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Un delitto quasi perfetto
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E-book330 pagine4 ore

Un delitto quasi perfetto

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Info su questo ebook

Dall’autrice del bestseller Una famiglia quasi perfetta
Numero 1 in classifica

Un grande thriller

Emma e Adam Jordan sono due medici all’apice della carriera, così quando viene loro offerta l’opportunità di trascorrere un anno in Africa, con i tre figli, per collaborare a un progetto di ricerca, accettano con entusiasmo, convinti sia l’occasione che aspettano da sempre. E sarà di certo un’esperienza che non dimenticheranno, ma non per le ragioni che i Jordan immaginano. Quando una sera Emma torna a casa e trova vuota la culla del piccolo Sam, il più piccolo dei loro figli, la famiglia capisce che il sogno si è trasformato nel peggiore degli incubi. Un anno dopo, a migliaia di chilometri di distanza, Emma è ancora ossessionata dall’immagine di quella culla vuota, e continua a isolarsi sempre di più dal resto della famiglia. Che ne è stato di Sam? È ancora vivo? Si è trattato di un rapimento o di qualcosa di più inquietante? Cos’è successo davvero quella notte?

Dall’autrice del bestseller numero 1 in classifica Una famiglia quasi perfetta

«Una storia appassionante.»
Telegraph

«Una lettura ad alta tensione sulla famiglia, la cui speranza di avventura si trasforma in un incubo.»
You Magazine

«Grande suspance e piccoli tocchi di magia per un romanzo che è una perfetta miscela tra thriller e horror.»
Sunday Mirror

«La disperazione dei genitori è così brillantemente descritta, che si sente ogni fitta di dolore. Il finale emozionante non delude. Una lettura imperdibile!»
Woman Magazine
Jane Shemilt
È un medico di professione e ha conseguito una laurea in Scrittura creativa alla Bristol University e una specializzazione all’università di Bath. Il suo romanzo d’esordio, Una famiglia quasi perfetta, è diventato un bestseller internazionale e le ha dato un’immediata notorietà. Vive a Bristol con il marito, professore di neurochirurgia, e i loro cinque figli.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2016
ISBN9788854194113
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    Anteprima del libro

    Un delitto quasi perfetto - Jane Shemilt

    Capitolo 1

    Botswana, marzo 2014

    Il calore della sera avvolge il sentiero, le cicale friniscono fitte. I miei piedi scricchiolano sulla sabbia profonda. Camminare sembra facile come respirare; i pensieri si liberano e fluttuano nell’aria calda.

    Adam starà sorseggiando una birra, felice; quel mondo nuovo… Zoe, forse sotto gli alberi con una lucertola tra le mani. Alice sarà accanto a Teko, immersa nella lettura, i capelli neri che spazzano la pagina, più calma di stamattina. Il profumo della cena si diffonde nel giardino; Elisabeth mette fiori in un bicchiere.

    Un bulbul crestanera salta via spaventato dal sentiero, il suo richiamo intermittente che spezza la pace: fa’ in fretta, fa’ in fretta, Dottoressa, fa’ in fretta. La luce dorata comincia a scurirsi tra gli alberi; un rosso fiore del deserto brilla tra le ombre, ed è il tramonto.

    L’ora di cena. L’ora del bagno. Forse Sam starà piangendo.

    Un altro uccello risponde al primo e un altro ancora, e poi gli alberi si riempiono tutti di canti spezzati. Sento in bocca l’aria dell’imbrunire, densa come crema.

    Un serpente sottile striscia davanti ai miei piedi, un lampo veloce sul sentiero, e scompare in un canale. Voglio un drink a base di gin. Voglio che Adam rimanga impressionato nel vedermi tornare a casa a piedi, pentito di aver dimenticato di controllare l’auto, pentito di non aver messo in carica il cellulare.

    Quando lo raggiungo, il cancello è immerso nell’ombra, anche se il legno è ancora caldo a contatto con la mano. Dondola indietro sui cardini con il suo familiare lamento bitonale. Nello stagno dietro casa, le rane hanno dato inizio al loro gracidare notturno. Quando scalcio via le infradito sporche di fango, la sabbia è soffice sotto i miei piedi. Il sollievo di essere a casa sboccia come un dolore in mezzo al petto. Aggiro le anse curvilinee del viale, ansiosa di scorgere le prime luci bucare il prato ricoperto di arbusti.

