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...E divenne nazione
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E-book267 pagine3 ore

...E divenne nazione

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Info su questo ebook

Come autrice per ragazzi ho voluto narrare episodi della storia del nostro Risorgimento. Rivolgendomi ai miei lettori ho naturalmente scelto dei ragazzi come protagonisti delle prime avventure, pensando che queste potevano essere logiche anche se frutto della mia fantasia.

Come torinese ho saputo interessarmi di quel "qualcosa" che era iniziato anche a Torino, e come italiana ho rivolto la mia attenzione anche ad altri posti. Siamo diventati nazione nel 1860, anche se mancavano ancora territori che si aggiunsero dopo e anche se purtroppo, per ragioni necessarie avevamo perso Nizza e la Savoia. La Casa Sabauda Ha avuto molta importanza nel Risorgimento, anche se adesso siamo una repubblica. I fatti storici non si possono cancellare ed è importante che ce ne rendiamo conto.

Cari lettori e lettrici vi invito a divertirvi leggendo gli episodi e mi scuso per quelle note storiche che ho dovuto scrivere per legare tutti gli anni che volevo trattare.
LinguaItaliano
Data di uscita20 ago 2020
ISBN9788831690157
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    ...E divenne nazione - Erminia Palmas

    1821

    CACCIA AL FANTASMA

    1.

    La porta della camera si socchiuse e fece capolino un viso dall’espressione spaventata sotto la cuffietta finita di traverso.

    - Contessina ...- articolò a mezzo tono una vocina piena di paura.

    Le molle del letto scricchiolarono e con un sospiro d’impazienza una ragazzina saltò fuori dalle cortine di mussola tirate soltanto a mezzo.

    - Finalmente! Ce ne hai messo del tempo! Vieni dentro dunque.

    L'altra obbedì. Doveva appena aver finito il suo lavoro in cucina, indossava ancora il grembiulone di telaccia sopra l'abito di rigatino. Era infatti una delle ragazzotte del paese che la contessa Brunati assumeva come aiuto durante l’estate, quando la villa si riempiva di gente.

    - Non ho potuto lasciar prima la cucina ... magna Angela preparava i polli per domani- si scusò.

    - Va bene, tanto è ancora presto. L'hai portato?

    La sguatterella aveva sul braccio un mantello di panno scuro, un indumento vecchio e logoro. Lo tese con qualche esitazione.

    - Eccolo. Non l'ho potuto lavare e ...

    - Ci mancherebbe che l'avessi fatto! Dammelo, è giusto della mia misura, ti pare? No, è un po' lungo, ma non importa.

    La ragazzina fece una piroetta, si gettò l'indumento sulle spalle e andò a porsi davanti allo specchio ovale appoggiato su un piccolo basamento di legno sul piano del cassettone.

    - Non mi posso vedere qui dentro, è troppo piccolo- si rammaricò- Dimmi, Adele, il vestito è abbastanza coperto?

    Adele rispose giungendo le mani:

    - Io le ho obbedito, tota Ivette, ma ci pensi bene! Ha davvero intenzione d'uscire? E se … Dio non voglia … ci fosse pericolo?

    Ivette batté con impazienza il piede in terra.

    - Via, Adele, non esco dal parco! Che pericolo vuoi che ci sia? Grazie al tuo mantello scuro, sotto agli alberi non mi vedrà nessuno. In ogni modo tu non sarai incolpata di nulla, te lo prometto. Piuttosto, hai portato la lanterna?

    Adele trasse l'oggetto dalla capace tasca del grembiule.

    - Eccola. E' quella della cantina. Devo rimetterla nel sottoscala prima che qualcuno la cerchi.

    - Uffa, nessuno va in cantina a quest’ora della notte. Dormono tutti. Fidati! E ora va’, vai!

    - Ma se il … il …

    - Il fantasma!- rise Ivette- Non riesci neppure a pronunciarne il nome!

    Adele si fece il segno della croce:

    - Lei ha studiato, contessina, non è un'ignorante come me. Ma io so che è bene non chiamarli in nessun modo. Se comparisse ...

    - E’ quello che voglio: vederlo! Dicono che appare, io dico che sono tutte sciocchezze. Bisogna bene che mi renda conto, dunque!

    - Ma da sola!

    - Vieni anche tu!

    - Gesummaria!- Adele ricominciò con i segni di croce.

