Rock'n'rust
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Anteprima del libro
Rock'n'rust - WALTER MIRALDI
© 2017 Lupi Editore
Via Roma 12, 67039 Sulmona (AQ)
Tutti i diritti riservati
www.yndy.it
ISBN 978-88-99663-32-2
Finito di stampare nel mese di dicembre 2017
presso Universal Book srl - Rende (CS)
per conto della casa editrice Lupi Editore
ROCK’N’ RUST
di Walter Miraldi
Alla ruggine.
Alle ossa.
1.
Tardi, ma venga buona.
Però detto in dialetto.
Le parole, dalle tue parti, sono echi rudi di passato remoto. La parietaria è la padrona dei vecchi muri.
Soprattutto di quelli all’ombra.
Ti piace appiccicare sulla maglietta la medaglia vegetale delle sue foglie lanceolate. Sai che i fiori sono minuscoli e si difendono raggruppandosi sotto l’ascella della foglia. Hai imparato che serve per pulire l’interno dei fiaschi e sai anche che, se ti pungi con l’ortica, puoi strofinare le foglie, per calmare il bruciore. E poi sono buone da mangiare, per le frittate o le minestre. La parete in pietra, suda di verde. Una lucertola si scalda sul travertino arroventato e poi schizza tra le fessure quando lecca il pericolo. Gli uccelli volano alti sulle correnti tiepide, puntinando il cielo, terso e asciutto.
L’Americano caracolla in salita. Ha il viso rosso e sbuffa come una locomotiva. Di solito bestemmia i santi. Lo fa arrabbiare il fatto che, in America, tutti lo consideravano un povero italiano e da quando è tornato in paese, tutti pensano che sia un americano spaccone. Perciò lancia spesso qualche Madonna. Soprattutto da quando ha scoperto che ha le arterie foderate di grasso. Colpa dello junk food. Dice lui. Insomma, della cattiva alimentazione. Del resto, se ti nutri per una vita con burgers, fries, cheesecake e bevande zuccherate, questo è. Devi ringraziare Dio se riesci ancora a muoverti. Lui avrebbe voluto mangiare il pollo al sugo con gli altri paysani. Però, quando devi avvitare giunti di ferrovia a seicento miglia da casa, ti accontenti di quello che passa il convento. Qualcuno gli domanda come è andato l’esame per il colesterolo. Aspetto i risultati.
Risponde lui. Poi aggiunge. Tardi, ma venga buona. Però in dialetto.
Se una frase potesse racchiudere un’identità, questa sarebbe la più adatta a rappresentare il tuo mondo tascabile. Il desiderio di un futuro lieto. Comunque mai veramente atteso. Perché spesso traditore.
I problemi, però, sono due.
Intanto.
Guai a dirlo in italiano.
Da tempo hai deciso di non utilizzare, in presenza di altri, la grammatica del distacco dall’origine contadina. Insomma. Parlino con i congiuntivi i professori di città ma si astengano gli abitanti del borgo montano.
Ecco.
Dovresti assottigliare le sinapsi al pensiero elementare dell’eloquio naturale. Per evitare situazioni decisamente pericolose.
È già successo.
Va bene, la pianura era bella e il tramonto spandeva il suo velo di porpora tra le traiettorie planari degli aironi cenerini. É vero anche che il giallo del fieno incorniciava l’azzurro del fiume. Un tappeto di zolfo squarciato da un sentiero di diamanti.
Ma era il caso di usare il congiuntivo?
Se solo si potesse descrivere!
Ad alta voce.
In italiano.
Davanti ai tre Fratelli domatori di cavalli. Una follia.
Non si parla con i congiuntivi davanti a loro.
Tappeto di zolfo, aironi, diamanti.
Cose da pazzi.
Il Fratello grande fa paura. Hai sempre immaginato che non sia del tutto umano. Non pensi a creature di alti pianeti, a licantropi e vampiri o altre sciocchezze adatte solo alla fantasia frustrata dei bimbi ingabbiati delle città. Tu pensi all’umanità in senso scientifico-evoluzionistico.
Hai studiato l’homo sapiens, ma sai che sono esistiti altri ceppi di homo.
Questa è la tua teoria: non tutti si sono estinti.
Il più grande dei Fratelli domatori ha una capacità polmonare superiore, riesce a trattenere il respiro per momenti interminabili, ha narici dilatate e fronte ossuta e sfuggente. L’andatura è caracollante ma svelta. Gli arti inferiori sono corti e possenti. La masticazione è orizzontale, la vista aguzza scova le prede anche quando stazionano sul limitare del bosco. Le orecchie si orientano quando scorgono suoni e rumori. L’idioma è incomprensibile e gutturale. Un rantolo di caverna. È stato il Fratello grande a fiutare l’affronto dell’italiano. Quindi ha alzato la testa irsuta dal pasto carnivoro e si è scaraventato su di te brandendo una specie di ascia rudimentale.