    Mi ci vuole qualche secondo per accorgermi che in casa tutte le luci risplendono, e che il fascio luminoso di una torcia percorre convulsamente il prato. Adam sta gridando, la sua voce è un muggito basso, come di un animale in pena. È laggiù, verso gli alberi. Quando comincio a correre, volta il viso verso di me, il suo pallore balugina nella luce del tramonto. Dentro, Zoe, appoggiata al muro, piange silenziosamente. Allora non si tratta di lei. Alice è accovacciata in un angolo; mi vede e si alza con movimenti fluidi e aggraziati. Non è nemmeno di lei che si tratta.

    E allora capisco.

    Nella nostra camera da letto, le ombre danzano in modo differente: impiego un secondo per accorgermi che le tende sono tirate e ondeggiano piano nel vento leggero. Di fronte alla finestra, sul tappeto, giace un cumulo di vetri sbrilluccicanti, qualche frammento frastagliato ancora al suo posto nella cornice.

    La culla è vuota.

    Capitolo 2

    Londra, marzo 2013

    Non era un buon momento per cominciare una conversazione. Mezzanotte. La pioggia che picchiava contro le finestre, sul tavolo in mezzo a noi una bottiglia di vino, vuota. La faccia magra di Adam era tinta d’un lieve rossore, i capelli neri che se ne stavano dritti là dove aveva passato più e più volte le mani. Avrei voluto appianarglieli e posare le labbra sulle linee tra le sopracciglia, ma c’era in lui un barlume nascosto che mi teneva lontana.

    La cucina era un caos: Sofia era andata con gli amici a vedere un film polacco, e le scarpe e gli zaini delle bambine erano sparsi sul pavimento. I nostri bicchieri e le stoviglie erano ancora sul tavolo. I disegni di Zoe ammucchiati in disordine sulla credenza e i compiti di matematica di Alice ordinatamente impilati attendevano entrambi la mia approvazione.

    L’indomani, la lista delle cose da fare cominciava alle otto del mattino con due isterectomie. Spinsi indietro la sedia e mi alzai. L’espressione di Adam era assorta, come se stesse risolvendo a mente un calcolo complicato. Cominciai a liberare il tavolo, accatastando le scodelle sullo scolapiatti già zeppo.

    Mio padre possedeva un’antica bilancia: la teneva sulla scrivania nello studio, ma dopo la sua morte era scomparsa. Era fatta di legno lucido e ottone, con pesi in metallo goffrato; da bambina, me la lasciava usare per pesare le lettere e i pacchi. Un sottile foglio di carta poteva fare la differenza. Nella relazione tra me e Adam, il successo professionale era equamente bilanciato, ma in ogni momento il piatto poteva pendere di più da una parte o dall’altra. Gettai le posate nel lavandino e il metallo risuonò rumorosamente. Lo amavo. Amavo quasi tutto di lui: il sorriso che gli accentuava le rughe attorno agli occhi, il suo modo di prendere le bambine tra le braccia per farle dondolare in alto alla fine della giornata, il calore del suo corpo accanto al mio nel letto; ma se lui vinceva, a perdere ero io. Volevo il meglio per lui, ma solo finché non otteneva più di me.

    «Dimmi». Allungai una mano per prendere il suo piatto. Non ci sarebbe voluto molto. Magari non era nulla. Una diagnosi azzeccata, forse, o il colpo vincente nella partita di squash della pausa pranzo.

    «Mi si è presentata un’opportunità di ricerca». Si schiarì la gola, un suono gratuito e irritante. Aveva parlato in tono piatto, ma quando i suoi occhi incontrarono i miei, le pupille dilatate lo tradirono: non si trattava di un progetto di routine. Gettai il piatto nel lavandino sopra a coltelli e forchette e mi sedetti per affrontarlo, le mani sul tavolo, preparandomi ad assorbire il colpo.

    «Lasciami indovinare. La Wellcome Trust ha accettato di finanziare il tuo progetto sulle cellule staminali nella cura del cancro?». Orgoglio e gelosia mi corrodevano lo stomaco.