    - Vedi! Su, non aver paura. Sono sicura che non vedrò nulla, farò semplicemente una passeggiata nel parco, al fresco. E' la notte adatta perché c’è la luna e la zia non è alla villa. Lei verrebbe a darmi la buonanotte, salendo, e a sgridarmi per il lume ancora acceso. Va’ insomma! Buonanotte.

    - Che Dio l’accompagni, contessina.

    Adele sporse il capo per assicurarsi che nella saletta contigua non vi fosse nessuno, poi uscì chiudendosi senza rumore l'uscio alle spalle. La scala di servizio si trovava dietro una porta poco lontana e, giuntavi, lei non avrebbe avuto più alcun timore d’eventuali incontri.

    Ivette tirò un sospiro di sollievo. C’era riuscita!

    Si avvicinò alla finestra, aperta in quella calda notte di luglio. I tendoni bianchi si muovevano appena alla brezza che proveniva dalle fronde dei tigli vicini alla casa. Ne scostò uno e guardò fuori. Al di là della panciuta ringhiera di ferro battuto del balcone il parco e, più oltre la campagna, sembravano essersi tinti d'azzurro sotto i raggi della luna piena. Le ombre erano nette. Dal campanile della chiesa del villaggio giunsero undici tocchi: era l’ora.

    Si era infilata nuovamente l'abito di percalle indossato quel giorno … le spedizioni in camicia da notte non sembravano convenienti. Il mantello scuro, chiesto in prestito perché lì in campagna non aveva portato indumenti del genere, lo copriva. Nascose nel cappuccio le trecce in cui raccoglieva i capelli andando a letto. Si assicurò che le scarpe da passeggio fossero ben allacciate, che nella lanterna il moccolo fosse ben sistemato. Spense il lume a olio posato sul cassettone. Non aveva più motivo d’indugiare per cui tirò un respirone e si avviò.

    Scese la larga scala di pietra che conduceva al pianterreno senza alcun inconveniente. Tutto era silenzio anche in casa: i domestici si erano ritirati, i ragazzi, Corrado e il suo amico Carlo, dovevano essere a letto a dormire, come si supponeva stesse facendo lei. Persino Emanuele era salito in camera, contrariamente alle sue abitudini. Per uscire dalla casa doveva recarsi nei locali di servizio e tirare il paletto della porta della dispensa che dava sul cortile. Quando ebbe aperto riaccostò il battente e mise in mezzo un sasso per impedire che si richiudesse. Contava d’esser di ritorno ben prima che i domestici scendessero. L’unica cosa che non aveva previsto era che il cortile fosse completamente inondato dalla luce della luna. Sentendosi mille occhi puntati addosso l’attraversò in fretta, tenendosi alla larga dalle scuderie, dove dormivano i garzoni. Il mantello l’avrebbe fatta scambiare per una domestica, ma non era il caso di farsi avvicinare. Il cancelletto che permetteva il passaggio al giardino era sempre aperto. Quando fu nell’ombra dei viali, respirò di nuovo. Nessun grido aveva fermato il suo rapido passaggio allo scoperto e adesso poteva sperare che la sua impresa giungesse a buon fine.

    2.

    Al discorso aveva dato l’avvio quel saputello di Corrado, di questo Ivette era certa. Aveva cominciato col dire che la cappella abbandonata, la si chiamava così da quando Monsignor Vicario aveva proibito di celebrarvi messa perché il luogo era stato profanato dai francesi dell’Empereur, era infestata. Ci abitava un fantasma, un tale che andava in giro indecorosamente senza testa, indossando la divisa d’uno dei corpi d’armata di Napoleone. Secondo il ragazzo si trattava d’un ufficiale francese che si era innamorato d’una bella contadina piemontese. Gli incontri dei due amanti avvenivano nella cappella, ma purtroppo un giorno il marito della signora … Naturalmente a questo punto era intervenuto Emanuele, che prendeva molto sul serio l’incarico di sorveglianza sui tre più giovani: il cugino Corrado, il suo amico Carlo, e lei, Ivette, incarico ricevuto da tante Caroline al momento d’assentarsi. Corrado e Carlo si erano messi a ridere e si erano scusati, guardandola. Era tutta una stupidaggine perché lei immaginava benissimo il finale della storia: il marito della contadina aveva preso un forcone o altro arnese adatto e, sistemato per sempre l’ufficiale, ne aveva seppellito il corpo nei paraggi. Così il poveretto aveva finito per fare il fantasma apparendo nella cappella dei suoi incontri d’amore.