Hai gridato come una femminuccia, strizzando la voce acuta, mentre tentavi la fuga tra le balze. In qualche modo ti sei salvato, ma da quel momento sei stato saggio.
Hai rinunciato al congiuntivo.
Almeno.
Ci provi. E usi l’italiano solo in contesti ben definiti e in situazioni specifiche.
Poi ci sarebbe il secondo problema.
Se si pensa che il futuro sia buono, seppure in dialetto, ci si affida alla volontà di chi ha il potere di cambiare l’inerzia delle cose e di aggiustarle per il bene. Generalmente ciò, almeno per il comune sentire, si definisce miracolo. Tuttavia non ti rassegni a non considerare la parte critica del ragionamento, che, al netto della fede, prevede la possibilità che fattori come il caso, la fortuna e il destino, possano influire sullo scorrere degli eventi. Quando vedrai le immagini delle Madonnine piangenti, rimarrai perplesso proprio dal tono caustico del messaggio salvifico. Chiaro, indubbiamente, per chi possiede il bagaglio della fede, ma insufficiente per lo scettico, che, proprio nel miracolo, vorrebbe trovare le tracce dell’esistenza della divinità.
Un mignolo?
Pensi.
É mai ricresciuto un mignolo a qualcuno?
A quel punto forse potresti credere.
Con questi pensieri, ripeti la frase dell’Americano. Tardi, ma venga buona.
Però in dialetto.
2.
Ma a te non interessa del suo esame, perché pensi alla partita.
Sei seduto sulla scala esterna di casa tua e ti stai allacciando una scarpa da ginnastica. Chi ha comprato le divise da pallone non ha considerato che i calzettoni di lana gialla sono trame di brace che avvolgono polpacci implumi, in una calda estate montana. Anche la maglietta verde è di tessuto pesante, e già serra le mascelle a saracinesca sul tuo corpo esile di bambino.
Oggi sei il migliore calciatore del mondo.
Hai già giocato questa partita più di mille volte. Hai mimato le azioni facendo lo slalom tra la scopa di mamma e le sedie della cucina e ora sei pronto per affrontare gli Stranieri. Si dice che quest’anno siano più forti e che possano contare su nuovi arrivi dalla Francia, da Roma e su uno forte di Torino. L’anno scorso avete vinto voi, i padroni di casa, per sette a quattro. Hai anche segnato un gol. Sei partito dalla fascia sinistra, poi hai fatto una finta e hai spostato la palla sul destro. Hai simulato il passaggio a un compagno ma ti sei girato di nuovo sul sinistro.
Senza pensarci hai calciato più forte che potevi. La traiettoria era buona ma il tiro era lento. Il portiere degli Stranieri era alto e sembrava che potesse arrivare a parare. Invece una zolla infonde più inerzia al pallone. Che sfila inesorabilmente dentro la rete.
Gol, hai urlato con tutto il fiato che avevi in gola. E quindi hai fatto una corsa a braccia spalancate verso un punto non precisato del campo.
Oggi è un’altra cosa e, come ha detto l’allenatore, quello che è passato è passato. Guai a sottovalutare l’avversario. Eppure scalpiti, vorresti essere disciplinato, ma non puoi fare a meno di pensare a quella rovesciata che farai quando l’arbitro avrà già portato il fischietto alla bocca per chiudere la partita.
Perderai.
Gli Stranieri vi umilieranno e questa sera, alla festa del Santo, vi alzeranno in faccia la coppa.
Le ragazze più carine, che tu e i tuoi amici chiamerete per la prima volta puttane, avranno occhi solo per loro. Per quelli che tu e i tuoi amici continuerete a chiamare Stranieri. Ma per ora tutto questo non conta, il futuro non è altro che un presente che viene dopo.
Prendi la bicicletta e vai. Ora ti senti sicuro sui pedali. Non è stato sempre così.
Dalle tue parti è la vergogna a guidare i comportamenti. Così come l’assoluto terrore di rivelarsi inadeguati agli occhi della piccola comunità feroce. Nessuno concepisce le difficoltà d’approccio. Si deve nascere imparati e su questo non hai dubbi.
È così.
Perciò hai preso la tua bicicletta con le ruote raggio sedici e l’hai portata a casa di tua nonna.
Hai provato l’equilibrio tra sala e cucina. Volevi dimostrare a tutti che eri in grado di andare dritto su due camere d’aria che rotolano e che potevi farlo anche in discesa e senza frenare.
Però non riuscivi neanche a partire.