    Lui scosse la testa, lo sguardo sfuggente. «Ricordi il tuo progetto di ricerca a San Francisco, dodici anni fa?».

    Annuii, anche se mi sembrava fosse passato più tempo. Era un’epoca strana e lontana, fatta della nostalgia di Adam, di passeggiate solitarie nella nebbia su e giù per le colline fino all’ospedale e della musica jazz che arrivava indistinta attraverso la finestra aperta del laboratorio. Passavo giorno e notte a macchiare campioni e studiare diapositive per poi analizzare i risultati; ore a scrivere le mie scoperte.

    «…appena sposati, ma era la tua grande opportunità e ti ho lasciata andare», stava continuando Adam.

    Svanì il ricordo delle luci del laboratorio a notte fonda, delle file di diapositive e delle tazze vuote di caffè. Adam mi stava fissando e tamburellava con le dita sul tavolo.

    Lo fissai a mia volta. «Allora, di cosa si tratta veramente, Adam?».

    Abbassò gli occhi. «Mi è stato offerto un posto di ricercatore per un anno in Botswana».

    Nel silenzio che seguì, la lavastoviglie emise un suono: la fine del ciclo di lavaggio. Spesso fingevamo di non accorgerci che dovevamo svuotarla, ma adesso il nostro gioco era un altro. Era come se mi avesse preso a pugni nello stomaco. Più una lotta che un gioco.

    «Offerto? Allora devi esserti candidato già da tempo».

    Attorno a noi, i disegni delle bambine tappezzavano le ante della credenza; gli animali di creta di Zoe affollavano alla rinfusa tutti i davanzali. Una palla da squash era abbandonata in mezzo alle arance nel cesto della frutta. Nell’angolo, il violino di Alice, pronto per l’indomani. Appesi al frigorifero con un magnete a forma di cuore c’erano gli orari della piscina. La mia lista di reperibilità era attaccata con lo scotch al muro sopra il telefono. Le novità di Adam avrebbero potuto cambiare tutto, eppure lui me le aveva tenute nascoste fino ad ora.

    «L’offerta è arrivata dal nulla, Em. Te ne avrei parlato prima, se mi fossi candidato. È ovvio».

    Un muscolo gli pulsava sulla mascella. Era un movimento minimo, e se non fossi stata a guardarlo tanto da vicino non l’avrei nemmeno notato.

    «La storia non può essere tutta qui, queste cose hanno bisogno di essere discusse e pianificate. Perché non me l’hai detto prima?»

    «A volte è difficile parlare con te… Il mio successo sembra ferirti così tanto».

    «Allora me l’hai tenuto nascosto?»

    «Non riuscivo a trovare le parole».

    «Raccontamelo adesso».

    «Chris Assazar mi ha scritto una email da Johannesburg». Adam si piegò in avanti. «Ha letto il mio studio sui marker sierici per i linfomi e pensa che un oncologo potrebbe fare qualcosa di utile laggiù. Lui provvederà al finanziamento».

    «Utile… Il che significa cosa, esattamente?»

    «Lui gestisce un centro di ricerca per l’hiv nell’Africa del Sud. Il Botswana ha il record di aumento della popolazione infetta di tutto il continente. Sappiamo che i pazienti con aids sono a rischio di linfomi…». Stava cominciando a sembrare pomposo, come probabilmente doveva sembrare quando teneva le sue lezioni agli studenti di medicina. Notò il mio sguardo e accelerò: «Perciò, se con i marker sierici riusciamo a individuare i soggetti a rischio, possiamo somministrare una cura antilinfoma con largo anticipo e prolungare una vita normale di mesi, forse anni».

    «E le nostre, di vite normali? Che fine faranno?».

    Le nostre vite non erano normali, ma uno di noi era sempre qui in giro, almeno per una parte della giornata, e la ragazza alla pari faceva il resto. Ci alternavamo per i turni di reperibilità. Il fine settimana scorso avevo fatto quattro cesarei, mentre Adam si era occupato di gestire le cose a casa. Spesso dedicavo le serate alla ricerca, mentre lui leggeva alle bambine. Io le portavo a scuola la mattina. Con Adam in Botswana sarei rimasta da sola a occuparmi di tutto; non avrei avuto più tempo per la ricerca e nemmeno per il lavoro in ambulatorio. Lui sarebbe stato libero di lavorare quanto voleva. Avrebbe pubblicato nuovi studi. E io sarei rimasta a mani vuote.