    Quello che però le riusciva strano era perché Corrado avesse tirato fuori quel discorso a tavola. Va bene che era una sera in cui gli zii erano assenti, per cui non c’erano altri ospiti che Carlo. Ma se lo scopo era quello d’impressionare lei, Ivette, ci sarebbero stati dei momenti migliori. Invece aveva scorto Lena, la cameriera che serviva in tavola, farsi il segno della croce mentre manovrava il saliscendi del portavivande. Possibile che il discorso fosse stato fatto per spaventare proprio Lena e le servotte come Adele? Per tenerle lontane dalla cappella in questione in cui, nottetempo ovviamente, accadeva qualcosa? Dall’alto dei loro quattordici anni i due signorini consideravano lei dodicenne una bamboccia con cui degnarsi di giocare a croquet solo quando la zia glielo imponeva. Bene, si sarebbe visto.

    Ecco, staccatosi da un viale più grande, il vialetto cominciava a seguire il percorso del muro di cinta. Vecchie piante di nocciolo in filare incrociavano in alto i rami a formare una galleria, mentre arbusti dello stesso tipo crescevano qua e là sul terreno fra il muro e il vialetto. In fondo c’era la cappella il cui lato sinistro faceva parte del muro stesso. Una porta secondaria dava sulla strada esterna, così gli abitanti del villaggio, quando un tempo venivano per la messa, non dovevano entrare nella villa. L’edera che s’arrampicava sui muri della piccola costruzione, non più tagliata, aveva ricoperto anche parte del tetto. Il luogo era quindi particolarmente buio e il chiaro di luna inargentava soltanto la sommità aguzza sopra il portale, dove una croce di ferro battuto stava ad indicare che quello era stato un luogo sacro.

    Saliti i pochi gradini, Ivette si soffermò sulla soglia per accendere la lanterna di coccio. Finora non ne aveva avuto bisogno tanto era il chiarore del plenilunio, ma dentro sarebbe stato diverso. Alla spinta della sua mano, il battente cigolò sui cardini arrugginiti con un tal stridio che a momenti lei si lasciava sfuggire il lume.

    - Sta’ attenta, per favore!- disse a sé stessa.

    Non era proprio il caso di lasciare sul posto uno spiaccichìo di frammenti di terracotta. Una volta dentro, invece, rimase piacevolmente sorpresa. La luce della luna che entrava dalle tre alte e strette finestre dell’abside era ampiamente sufficiente cosicché, a scanso di futuri guai, lei posò la lanterna per terra al riparo, con lo spioncino quasi chiuso. Il luogo era quanto mai semplice. Sul fondo l’abside rialzata d’un gradino e, nel semicerchio, l’altare di legno rifinito da una bordura di stucco ai lati del tabernacolo. Era spoglio naturalmente, vi stava sopra soltanto un candeliere d’ottone, evidentemente dimenticato da un certo tempo. Niente balaustra e solo tre piccoli banchi per parte, come arredamento. Al di sopra del portale interno c’era una strettissima balconata a cui si arrivava da una ridottissima scaletta.

    Ivette aveva considerato la cosa in precedenza. I fantasmi, si sa, appaiono a mezzanotte, quindi per essere sicuri d’una eventuale loro presenza era necessario attendere l’ora fatale. Nonostante la tentazione di sedersi su un banco, la posizione migliore era lì dove si trovava, accanto all’uscio, cosa che le avrebbe permesso una rapida fuga in caso di necessità. Inoltre ai lati dei due battenti del portoncino sporgevano dal muro due piccole conchiglie di pietra, le acquasantiere. E’ vero che erano entrambe vuote ma lei, previdente, si era portata il necessario in una fiaschetta. La tirò fuori e versò parte del contenuto nella conchiglia più vicina, poi se la rimise al collo. Così si sentiva protetta in ogni caso.

    Il primo rumore che le giunse fu talmente improvviso che, nonostante il suo coraggio, notevole in una ragazzina di dodici anni, a momenti si lasciava sfuggire un grido. La visione d’uno scheletro vestito d’una logora giubba militare, le mani adunche protese verso di lei, le attraversò rapida la mente ma, per sua fortuna, allo scalpiccio udito fece presto seguito il cigolio deciso del battente, poi una voce seccata esclamò:

    - Mai che mi ricordi di portare un po’ d’olio!