Sapevi che dovevi dare forza sul pedale col tuo piede preferito, lasciare andare la bici, poi posizionare l’altro piede sul pedale opposto e spingere alternativamente la destra e la sinistra.
La luce della primavera si spezzava in quadratini contro la grata della finestra grande, mentre residui di fresco tardo invernale refolavano nella pancia scura del camino a muro. Ti sbilanciavi ogni volta che provavi ad andare, l’andatura curvava, e lo sterzo si chiudeva come l’epitaffio sul tuo orgoglio ferito.
Poi.
Hai alzato la testa come quando si prega, hai distolto lo sguardo dalla linea di fuga delle mattonelle e hai fissato il punto d’arrivo. Lo guardavi con la stessa brama negli occhi del lupo affamato delle favole. Dovevi raggiungere quella meta sgomitando tra i bordi gassosi dell’equilibrio. Non sapevi ancora girare. Gestire la postura in regime di diminuzione della velocità era ancora questione riservata a quelli più grandi, ma, questo ti ha reso felice, sei arrivato, in bilico, senza cadere, a due centimetri dal punto dove avevi spedito gli arpioni delle tue promesse.
Dopo quel giorno è stata solo questione di tempo.
Ti sei avvicinato ai tuoi amici con una discreta scelta delle traiettorie. Nessuno ti ha fatto i complimenti. Sapevi che le sfide a cui saresti stato sottoposto, per mettere alla prova le tue incerte capacità di statica, sarebbero state feroci e senza sconti, ma riuscivi a mascherare il timore, confondendolo con la spavalderia del dilettante. Ti alzavi sui pedali mordendo la salita di selci, seguendo la scia delle ruote, più esperte, che ti precedevano. Calcolando le distanze, la velocità e le traiettorie, da apprendista formica operaia. Eri determinato a non cedere un centimetro alla fatica facendo ricorso all’energia supplementare che ti regalava la felicità del momento. Alla fine della salita avete appoggiato le bici sul muro di una casa gialla.
La stalla odorava di stalla.
Quel profumo si chiama sentore di difetto. Per i produttori di vino si tratta di odori anomali o sgradevoli che derivano da agenti esterni. Il sentore di tappo, causato dal parassita della quercia da sughero, quello solforato, il sentore di maderizzato, di ridotto, di muffa, di fradicio, di marcio, di secco. Il sentore di svanito, che è l’assenza di sentori, il vino piatto. Oltre tutto questo, c’è il sentore di stalla. È causato dall’attività dei lieviti trasportati dal moscerino della frutta.
Per ora la stalla odora ancora di stalla.
I blocchi lisci di travertino si incastravano per pavimentare lo scarno ambiente, i travoni di legno di noce si allungavano sulla parete per lasciare riposare il fieno che sporgeva dalla mangiatoia. Si curvava, per dare concretezza alla struttura, un arco in pietra. Anche un anziano del tuo paese è diventato di pietra.
Dalle tue parti non dite paralisi. Dite.
Diventare di pietra.
Però in dialetto.
La cagna si chiamava Lola. Aveva appena partorito. Del padre si erano perse le tracce. La cosa ti spaventava, la famiglia monca per te non è famiglia. È solo somma di individui. Tu e tuoi amici avevate deciso di tenere i cuccioli. Non sei stato l’ultimo a scegliere il cane; non sei stato neanche il primo. Le gerarchie vanno rispettate. Il proprietario della stalla prima, poi il Forte, quindi tu, infine gli altri. Che hanno dovuto accontentarsi dei cagnolini nati già avvolti dal sudario della selezione. Avevano ancora gli occhi serrati e i guaiti fitti e alti rimbalzavano sulla volta e scivolavano dalle pareti fino a voi. Non puoi dirlo a nessuno, perché è normale che la singolarità si disperda nel volere del mucchio, ma i cani non ti piacciono. La loro fedeltà scodinzolante ti sembra solo un basso esercizio di servitù nei confronti dell’aguzzino che gli ha tolto per sempre la ferocia libera del branco senza padrone. Vedrai il lupo, e quindi avrai la certezza che è il lupo il canide animale, mentre il cane, quello monile. Il cucciolo che avevi scelto era bianco, con una pennellata circolare di nero intorno all’occhio sinistro. Forse avresti dovuto chiamarlo Macchia e non Buk. Hai dato a Lola ossa di pollo, cartilagine, frattaglie, pezzettini di carne cruda. Non potevi sapere che tanti, lontano da te, sostengono che questo tipo di alimentazione non sia adatta ai cani, che sbilanci il loro metabolismo, facendoli diventare più aggressivi. Altri, ancora più distanti, invece, in nascente contrasto coi primi, stanno già ipotizzando una dieta canina bones and food.