L'ospite (in)atteso: Il coronavirus tra errori ed omissioni
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Anteprima del libro
L'ospite (in)atteso - Edoardo Altomare
Riflessi
Edoardo Altomare
L'OSPITE (IN)ATTESO
Radici Future
Versione digitale: © luglio 2020 Radici Future Produzioni soc. coop.
www.radicifuture.it | info@radicifuture.it
Tutti i diritti sono riservati.
I
INTRODUZIONE
«Negli ultimi 20 anni abbiamo ricevuto sei minacce significative: SARS, MERS, Ebola, influenza aviaria e influenza suina». L’ultima è il Covid-19: «Abbiamo schivato cinque proiettili, ma il sesto ci ha beccato in pieno». È quanto ha detto a BBC News l’epidemiologo veterinario Matthew Baylis, dell’Università di Liverpool. E noi non eravamo preparati a questo evento. In molti sapevano che sarebbe potuto accadere, ma i politici di tutto il mondo si sono rifiutati di ascoltare gli allarmi degli scienziati, di investire risorse umane e finanziarie per farsi trovare pronti. Alla luce dell’impreparazione dimostrata nelle prime fasi dell’attuale pandemia, fa male dover riconoscere che a risparmiarci dalle precedenti near miss è stata soprattutto una buona dose di fortuna. Ma stavolta ci è andata male.
Dal suo osservatorio professionale, posto al confine tra due mondi - animale e umano - Baylis ha aggiunto un pronostico, purtroppo facilmente condivisibile (non solo da molti suoi colleghi): che cioè questa pandemia da Sars-CoV-2 non sarà l’ultima, ce ne saranno altre. Ci aspetta il prossimo salto di specie - un nuovo spillover - e poi un altro e un altro ancora. Sono in agguato nuovi virus o microbi emergenti, e dovremo essere in perenne stato di allerta, ponendo un’attenzione sempre maggiore alle malattie della fauna selvatica.
Questa sorveglianza è sempre più importante, perché abbiamo creato le condizioni per una tempesta quasi perfetta: l’arrivo di nuove epidemie globali[1]. La stessa espressione risuona nel report dello scienziato cinese Yong-Zhen Zhang: «L’emergenza e la rapida diffusione del COVID-19 rappresentano una tempesta epidemiologicamente perfetta». È accaduto in altre parole che un agente patogeno respiratorio proveniente da una famiglia di virus dalla virulenza relativamente elevata, fornito però di un insolito talento nel superare i confini tra specie, è saltato fuori verso la fine del 2019 nel momento più opportuno (dal suo punto di vista, ovviamente). Cioè nel bel mezzo di un popoloso centro urbano cinese e snodo di collegamenti (Wuhan), poco prima del più importante evento tradizionale dell’anno: il Chinese Spring Festival. In effetti i modelli epidemiologici suggeriscono che il Sars-CoV-2 fosse ormai già ampiamente diffuso in Cina prima che alla città di Wuhan venisse imposta una stretta quarantena[2]. Un’indagine della Harvard Medical School, riportata dal Guardian, parla addirittura di agosto 2019[3].
Sulle ali dei pipistrelli
L’esito dei primi confronti tra genomi virali ha rivelato che i virus più strettamente correlati al SARS-CoV-2 provengono dai pipistrelli. I campionamenti eseguiti negli ultimi anni hanno identificato una serie impressionante di coronavirus in questi mammiferi alati, che sono senza alcun dubbio un importante reservoir (serbatoio) per questa famiglia virale. Il perché ce lo spiega lo scrittore scientifico David Quammen: i pipistrelli vivono a lungo e si aggregano in colonie molto affollate, come quando dormono stipati nelle grotte. Due elementi che possono contribuire alla circolazione dei virus tra loro. In più, non se ne ammalano. Ma col passaggio agli umani il virus si moltiplica e diventa aggressivo, come è accaduto col Sars-CoV-2. È inutile dare la croce addosso ai pipistrelli: la soluzione non è ucciderli, perché abbiamo bisogno di loro nei nostri ecosistemi. «La soluzione - avverte Quammen - è lasciarli in pace»[4].
Il bioterrorismo della natura
Nel mese di febbraio 2020 il Direttore generale dell’Oms Ghebreyesus ha definito il coronavirus una minaccia peggiore del terrorismo
. All’epoca della Sars (2003) e poi dell’influenza aviaria (2005), alcuni avevano parlato di bioterrorismo della natura
[5]. Il virus ci ricorda che i confini esistono - quelli di specie, non le frontiere -, ma che i virus hanno da tempo iniziato a non rispettare nessuno dei due. Lo scrittore Sandro Veronesi confessa: «Sappiamo tutti benissimo che la maggioranza delle cose che facciamo in capo a una giornata è nociva o tossica per il pianeta che ci ospita, ma continuiamo a farle […] Noi siamo diventati un dannato virus, per il nostro pianeta, e il nostro pianeta cerca di difendersi». Dunque: «Noi siamo il virus, gli uomini sono il virus, io sono il virus»[6].
