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Carne di scrittore
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E-book177 pagine2 ore

Carne di scrittore

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Info su questo ebook

Questo romanzo è un atto d’accusa contro la modernità e la celebrità del falso, del finto, del recitato. I personaggi sono dodici scrittori che partecipano al reality Carne di scrittore. Il protagonista, Isaia Mori, è uno chef che ha sempre sognato di diventare uno scrittore e che, come gli altri, sceglie di entrare a far parte del reality. Dodici settimane per completare il libro, una settimana per ogni capitolo. Ogni settimana esce il concorrente che ha scritto il capitolo ritenuto più brutto. Il vincitore vedrà pubblicato il proprio romanzo.
L’autrice, con descrizioni minuziose, quasi paranoiche traccia perfettamente lo stato mentale del protagonista. Ma non lo fa raccontando il “soggetto” bensì traducendo in parole, con una maestria e una proprietà di linguaggio ammirevoli, la mania per i particolari, l’ossessione per le sfumature, la puntigliosità fastidiosa dei dettagli. Le vite dei concorrenti vengono annullate e trasformate in vite già scritte, già decise, come i loro romanzi, in cui la dignità viene sacrificata sull’altare dei dieci minuti di notorietà. I concorrenti vengono eliminati uno dopo l’altro come i dieci piccoli indiani di Agatha Christie.
Ma Carne di scrittore è anche un romanzo dentro il romanzo che contiene un altro romanzo: un meccanismo di scatole cinesi pronto a esplodere.
LinguaItaliano
Data di uscita27 mag 2020
ISBN9788835836230
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    Anteprima del libro

    Carne di scrittore - Teresa Verde

    Elvis

    Dieci poveri negretti

    Dieci poveri negretti se ne andarono a mangiar:

    uno fece indigestione, solo nove ne restar.

    Nove poveri negretti fino a notte alta vegliar:

    uno cadde addormentato, otto soli ne restar.

    Otto poveri negretti se ne vanno a mangiar:

    uno, ahimè, è rimasto indietro, solo sette ne restar.

    Sette poveri negretti legna andarono a spaccar:

    un di loro s’infranse a mezzo, e sei soli ne restar.

    Sei poveri negretti giocan con un alvear:

    da una vespa uno fu punto, solo cinque ne restar.

    Cinque poveri negretti un giudizio han da sbrigar:

    uno lo ferma il tribunale, quattro soli ne restar.

    Quattro poveri negretti salpan verso l’alto mar:

    uno un granchio se lo prende, e tre soli ne restar.

    Tre poveri negretti allo zoo vollero andar:

    uno l’orso ne abbrancò, e due soli ne restar.

    I due poveri negretti stanno al sole per un po’:

    un si fuse come cera, e uno solo ne restò.

    Solo, il povero negretto in un bosco se ne andò:

    ad un pino s’impiccò, e nessuno ne restò.

    Ten Little Nigger Boys

    La televisione ti brucia il cervello.

    Tira fuori i coglioni e liberatene!

    Isaia Mori

    Introduzione

    Ne parlavano tutti: tv, radio, giornali, internet. Da quasi un anno.

    Prossimamente sui vostri schermi non il solito reality, bensì un vero e proprio evento esplosivo che vi sorprenderà. Aspettatevi il peggio che le vostre menti possano concepire.

    In sovrimpressione:

    Aspiranti scrittori, inviate il vostro romanzo a carnediscrittore.reality@tv.com In bocca al lupo a tutti!

    Non si aspettava altro ormai.

    Nemmeno Natale era tanto atteso.

    Non ricordavo male. C’era.

    Lui, l’unico manoscritto sopravvissuto al rogo.

    Era lì, in cantina, chiuso in una vecchia scatola di scarpe.

    Quel figlio imperfetto aveva resistito.

    Tornai a casa e lo scannerizzai.

    Non avevo nessuna voglia di trascriverlo al computer.

    Non avevo nessuna voglia di leggerlo.

    Non avevo nessuna voglia di guardarlo negli occhi.

    Non avevo nessuna voglia di ricordare...

    Lo inviai.

    Caddi in quella maledetta trappola come un povero ingenuo.

    Io, Isaia Mori.

    lo, il Mark Ryden della cucina nordica.

    Io, il grande chef del grande Noma di Milano.

    Ieri

    Da ragazzo, quando sentivo parlare di crisi di mezza età, vedevo un cane che aiutava un cieco ad attraversare la strada.

    Pensa a una strada grande, di sera, con tante luminarie.

    Che ne sentissi parlare al notiziario o alla radio, in un bar, sotto la doccia o mentre cucinavo, la strada era sempre uguale e anche il cieco e il cane erano identici.

    Il cieco non era un barbone ubriaco, come probabilmente stai pensando, e non era neanche vecchio. Somigliava vagamente a Elvis Presley. Ma non quello bello.

    Hai presente la mattina in cui schiatta a testa in giù nel cesso della famosa jungle room di Graceland, Memphis, Tennessee; quarantadue anni, centoquindici chili di carne flaccida, drogata e alcolizzata? Uno che faceva colazione con sei uova, pancetta affumicata grondante di grasso, patate al burro e succo d’arancia.

