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L'eredità della papessa
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L'eredità della papessa
E-book439 pagine6 ore

L'eredità della papessa

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Info su questo ebook

Un grande romanzo storico

Un antico segreto si nasconde dietro l’assassinio della papessa

855 d.C. 
Freya è poco più che una bambina quando assiste all’assassinio di sua madre, rapita dai vichinghi danesi. L’episodio la segna per sempre. 
Indurita nel cuore e decisa a non lasciarsi schiacciare da un destino avverso, Freya fugge verso sud, sulle tracce di suo nonno Gerold. Da quel poco che sa di lui, infatti, Gerold vive a Roma ed è al servizio del papa. Sotto mentite spoglie, Freya riesce a raggiungere la Città Santa. Ma il fato la metterà ancora alla prova: durante una processione la ragazza è testimone dell’assassinio di Gerold. Insieme a suo nonno viene ucciso anche il papa, che in realtà è una donna: l’abile guaritrice Giovanna. 
Freya decide che l’unico modo di trovare pace è scoprire chi c’è dietro l’assassinio. Anche se questo significa attirare l’ira dei potenti…

Bestseller in Germania 
La papessa Giovanna, una delle più affascinanti leggende medievali

«Una storia avvincente, ricca di riferimenti storici. Un libro che si divora!» 

«L’autrice dimostra una straordinaria abilità nel ricostruire una Roma medievale oscura e piena di intrighi.» 

«Un romanzo formidabile, capace di tenersi in bilico tra realtà storica e leggenda, senza sbavature.»
Helga Glaesener
Ha studiato matematica e informatica prima di diventare scrittrice. L’eredità della papessa è un bestseller in Germania. Vive a Oldenburg.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2021
ISBN9788822749048
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    Anteprima del libro

    L'eredità della papessa - Helga Glaesener

    Capitolo 1

    Danimarca

    Diciassette anni dopo

    Il crepuscolo trasformava il bosco. Il sole aveva appena illuminato l’orizzonte, immergendo faggi, crespini e mezerei in una luce serale dorata, quando d’improvviso sulle chiome degli alberi era calata la notte, come una ladra dalle dita scure.

    Freya era preoccupata. Quando faceva buio Elva conduceva le schiave nella sala dove le attendeva il lavoro domestico. Dovevano pettinare il cotone, rassettare i vestiti, intrecciare i lacci delle scarpe, conciare la pelle, spazzolare il paiolo… Talvolta le schiave riuscivano a prendere fiato nel trambusto del giorno, durante la ripartizione dei compiti in giardino, nei campi e nelle stalle, ma di notte era impossibile, perché Elva controllava tutti con occhio vigile, per evitare che qualcuno rallentasse il ritmo. Non tollerava l’oziosità.

    Allora era meglio tornare indietro, nonostante fosse già a metà strada, senza guardare nella trappola che aveva preparato qualche giorno prima durante una delle sue escursioni segrete? Freya si morse le labbra. Quanto tempo era passato dall’ultima volta in cui lei, sua madre Gisla e sua sorella Asta si erano sentite sazie? Due settimane? Tre? Il giorno prima aveva vomitato per aver ingurgitato carne avariata. No, avrebbe proseguito, nella speranza che non si sarebbero accorti della sua assenza. Doveva pensare a una scusa nel caso l’avessero scoperta.

    E se Elva non le avesse creduto? Be’, il peggio che poteva capitarle erano altre bastonate. Al momento nel villaggio c’erano solo sette schiave al servizio della padrona. Elva non poteva permettersi di rinunciare nemmeno a una di loro. Tantomeno a lei, una ragazza nel pieno della giovinezza, che avrebbe potuto servirla in casa e nei campi ancora per molti anni.

    La gonna le restò impigliata alla spina di un ramo e si lacerò. Strappò via la parte sfrangiata. A casa avrebbe dovuto rammendarla prima che Elva se ne accorgesse. Perché diavolo aveva sepolto la trappola così addentro nel bosco? Mentre correva si accorse che al calare della notte i rumori del bosco erano cambiati. I merli tacevano, e regnavano il bubbolare sinistro del gufo e il gracchiare dei barbagianni. Al concerto cupo degli uccelli si mescolavano rumori che non riconosceva. Rami spezzati dallo scalpiccio di zampe e zoccoli di animali invisibili, fruscii, sbuffi…

    All’improvviso il cuore iniziò a batterle forte. Al villaggio non era circolata la voce di un orso che sulla costa aveva azzannato degli agnelli? Dietro ogni arbusto poteva nascondersi un pericolo, potevano esserci dei proscritti in fuga nel bosco, dei cani selvatici senza meta, delle linci… L’inverno precedente Torfin era stato sorpreso da un branco di lupi. Si ricordava bene l’immagine del suo corpo straziato dai morsi. Le bruciavano gli occhi a forza di spingere lo sguardo attraverso l’oscurità.