    Avrebbe vinto lui. Adam negava sempre che le cose stessero così, ma io non gli credevo. Gli occhi mi bruciavano per la stanchezza, e mi ritrovai all’improvviso ai tempi della scuola, a spingere con tutte le forze in mezzo alla piscina mentre tenevo d’occhio i rivali con gli occhi irritati dal cloro, decisa ad arrivare prima. Come si può non desiderare di vincere?

    La sedia di Adam cigolò sul pavimento di ardesia mentre lui si alzava. Lì accanto, sul davanzale, la cornice d’argento con la foto di mio padre. Capelli bianchi, zigomi alti, occhi incavati dietro agli occhiali a mezza luna. La foto non mostrava le sue mani, ruvide e ampie come vanghe. Calde. Era un ostetrico e la gente diceva che aveva le mani da chirurgo, fatte apposta per salvare vite. A me non era sembrato così, nella cava. O vai a fondo o nuoti, aveva detto. Avevo cinque anni.

    La cava è silenziosa. Nascosta.

    Il lago è un mestolo profondo di verde ombroso nascosto tra le scogliere.

    Siamo insieme nella sua barca.

    È una giornata calda, ma io ho freddo. Indosso un costume da bagno, non so perché. Non so nuotare. Di solito veniamo qui a pescare, ma oggi non ha portato le canne.

    «O vai a fondo o nuoti».

    Non so cosa voglia dire, ma ho paura.

    «Dipende da te», dice. Si china su di me; mi afferra la vita con le mani. Mi tira su, mi tiene sospesa sul bordo della barca e poi, con cautela, mi lascia cadere nell’acqua.

    Urto contro le pietre sul fondo, il fango molle come carne, come la terra sulla tomba di mamma. Apro la bocca per gridare e inghiotto acqua.

    Una tenue luce gialla penetra attraverso il verde sopra la mia testa. Le bolle risalgono verso l’alto.

    Una voce grida il mio nome.

    Scatto verso la superficie, i giunchi che mi graffiano le gambe mentre risalgo.

    Adam aveva cominciato a camminare avanti e indietro, gesticolando. Le parole uscivano con facilità, come se si fosse allenato ad alta voce mentre tornava a casa in auto: «… bene per tutti e due. Zoe potrebbe saltare il primo anno della scuola primaria senza problemi. In Scandinavia a cinque anni i bambini non ci vanno proprio, a scuola; Alice è così avanti che potrebbe prendere cinque per il resto dell’anno e non farebbe nessuna differenza». Poi si sedette di nuovo e aprì le mani, come per offrirmi un regalo. «Tu potresti prenderti un anno sabbatico e fare tutte le ricerche che vuoi».

    Perciò voleva che andassimo in Botswana con lui. Fissai lo sguardo oltre il tavolo, ma senza vederlo. Ero tornata indietro a una mattina presto di dieci anni prima, in cucina, a bere caffè e scrivere articoli mentre Adam dormiva con la piccola Alice. Era successo lo stesso quando era nata Zoe. Da quando ero diventata primario, la mia vita era stata un circolo ininterrotto di ricerca e lavoro ospedaliero. Mi prendevo a malapena una giornata. Come potevo andarmene per un anno? Adam aveva all’attivo più pubblicazioni di me, ma io ero più giovane. L’avrei raggiunto. Non era facile. Il tempo era ancora un lusso. E la famiglia riempiva ogni momento libero, tenendomi a galla, trascinandomi a fondo.

    «Em, ti prego…».

    Dall’altro lato del tavolo Adam si chinava in avanti, aspettando un mio cenno di assenso. Due anni fa aveva voluto un terzo figlio. Mi aveva supplicata, ma io avevo appena avuto il posto e avevo la responsabilità di un’équipe. Non era il momento giusto. Avevamo già Alice e Zoe; era tutto in equilibrio. Così. Avevo detto di no. Avrei detto di no anche adesso. La ricerca di Adam in Botswana sarebbe durata più a lungo di una gravidanza. Avrei preferito avere un altro figlio piuttosto che passare un anno all’estero: un bambino poteva inserirsi nell’incastro. Toccava a lui rinunciare a qualcosa.