Ma attenzione: il Covid-19 non è un castigo divino, né una nemesi della storia, sottolinea la filosofa Donatella Di Cesare. Difficile non scorgere nella pandemia la conseguenza di scelte ecologiche tanto miopi quanto devastanti[7]. Su questo c’è concordia tra gli intellettuali, che finiscono sovente per esprimersi col piglio degli esperti. Come ad esempio un altro scrittore, Paolo Giordano: «Quanto sta accadendo non è un accidente casuale né un flagello. E non è affatto nuovo: è già accaduto e accadrà ancora»[8].
Dal che si evince con chiarezza che Giordano abbia letto lo Spillover di Quammen, dove si sostiene che dovremmo renderci conto che le recenti epidemie di nuove zoonosi sono conseguenze di nostre azioni, e non accidenti che ci capitano tra capo e collo[9]. Basti pensare che il tasso di crescita della popolazione umana negli ultimi decenni è tale che, mentre nel 1987 al mondo c’erano cinque miliardi di persone, alla fine del 2011 eravamo già sette miliardi, ed ora siamo a quota 7,7. La specie umana è l’unica che progredisce modificando profondamente e sistematicamente l’ambiente[10]. La deforestazione, la violazione di ecosistemi che porta ad una minore biodiversità, le trasformazioni degli habitat: molti scienziati concordano sul fatto che l’impronta antropica sull’ambiente stia aumentando i contatti uomo-natura, col rischio di favorire sempre più frequentemente la diffusione di patogeni (virus, batteri, parassiti) dagli animali agli esseri umani.
Vaccino: il Santo Graal
È incalcolabile il numero di occasioni in cui, nei mesi più cupi di questo incubo virale, è stata pronunciata la parola vaccino
da opinionisti, conduttori di talk show, luminari di varia competenza e caratura (virologi, epidemiologi, infettivologi, a parte i ministri e i vice-ministri).
Vaccino. A questa parola magica sono state appese tutte le speranza di una platea mondiale attonita e impaurita, e per questo ancor più bisognosa di conforto. Gli esperti, o presunti tali, hanno promesso che sarebbe stato disponibile nel giro di sei mesi, forse dodici, più probabilmente diciotto. Un polverone tale da non consentire di distinguere le poche cose che si possono affermare oggi, con un ragionevole grado di certezza.
Allora, riconoscendo subito il debito, prendo spunto da un recente articolo firmato dallo storico della Medicina, Gilberto Corbellini. Partiamo da una premessa: fare un vaccino non è scontato. Occorre infatti fare i conti con il sistema immunitario reale, le cui risposte non sono prevedibili, e alcune lezioni del passato dovrebbero rendere tutti più cauti. Trentacinque anni fa, e per diversi lustri a seguire, sembrava che un vaccino contro l’Aids fosse alla portata, ma finora - malgrado i reiterati annunci - non se ne riesce ad averne uno efficace. Da quasi un secolo si prova inutilmente a fare un vaccino contro la malaria. Non esistono vaccini contro SARS e MERS, e Corbellini fornisce un nutrito elenco di altre malattie infettive tuttora orfane di un vaccino, aggiungendo che negli ultimi due decenni solo il 10-15% dei vaccini che si è provato a sviluppare industrialmente è stato approvato o commercializzato.
Certo, nel caso del Covid-19 l’urgenza potrebbe spingere a cercare scorciatoie, ma questo non deporrebbe a favore della sicurezza d’impiego (le scorciatoie sono sempre pericolose!) e aumenterebbe i rischi di un fallimento. Sui vaccini grava costantemente la minaccia di possibili effetti collaterali ed anche quella di un’adeguata efficacia epidemiologica: ad esempio, quale dosaggio e modalità di somministrazione impiegare, dato che potrebbe non essere sufficiente un’unica somministrazione?[11]
Alla fine è sperabile che tutti (o quasi) abbiano inteso che lo sviluppo di un nuovo vaccino, la sua produzione su ampia scala - si dovrà capire come produrne almeno 7 miliardi di dosi in pochi mesi! - la sua distribuzione e, last but not least, la sua somministrazione richiederanno almeno un anno, se non due o più.
«Il vaccino è un problema enorme che incombe su tutti noi», avverte l’economista Joshua Gans (Università di Toronto), autore del primo libro sull’economia ai tempi del coronavirus[12]. E chiarisce il perché. Se e quando un vaccino arriverà nel 2021, non ci saranno dosi sufficienti per tutti, quindi bisognerà ricorrere a strategie di razionamento. Gans suppone che la precedenza verrà riservata alla vaccinazione dei lavoratori essenziali
(si parla di operatori sanitari e forze dell’ordine), poi seguiranno le persone più vulnerabili e a rischio - come gli anziani -, dopo di che non si può escludere che si faccia ricorso ad un sistema di assegnazione a lotteria
, magari associandolo ad uno di rivendita (se vinci, puoi rivendere la tua dose a chi è più indietro nella fila). Non sarà facile, né piacevole, e comunque «in realtà nessuno ha ancora un piano per questa fase», commenta l’economista[13].
Anche perché un vaccino anti-Covid sicuro ed efficace non c’è ancora, e se ci fosse potrebbe salvarci, ma anche comportare seri grattacapi. Nel frattempo il ministro della salute Roberto Speranza ha annunciato la sua scelta. Insieme a Francia, Germania e Olanda, l’Italia ha