    Diciotto pastiglie diverse di vitamine altrettanto diverse.

    Uno che a qualsiasi ora trangugiava purè di patate col sugo, crauti, piselli, pomodori a fette, sandwich ripieni di bacon, burro di arachidi e marmellata di fragole, hamburger e patatine fritte, uno con la casa strapiena di snack e dolci.

    Uno con il bel faccino del Sud ormai deturpato dall’adipe, che faceva fatica persino a lavarsi.

    Valmid, Tuinol, Seconal, Dilaudid, Quaalude, Amytal, Placydil, Codeina, Metaqualone, Diazepam, Etinamato, Eclorvinol, Amibarbital, Meperidina, Feniltoxamina, Cocaina. Roba chimica. Roba molecolare sparata intramuscolo, in bocca, nel naso.

    Lo trova così, nudo e gelido come burro surgelato, Ginger Aldan, la sua ultima ragazza. Povera donna! Avevano appena fatto progetti per il loro matrimonio. Chissà che shock vedere il suo adorato re del rock‘n’roll con la faccia livida, bluastra e deforme, annegata nel vomito, i denti serrati sulla lingua bianca ciondoloni, gli occhi iniettati di sangue e murati dalle palpebre.

    Il tizio aveva anche qualcosa di Joan Crawford, come la puoi vedere in una di quelle vecchie foto in cui beve una Pepsi dalla bottiglia.

    E aveva il neo di Marilyn.

    Roba vintage. Roba molto kitsch.

    Il cane, poi, non somigliava neanche lontanamente a uno di quei cani da rivista che a vederli fanno una gran tenerezza, mandandoti in una trance temporanea ma irreversibile, non era un Golden Retriver o qualcosa del genere, come probabilmente stai immaginando. Era invece un mastino, una specie di rottweiler incazzato.

    Elvis ciccione se ne andava in giro così, come se niente fosse, a petto nudo, con una catena d’oro al collo, vestito con tanto di pelliccia e lustrini e pantaloni di pelle e aveva tutta l’aria di fottersene altamente di essere cieco. Ogni più intima cellula del suo essere faceva girare i coglioni, persino la forma allungata della montatura di elastomero flowergloves dei suoi occhiali scuri, persino l’odore dolciastro di cipolla fritta che emanava la sua pelle, persino la sua voce da checca.

    Attraversava la strada, trascinandosi il bastardo con un guinzaglio glam tempestato di strass, dandosi arie indisponenti da vedente che non aveva nessun cazzo di problema.

    Un tempo, quando ero giovane, credevo di essere più che uno scrittore. Mi sentivo un po’ il Mark Ryden della scrittura. A quei tempi mi guardavo allo specchio e che cosa vedevo? Eccomi lì, bello come un dio, il dio Elvis, quello dallo splendido e angelico faccino del Sud che sorrideva con un lato del labbro superiore alzato, fico e giovane, potentissima carica esplosiva di bramosia e farsa.

    Come lui avrei potuto scatenare l’isterismo collettivo, se solo qualcuno me ne avesse offerto l’occasione.

    Mi radevo canticchiando Suspicious mind.

    Fare il sous chef in quella bettola che faceva hot-dog e salamelle non mi bastava.

    Quando cominciavo a scrivere, non mi fermavo. Me ne stavo rintanato nel piccolo studio polveroso della mia garçonnière polverosa, con la mia amatissima Polygraph, per ore e ore. Scrivevo, bevevo e fumavo.

    A volte prendevo appunti nascosto nella cucina del ristorante, in mezzo all’unto che incatramava l’aria.

    Ammazzavo il tempo, mentre lui ammazzava me, spolpandosi microbrano dopo microbrano la mia carne di scrittore.

    La mia carne in gelatina.

    Scrivevo fino all’istante in cui le lancette dell’orologio ricomparivano sotto forma di roba sensoriale. Diventavano voglia di cibo, di una cioccolata calda o di un caffè, di un futon su cui dormire, di impellente bisogno di pisciare. Scrivere era la vita, la vita non era nient’altro che una pausa.

    Cucinare faceva parte della vita.

    Sì, allora era così.

    Allora, però, il Noma non esisteva nemmeno nel mio inconscio. Finché, dopo il sangue e il sudore e il cervello versati e spalmati su almeno quattro stesure, dopo l’inevitabile the end, dopo aver finalmente sgravato la mia creatura, dopo quel saluto emozionato, inzuppato di lacrime e di liquido amniotico, erba magica e alcol, eccomi lì ad annullare ancora il tempo in un ufficio postale del cazzo, in piena estate, a far la coda con il peso di sei-sette cloni di mio figlio, il mio capolavoro, mentre le mosche e le zanzare mi mangiavano vivo e il ventilatore mezzo scassato mi ricordava inesorabilmente che non ero un dio, e mi conduceva fino al ghigno che l’impiegata era convinta di spacciarmi per sorriso.