    «Quando dovrebbe succedere?», chiesi.

    Dovevo mettere ordine nei miei pensieri, ma avevo bisogno di dormire. Se fosse stata una sera normale, come tutte le altre, la cucina ora sarebbe immersa nella pace. Il lampadario sarebbe spento e la stanza sarebbe illuminata dalla luce soffusa delle lampade a parete. Adam starebbe leggendo qualcosa, coi piedi tirati su, sorseggiando un tè, mentre io starei controllando i compiti delle ragazze. Gli unici rumori sarebbero il ticchettio dell’orologio e il fruscio delle pagine voltate; forse il quartetto di Mozart preferito di Adam suonerebbe piano in sottofondo, mentre i pezzi della giornata si rimettono insieme.

    «Ci vorrà un po’ per preparare il tutto, confermare i finanziamenti e organizzare la squadra».

    La sua voce sembrava più pacata. Credeva di avere vinto.

    «Megan ha detto che è disposta a darci una mano. I suoi genitori lavoravano in una missione laggiù. Lei è cresciuta lì. Ci vorranno nove mesi per organizzare la ricerca, a partire da ora. Al massimo dieci. Potremmo essere lì all’incirca per Natale». Ora stava sorridendo. «Sarebbe un’occasione per aiutare le persone, trovare un vero senso alle nostre vite».

    Ma noi le persone le aiutavamo già. Le nostre vite erano piene di senso. Mi tirai in piedi e, ignorando la lavastoviglie, aprii il rubinetto sopra alla pila di piatti e posate accatastati nel lavandino, schizzandomi l’acqua sui vestiti. Megan, la sua leale segretaria. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutarlo a ottenere ciò che desiderava. Non aveva bambini, però: non poteva capire l’effetto che i programmi di Adam avrebbero avuto sulle nostre figlie. Stavano crescendo bene, ma cosa sarebbe successo se le avessimo strappate alla loro routine? Meritavano tutte le possibilità che avevo avuto io. Il che significava che dovevano mantenere il ritmo e lavorare duro.

    Adam mi si avvicinò alle spalle, abbracciandomi da dietro. «Sarebbe un’avventura», disse.

    Un tempo amavo quella parola. Significava il giro d’Europa in bicicletta dormendo in tenda, o attraversare l’America in autostop, zaini in spalla. Grattai via con un coltello una traccia di pesto da un piatto; non avevo bisogno di quel genere di avventura, adesso. Tutto ciò che volevo era qui, a Londra. Le mani di Adam mi premevano sulla pelle del bacino. Nonostante la stanchezza, sentii il viso ardere dal desiderio.

    «Cosa ne pensi?». Le sue labbra erano sul mio collo.

    Mi voltai per guardarlo negli occhi. Aveva la bocca socchiusa e potevo sentire l’odore di vino del suo respiro. La mia testa nuotava nell’alcol. Aveva detto nove mesi da ora: avevo ancora del tempo. Mi sarei inventata qualcosa; ne sapevo di sopravvivenza. Sarei sopravvissuta anche a questo.

    «Non parliamone adesso». Lo baciai. «Siamo troppo stanchi. Troveremo il tempo per discuterne domani, o nel fine settimana. Vieni a letto».

    Lo presi per mano; avrei guardato i disegni e i compiti il giorno dopo. Mentre ci voltavamo per andare, sentii dei passi leggeri salire in fretta per le scale davanti a noi, e poi una porta che si chiudeva piano. Sofia doveva essersi intrufolata in casa senza farsi notare. Stava al piano di sopra, nella stanza accanto a quella di Alice. Alice ultimamente era così stanca. Sperai che Sofia non la svegliasse.

    Chiudemmo la porta della camera da letto e ci appoggiammo contro di essa nel buio, ansimando e aggrappandoci l’uno all’altra, il vino e la stanchezza allentavano la tensione. Adam cominciò a sfilarmi la maglia. Io gli slacciai la cintura. Ridevamo.