    Era la voce di Corrado e tutta la sua paura svanì. Altro che fantasma! Si trattava d’uno scherzo bello e buono dei due amici. Senza far rumore scivolò verso l’angolo oscuro dov’era la scaletta. Era troppo tardi per nascondersi dietro le fiancate dei banchi. Il suo piede incontrò il rialzo del primo gradino e, sperando ardentemente di non suscitare scricchiolii, la ragazzina salì e si sedette in terra sulla balconata, appoggiando il viso alla balaustra polverosa. Soltanto quando fu sistemata, si ricordò della lanterna lasciata in basso, ben schermata ma accesa.

    Non era il caso di ridiscendere. Corrado e Carlo erano già entrati e si dirigevano all’altare, sicuri del fatto loro. Per prima cosa accesero il candeliere, posandolo sul pavimento dell’abside in modo che la debole luce non potesse esser vista attraverso le finestre. Poi tirarono fuori da dietro l’altare, evidentemente da un ripostiglio predisposto, un tappetino rosso che Ivette riconobbe per quello scomparso misteriosamente dalla stanza del ragazzo. Lo gettarono in terra e vi posero sopra un teschio. Un pugnale e un libro rilegato dalle cui pagine sporgeva un foglio di carta furono invece posati sull’altare. Infine, e questo fu il colmo, indossarono sull’abito un saio nero con un cappuccio che cadeva a coprire loro il viso e lo strinsero in vita con un cordiglio in cui infilarono un pugnale simile a quello posato in terra.

    Gli occhi della ragazzina erano più che spalancati. Se era uno scherzo, quello che i due stavano combinando, si doveva trattare di qualcosa di pazzesco. A chi era rivolto?

    Sembrava che i preparativi fossero terminati, ma quasi subito un leggero colpo fu battuto alla porta che dava sulla strada. Carlo andò ad aprire, girando la chiave già infilata nella toppa. Ivette vide entrare un altro caro amico di Corrado, Umberto Canova. Era venuto a far loro visita soltanto qualche giorno addietro in quanto passava l’estate nella villa della sua famiglia a poche miglia di distanza. Allora era venuto a cavallo e Ivette si sorprese a pensare a come aveva potuto, adesso, avere il permesso di farlo di notte. Non era solo e l’altro ragazzo che era con lui camminava con esitazione. Per forza: aveva il viso coperto da una spessa benda nera. Umberto lo condusse sino davanti ai due incappucciati e, a sua volta, indossò un saio simile, senza però coprirsi il viso. Alla luce tremolante dell’unica candela le loro ombre saettarono enormi per confondersi nel buio del soffitto. Corrado era al centro.

    - Puoi toglierti la benda- disse.

    L’altro slegò il fazzolettone, scoprendosi il viso: Ivette non lo conosceva, ma aveva più o meno l’età dei tre amici.

    Corrado proseguì:

    - Qual è il tuo nome?

    - Mi chiamo Riccardo di Roccavilla.

    - Bene, Riccardo. Che cosa sei venuto a chiedere?

    - D’esser accolto come membro della vostra società segreta.

    - Sai come ci chiamiamo?

    - Sì, i Piccoli Federati.

    - Conosci il nostro scopo?

    - Sì, è quello d’aiutare con ogni mezzo in nostro potere, gli adulti di cui conosciamo i sentimenti d’italianità. Essi non ci accettano fra di loro a causa della nostra giovane età, ma noi possiamo agire in segreto perché le loro azioni vadano a buon fine. Inoltre, come loro, cercheremo d’ottenere che il regno sardo diventi uno stato costituzionale.

    - Sono scopi che tu condividi?

    - Pienamente, per questo desidero dare il mio aiuto.

    - Sei consapevole che il nostro gruppo è segreto proprio perché è pericoloso divulgarne l’esistenza?

    - Si, ne sono consapevole.

    - Sei consapevole che le nostre azioni devono svolgersi doppiamente nell’ombra, perché di aiuto all’azione di altri che a loro volta svolgono il loro compito nel segreto?

    - Si, ne sono consapevole. Mi rendo conto che siamo dei ragazzi e come tali particolarmente impediti ad agire. Questo non vuol dire che la nostra azione non risulti utile.

    - Hai detto bene: siamo dei ragazzi, soggetti all’autorità dei nostri genitori. Sei disposto a sopportarne il biasimo se per caso fossi scoperto?

