo, non un gradino sotto all’ottimo per i suoi clienti. Sgusciava le uova a due a due con l’abilità di un prestigiatore, rapido come i lampi che squarciano il cielo all’improvviso e non ti accorgi quasi che un attimo dopo è arrivata la pioggia.

    Era bravissimo a preparare il gelato, suo padre. A fare il genitore un po’ meno. «Ma che te sei impazzito, Erne’? E dopo che te metti a fa’? Er madonnaro pe’ strada?». Questa era stata la sua sensibile risposta quando, poco più che dodicenne, gli aveva chiesto se poteva iscriversi al liceo artistico.

    Sì, forse il massimo che avrebbe ottenuto da quegli studi sarebbe stato disegnare madonne sui marciapiedi con i gessetti colorati, a conti fatti suo padre non aveva tutti i torti.

    No, suo padre era sempre nella ragione, soprattutto quando aveva torto. Se la conquistava a suon di sganassoni. Ernesto chinò il capo, appallottolato nel suo dolore. Non tornò mai più sull’argomento, sarebbe stato inutile.

    Aveva la mano da artista: conica, grande e con i pollici molto lunghi. Glielo diceva spesso, quell’uomo con la camicia sporca di sogni visionari, quando correva nel suo studio di nascosto dal padre a mostrargli i suoi disegni. Era bravo, bravissimo. Glielo diceva sempre, Ciancastorta, negli occhi un’eccitazione furiosa davanti al suo piccolo allievo così capace, così sensibile, così talentuoso per i suoi pochi anni. Appena dieci, il suo destino era scritto in quella mano da pittore.

    Però Ernesto non ci ha creduto fino in fondo. La voglia di colorare il mondo gli è passata di colpo, non ricorda di preciso quando. Non sono stati gli schiaffi di suo padre a strappargli via quella passione dall’anima, la colpa è in altro luogo. C’è pudore ad ammettere l’attimo in cui si abbandona se stessi, è una sconfitta che brucia troppo.

    Adesso è fermo a un semaforo. Ha gli occhi incollati su un giocoliere di strada, un ragazzo giovanissimo che lancia in aria la sua vita sorridendo al cielo livido.

    La pioggia arriva rapida a risciacquargli la felicità dal viso.

    Applausi, qualcuno.

    Spiccioli, pochi.

    III

    Fratellanza

    Capelli ricci e lunghi sul collo, barba di due giorni, jeans vissuti molto male, occhiali alla Serpico. Naso aquilino, occhi distanti da serpente, cicatrice sulla guancia sinistra souvenir di uno spacciatore che ha fiutato puzza di poliziotto quando lavorava sotto copertura alla narcotici. Non esiste un dettaglio in lui che possa svelare la sua identità, eppure quell’uomo dall’aria vagamente coatta è l’ispettore capo Proietti della sezione omicidi di Roma. Il questore è troppo scaltro per infastidirlo con cazziatoni sul come si veste. Un cervello in camicia Denim stropicciata vince dieci a uno su un imbecille incravattato. La Omicidi non può permettersi dementi al comando, soprattutto in questo momento.

    Proietti è al telefono, ha i piedi appoggiati sulla scrivania e un Chupa Chups in bocca; la sua appendice alle labbra da quando ha smesso di fumare. Ha la mascella serrata e gli occhi socchiusi. Parla a scatti, beve le parole dell’interlocutrice appena diluite dall’assolo unplugged di Tunnel of love. Adora i Dire Straits, fin da ragazzino, non riesce a concentrarsi senza. Adesso ha bisogno di raccogliere le idee.

    Giorgia Cusani si è conquistata il grado di dirigente della squadra mobile senza mai sgomitare in giro, riassume al meglio l’intuito femminile e il pragmatismo maschile. È un’attenta specialista del comportamento umano, ma questo non è un caso di omicidio come tutti gli altri. C’è di mezzo la fretta a complicare tutto.

    La vittima era un artista di successo, è stato torturato per ore e poi lasciato a dissanguarsi con due squarci profondi nei polsi. In giro nessuna traccia significativa, tranne una pozza di vomito che, senza un campione di DNA da confrontare con un sospettato, al massimo serve a stabilire il sesso del colpevole. I succhi gastrici, poi, interferiscono con gli esami. Non è un referto attendibile, il caldo innaturale di questi giorni ha fatto il resto. Inutile, come le impronte digitali rilevate sulla scena del crimine. Potrebbero appartenere a chiunque; le uniche con un riscontro certo, finora, sono quelle del personale di servizio della vittima. Neppure una di queste è stata trovata sul cadavere.

    Proietti non possiede una briciola di quegli indizi che vengono decriptati dopo breve ragionamento del bravo questore/commissario/spettore/eroe di turno nei polpettoni televisivi. Nulla di rilevante, tranne una gran confusione in giro e una carta da gioco lasciata a galleggiare nel sangue della vittima. La pressione della stampa sta diventando insostenibile, affamata di particolari che foraggiano il lato oscuro della gente. Un morto ammazzato in quel modo nella Roma bene è un boccone troppo appetibile, soprattutto se si tratta di un personaggio famoso.

    «Devo ancora sentire i portieri dello stabile, dottoressa, lo farò domattina. Sfortuna ha voluto che fossero fuori città proprio la notte del delitto. Poi ho una convocazione nel pomeriggio: il figlio della vittima, era all’estero. Stiamo lavorando ininterrottamente al caso, lei lo sa. Sa che i miei agenti non dormono in piedi, e se si azzardano a farlo a svegliarli ci penso io. Lei lo…»

    «Proietti, nessuno ti sta accusando di negligenza. Non azzardarti a pensare che ti stia con il fiato sul collo per divertimento. È ancora presto, non siamo mica in CSI. Il fatto è che mi stanno saltando i nervi, e tu sai quanto poco mi assomigli questa cosa. Qualche testa di cavolo ha fatto trapelare un paio di particolari, forse un deficiente della scientifica, magari qualcuno dei collaboratori. I giornali li hai letti, no? Pure la boutade del titolo, il redattore appassionato di doppi sensi ce lo dobbiamo ciucciare sempre, altrimenti poi la notte non dormiamo sereni. Il MANIaco del Trionfale. Sul web, poi… lasciamo stare che è meglio.»

    «Dottoressa, ascolti…»

    «No. Ascoltami tu: massima stima per la tua squadra, illimitata fiducia nelle tue capacità. Questa è l’ultima telefonata che ti faccio per sapere a che punto siete. Mi fido di te. Aggiornami su qualsiasi novità, intesi?»

    «Intesi.»

    Sono quasi le tre del pomeriggio, l’ispettore ha tolto da un pezzo i piedi dalla scrivania e riletto per l’ennesima volta i file dei controlli effettuati finora: movimenti bancari, frequentazioni di palestre o circoli esclusivi, eventuali partecipazioni finanziarie a qualche società. Non è emerso neppure un particolare utile. Nell’appartamento, poi, non è stato ritrovato nessuno smartphone o personal computer. O la vittima era ferma all’età della pietra, oppure l’assassino si è portato via tutto per rallentare le indagini.

    Paolo ha lo sguardo ancora incollato

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