    Lui mi spinse all’indietro sul letto, scivolando con le mani sotto alla mia gonna. Dovevamo fermarci. Dovevo mettergli il preservativo. Si era dimenticato che da tempo non prendevo più la pillola?

    Gli sbottonai la camicia con dita tremanti; il cuore mi batteva forte, e i pensieri correvano più forti ancora. Per un’ostetrica come me, nove mesi significano formazione del cuore, crescita del cervello, definizione degli elementi facciali, fissazione delle ossa e delle unghie. Sorrisi e allungai una mano verso di lui. Mi aveva tenuto i suoi piani nascosti fino a oggi; questo dava anche a me il diritto di avere un piano segreto, uno che potesse mandare all’aria il suo, se solo fossi riuscita a pensare con più chiarezza. Non avrei dovuto bere tutto quel vino.

    Lui si spinse dentro di me e cominciò a muoversi. La bocca si abbassò sulla mia. Tra poco sarebbe stato troppo tardi, e io stavo cominciando a mollare. Non sarebbe successo niente. C’erano voluti mesi per concepire Alice e più di un anno per Zoe. Ed ero più vecchia, adesso, meno fertile. E poi, avevamo dimenticato il preservativo diverse volte prima d’ora, e il mio ciclo era sempre stato puntuale. Nell’arco di qualche secondo il mio corpo si stava muovendo col suo e i miei ultimi pensieri consapevoli si dissolsero.

    Capitolo 3

    Londra, aprile 2013

    «Che bisogno c’è di guidare tanto in fretta?». Nello specchietto retrovisore, la frangetta nera di Alice, appiattita dal cappellino, rendeva la sua pelle ancora più pallida. Il suo visetto sembrava spaventato.

    «Devo portarti a scuola, lasciare Zoe, vedere la signora Philips, fare un turno di guardia e cominciare le operazioni…».

    Non aveva alcun bisogno di questa litania, ma mi girava nella testa dalle cinque del mattino. Zoe, rannicchiata accanto a lei, dormiva come un sasso, il viso appoggiato sul gomito della sorella, un baffo di latte e briciole attorno alla bocca e una ciocca di capelli biondi incollata alle labbra.

    Guardando nello specchietto, mi accorsi che non indossava la cintura di sicurezza. L’avevo dimenticata. Su entrambi i lati della strada, le macchine erano parcheggiate paraurti contro paraurti. Per rimediare mi sarei dovuta fermare in un vialetto laterale, perdendo altro tempo.

    «Mi lasci a scuola troppo presto. Non è permesso».

    «Certo che sì, Ally».

    «Non ho nessun posto dove andare».

    «Puoi stare in classe a leggere, chiacchierare con gli altri…».

    Mi girai per sorriderle e tornai a guardare la strada appena in tempo per accorgermi della luce rossa che si accendeva lassù davanti a noi. Schiacciai il piede sul freno, inchiodando. Una giovane donna coi capelli coperti da goccioline di pioggia mi lanciò un’occhiataccia, mentre guidava un bimbetto infagottato attraverso la strada. Dietro di me, Zoe cominciò a piangere forte. Era stata sbalzata in avanti ed era finita nello spazio tra i due sedili. Sudando per il senso di colpa, uscii dall’auto e aprii di corsa la portiera. Era incastrata, il viso rigato da lacrime di shock. La tirai fuori e la misi dritta in piedi sull’asfalto. Nessun danno. Le diedi un rapido e forte abbraccio e la sistemai di nuovo sul sedile, questa volta allacciandole la cintura. Dietro di noi si stava formando una fila di macchine. C’erano visi arrabbiati e clacson strombazzanti. Risalii in macchina, tremando. Non mi capitava spesso di fare errori dovuti alla disattenzione, ma andavo di fretta ed ero distratta dal pensiero del giorno prima, e mi ero dimenticata di controllare se le avevo allacciato la cintura. Stavo diventando quel genere di madre che dà più importanza alla carriera che alla sicurezza dei figli?

    «Mi sento male». La voce di Alice era malferma.

    A scuola, scese dalla macchina e si avviò piano attraverso il cortile vuoto senza nemmeno salutare; sapeva che era stata colpa mia. Scomparve dietro i gradini che portavano al guardaroba, la schiena stretta piegata sotto il peso dello zaino, le spalle curve contro la pioggerellina.