    - Sono disposto.

    - Sei disposto a non vantarti dei risultati che forse otterremo, pur di mantenere il segreto su di noi?

    - Sono disposto.

    - Sei disposto a essere un fedele suddito di Sua Maestà Vittorio Emanuele 1°, nostro re, a cui va tutta la nostra lealtà, anche se e quando avremo la costituzione?

    - Sono disposto.

    - Chi è il tuo garante?

    - Sono io, Umberto Canova.

    Corrado continuò a rivolgersi al neofita.

    - Sarà soggetto alla tua stessa pena, se ti rivelerai un traditore. Sei consapevole di questo?

    - Lo sono.

    - Allora ti ammettiamo a pronunciare il giuramento. Inginocchiati.

    Riccardo s’inginocchiò sul tappeto. Carlo gli pose davanti il libro aperto in modo che potesse leggere il foglio infilato nel mezzo, su cui era scritta la formula del giuramento. Lui vi posò sopra la mano destra, tenendo nella sinistra il pugnale in modo che l’elsa sembrasse una croce.

    - Su questi Sacri Vangeli e sulla croce del mio pugnale io, Riccardo di Roccavilla, giuro e prometto di lavorare per attuare gli scopi della società dei Piccoli Federati, di cui sto entrando a far parte, di serbare il segreto sulle azioni che mi verranno ordinate di compiere per attuarli e di non tradirla mai. Se diventassi spergiuro possa il mio corpo diventare ossa come questo teschio che ho davanti. Mi aiuti Dio a mantenere ciò che ora giuro e che sono pronto a sottoscrivere col mio sangue.

    Umberto andò dietro l’altare a prendere un quarto saio e aiutò Riccardo a indossarlo. Gli pose il cordiglio ai fianchi, poi il neofita baciò il pugnale che aveva tenuto in mano per giurare e lo porse a Corrado. Umberto gli aveva preso il braccio sinistro e, tirata su la manica della camicia, esposto l’avambraccio nudo. Corrado vi fece col pugnale un taglietto da cui sprizzò qualche goccia di sangue. Umberto mormorò:

    - Col dito.

    Allora Riccardo intinse l’indice della destra nel suo sangue e fece un segno sulla prima pagina del libro che adesso Umberto gli porgeva. Infine lo stesso Umberto fasciò il taglietto con una strisciolina di benda. Corrado restituì il pugnale e lui se lo pose alla cintola, poi i due incappucciati si scoprirono e i quattro ragazzi s’abbracciarono.

    - Non abbiamo molto tempo adesso- disse infine Corrado- Voi due dovete rientrare subito per non esser scoperti. Questa notte era importante per il giuramento di Riccardo, invece per discutere il programma futuro ci ritroveremo a casa tua, Umberto, martedì pomeriggio. E’ meglio fissare a casa tua, perché Ivette non ci accompagnerà, a meno che non venga anche mia madre.

    - E’ così curiosa tua sorella?

    - Non è mia sorella e sì, è molto impicciona e furba. Ed è difficile sviarla.

    A questa sincera dichiarazione Ivette, nel suo nascondiglio, si permise un sorriso di soddisfazione.

    I quattro si tolsero il saio, riposero accuratamente tutto, si salutarono, poi si udì lo scalpitio dei cavalli che si allontanavano. Chiusa la porta esterna, i due rimasti controllarono ancora una volta che tutto fosse in ordine.

    - Andiamo.

    Carlo aveva spento il candeliere ma Corrado aveva aperto il portoncino per fare luce, cosicché il debolissimo chiarore che proveniva dall’angolo dov’era nascosta la lanterna cieca non fu notato. Ma fu l’ultimo colpo di fortuna della ragazzina.

    Nell’avvicinarsi alla porta, Carlo improvvisamente scivolò.

    Cercando istintivamente un sostegno la sua mano affondò nella conca dell’acquasantiera più vicina.

    - Sta’ attento. Che fai?

    Senza replicare lui tornò a prendere il candeliere e lo riaccese.

    - Che succede?

    Il ragazzo alzò il lume per scrutare attentamente il pavimento.

    - Sono scivolato su del bagnato. Com’è possibile? E c’è dell’acqua qui dentro.

    - Ma che dici! Non è possibile che ci sia dell’acqua benedetta in una chiesa chiusa al culto. Mia madre l’ha senz’altro fatta togliere.

    -

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