    Sei-sette raccomandate con ricevuta di ritorno mi separavano da quel ghigno, sei-sette cloni inculati nel tapis roulant di un cielo sempre meno blu, mentre mi sentivo precipitare ancora più giù per via del caldo asfissiante.

    Ormai lo percepivo nitidamente, attraverso l’odore di cipolla fritta che emanavano le mie ascelle, si stava espandendo a macchia d’olio sulla mia t-shirt.

    Infine, stremato, uscivo come l’unico sopravvissuto a un ci- clone, tutto galvanizzato, con l’adrenalina che mi scorreva fino alla punta della cappella del cazzo e me ne tornavo a casa a vedere Hazzard.

    E mentre scorrevano le immagini di Bo, Luke e le gambe superchilometriche di Hotpantsdaisyduke sul mitico Generale Lee, non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagine di me mentre, in giacca e cravatta, firmavo quel contratto editoriale che mi avrebbe reso famoso.

    È l’ultimo tentativo. Se non mi pubblicano neppure questo, smetto per sempre. Genio incompreso che non sono altro, pensavo in quell’ultimo ufficio postale della mia vita, mentre studiavo la preparazione di un tortino alle melanzane su chips di parmigiano e biscotto al caramello di aceto balsamico.

    In realtà, voleva essere una specie di gesto scaramantico, in quanto la rassegnazione, purtroppo, è un punto di arrivo difficile da raggiungere, soprattutto per chi si crede un dio.

    È come un orgasmo per una donna frigida.

    Probabilmente se avessi già raggiunto l’ambitissimo traguardo, non avrei scelto di andare in quella specie di bordello di lusso con spa.

    Non posso credere che stai leggendo.

    Forse ti stai pure rompendo le palle, probabilmente hai già saltato tre o quattro pagine.

    Ora ti dico una cosa.

    Piuttosto che scrivere questa roba, avrei fatto meglio a rinchiudermi in un fumoir e ingurgitare oppio come Robert De Niro in quella scena di C’era una volta in America, con lo squillo autistico di un telefono vintage nei timpani, ad aspettare che la morte arrivasse sotto forma di cappio onirico-oppiaceo.

    Invece ero lì, lettore di reality show, pronto a porgerti il culo, a rischiare, a illudermi che tu potessi amarmi.

    Stavo cadendo ancora una volta, paradossalmente, nella convinzione di essere rimasto in gioco, mentre invece stavo fallendo anche questa volta.

    Chi non ha bisogno di sentirsi scelto, di sentirsi dire Ok, mi assumo tutti i rischi, ti pubblico. Ok, mi assumo tutti i rischi, ti leggo?

    È come sentirsi dire, Ok, mi assumo tutti i rischi, ti scelgo. Perché ti amo incondizionatamente!

    Non è così, non lo è neanche adesso.

    Non sei stato tu a scegliermi, anche se credi di averlo fatto. Non era così nemmeno quando la verità era anche più cruda.

    Così, dopo l’ennesimo no, completamente fatto di alcol ed erba magica, ho dato quintali di carta alle fiamme.

    Una sera ho smesso di scrivere con la stessa naturalezza con la quale l’ho fatta finita, una buona volta, di guardare roba come Hazzard.

    Quella sera ho bruciato tutti i miei manoscritti. I tuoi anoscritti, direbbe Elettra.

    In un rito macabro, con una diabolica risata, con Suspicious mind che faceva da colonna sonora a quel film dell’orrore, come se fossi un assassino.

    Un figlicida piromane.

    Ho gridato: Brindo a te, vergine stuprata, sentendomi molto vicino a Carlo, il figlio della pazza assassina di Profondo rosso.

    Ma era la carne della mia carne, era il sangue del mio sangue che stava bruciando e io ero né Noodles né un pianista inglese di nome Marc Daly, ma un figlicida, un dio sconfitto, crudele e privo di compassione e della minima capacità di perdonare.

    Durante il flash-over ho visto la Vergine Maria e ho bestemmiato piangendo.

    Durante il flash-over ho visto Daisy Duke con un’aureola fra i lunghi e conturbanti capelli, che al volante del Generale sparava ai cugini Bo e Luke Duke.

    Il loro sangue macchiava i suoi hot pants di jeans e le sue gambe chilometriche e mitiche.

    Insieme alla carta e all’inchiostro bruciavano tutti i miei sogni, le speranze, i sacrifici fatti, gli spazi denudati dalle lancette.

    A te che in questo momento leggi, dedico questa specie di romanzo.

    A te, che hai i minuti contati e non te ne frega un cazzo ma dovresti nutrire la tua ultima speranza di poter essere felice.

    A te, lettore di reality show, dedico me stesso.

    Ma non aspettarti che questo ti migliori in qualche modo la vita, sarebbe una stronzata. Perché è tutto inutile, leggere questa roba forse ti potrà migliorare l’ortografia e arricchire il lessico.

    Però, non solo non ti cambierà la vita, ma potrebbe anche danneggiarti il cervello.

    Se non hai abbastanza equilibrio, se la

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