    Nonostante ciò che era appena accaduto, Zoe si era di nuovo addormentata. La caricai di peso e la portai in classe, cercando di non levarle il pollice dalla bocca. Susi, l’assistente della maestra, ci salutò sorridendo mentre la prendeva in braccio. Era troppo tardi per accorgersi che la camicia di Zoe aveva l’orlo scucito, i polsini erano macchiati di pennarello e che indossava calzini spaiati. Susi la trasportò con cautela oltre la porta. Immaginai con quale dolcezza l’avrebbe distesa sui cuscinoni nella stanza del riposino. Li avevo visti quando avevo fatto il giro della scuola prima di iscriverci le bambine; quel dettaglio era stato decisivo. Ora ero preoccupata: perché la maestra di Alice aveva chiesto di vedermi?

    La signora Philips mi stava aspettando nell’aula vuota della quinta. Doveva aver appena pulito la lavagna e la polvere di gesso era sospesa nell’aria. Mi guardò, inclinando il capo da un lato, un lungo orecchino arancione penzolava sulla spalla. Posava le dita, con le unghie smaltate di arancio in tinta con l’orecchino, su una piccola foto di Alice allegata a un foglio fittamente scritto; le unghie erano appuntite e brillavano come gli artigli di un piccolo uccello rapace.

    «Ho ricevuto la sua email», cominciai.

    «La ringrazio di essere venuta. Ho mandato Alice a fare colazione con i convittori. Volevo condividere le mie preoccupazioni con lei in privato, signora Jordan». La sua voce era carica di sincerità. Si chinò in avanti. «Penso che dovrebbe sapere che Alice ha cominciato a prendere delle cose. Piccole cose». L’orecchino dondolò, tremolante.

    L’immagine di una pila scintillante di telefonini, orologi e monete mi balenò nella mente. «Che genere di piccole cose?»

    «Matite, gomme, elastici per capelli, un paio di calzini».

    «Tutto qui?». Mi veniva da ridere. «Forse voleva solo prendere quelle cose in prestito temporaneamente, e poi se n’è dimenticata. A casa abbiamo l’abitudine di condividere tutto, perciò…».

    «Le cose sono state ritrovate nel suo banco, in una scatoletta con un’etichetta con sopra scritto il suo nome». Mi rivolse un sorriso gentile.

    «Alice lo sa?»

    «Gliele ho prese e ho informato Alice che ne avrei parlato con lei. Nessun altro è al corrente della situazione».

    Guardai fuori dalla finestra; quella donna non mi piaceva, anche se non sapevo dire bene perché. Piccole frotte di bambini, all’incirca dell’età di Alice, stavano cominciando ad attraversare il cortile in gruppetti di due o tre, tenendosi per mano e chiacchierando. Sembravano felici, ma forse erano segretamente preoccupati di perdere le loro matite e i loro elastici per capelli. Magari stavano meditando la vendetta. Sentii una fitta di preoccupazione per Alice.

    «Le parlerò», dissi. Di solito lei mi raccontava della scuola, ma ultimamente non mi aveva detto molto. Abbassai lo sguardo sulle mani che tenevo intrecciate sul grembo. Mani da chirurgo come le sue, aveva detto papà. Mani abili, capaci di individuare il problema ed estirparlo. Avrei dovuto sapere che Alice aveva un problema: avrebbe dovuto essere una di quelle cose che mi confidava bisbigliando alla fine della giornata, mentre le rimboccavo le coperte. Ma spesso in quel momento io non c’ero. C’era Adam. E anche se le avessi chiesto se c’era qualcosa che non andava, me l’avrebbe detto? Avrebbe potuto pensare, basandosi sui fatti, che non m’importasse.

    «Penso che Alice si stia auto-valorizzando», stava continuando la signora Philips. «Un bambino di dieci anni che ruba forse sta cercando una sorta di riconoscimento. Mi chiedo se riceva sufficienti gratificazioni da… tutti quelli che se ne prendono cura».

    Mi sentii avvampare in volto. L’orologio alle sue spalle segnava le otto. Se mi fossi fermata a discutere avrei fatto tardi. Mi

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