    Smettila!, ordinò a se stessa. Ci mancava solo di cadere in preda al panico. L’unico vero pericolo era di non riconoscere, per via del buio, il punto in cui aveva messo la trappola. Avrebbe recuperato l’animale, caduto vittima del topo da lei usato come esca, e sarebbe tornata a casa… Una cosa alla volta.

    Freya abbassò la testa per scivolare sotto un albero che le sbarrava il passaggio. Inciampò e si rialzò. Infine raggiunse una quercia dilaniata da un fulmine, che fungeva da punto di riferimento, e piegò verso una parte ancora più fitta di bosco. Ancora pochi passi tra gli arbusti e avrebbe raggiunto la trappola. Quando si inginocchiò sulla fossa, sentì un fruscio, il cuore le batteva a mille per la felicità. Aveva preso qualcosa. In fretta e furia spostò di lato i resti di rami in cui era inciampata la preda. Si distese a terra, esplorò con le mani la buca a forma di imbuto e percepì tra le dita una pelliccia morbida. Un abbaio spaventoso, poi un morso. Aveva preso una volpe!

    Freya la tirò per la collottola e con la mano libera afferrò il coltello che aveva preso in cucina. Per un attimo provò compassione per la bestia che si dimenava tutta. Poi glielo infilò in gola.

    Poco più tardi, raggiunto il limitare del bosco, fu di nuovo colta dalla paura. In paese, dall’altra parte del prato, le luci erano già accese e c’era un pullulare di attività. Alla luce delle torce che illuminavano le case e le viuzze lastricate di tavolame, gli uomini baciavano con passione le loro donne, sollevavano in aria i figli piccoli e abbracciavano le nonne in lacrime per la commozione. Freya scorse Dammo, che scaricava le valigie dal dorso di un asino, e il claudicante Isenbard, che trascinava i sacchi con il bottino dentro la casa lunga di Björn Ragnarsson. Björn e i suoi compagni erano tornati dalle razzie! Ma perché oggi?, si chiese disperata. Perché proprio oggi? Sicuramente Elva aveva già chiamato a raccolta le schiave per preparare da mangiare. Ma forse nella confusione non aveva notato la sua assenza, vero? Non era impossibile che fosse andata così.

    Freya attraversò il prato cercando di restare bassa, saltò uno dei recinti più discosti e si infilò tra la gente senza dare nell’occhio. Nessuno si accorse di lei o notò il sacco bucherellato col bottino che teneva sotto il braccio. Solo il piccolo Orm, il figlio di un contadino, allungò la mano verso di lei e la guardò con estremo interesse. Lei gli regalò delle more che aveva raccolto durante l’affannoso rientro. Lui le sorrise e corse via a ingurgitare in pace il tesoro. I bambini erano gli esseri umani migliori. Donavano affetto senza secondi fini. Perfidia e falsità sarebbero venute dopo, con l’età.

    «Freya…».

    Chi la stava chiamando? Ah, era sua madre. Non serviva che Gisla sapesse quel che aveva fatto, si sarebbe arrabbiata comunque. Freya fece finta di non sentire e, girato l’angolo, si affrettò verso il casotto opposto, dove alloggiava con le altre schiave. Affaticata scese i gradini di legno a due a due fino al capanno interrato. Là sotto era buio pesto. Si piegò sotto la trave che reggeva la struttura al centro e nascose il prezioso bottino tra la paglia del giaciglio in cui dormivano Asta, lei e sua madre. Poi corse fuori, quasi travolgendo la sorella.

    «Dov’eri?», sibilò Asta. «Elva non fa che chiedere di te. Dobbiamo pulire le aringhe».

    «Cosa? Non vogliono mica festeggiare già stanotte?». Freya non era ancora salita su una delle loro barche, ma sapeva che lottare contro le onde richiedeva una forza immane. Anche la strada che dalla costa conduceva al piccolo insediamento, lungo la quale gli uomini avevano trascinato la barca su un tronco cavo, non era una passeggiata. Aveva dato per certo che i guerrieri si sarebbero ritirati nelle loro case a rimpinzarsi del cibo che c’era e poi sarebbero andati a dormire.

    «La festa vera e propria è domani, ma il pesce fritto lo vogliono subito». Come sempre, Asta aveva parlato con aria di sufficienza, perché era un anno più grande di Freya, cioè aveva quasi quindici anni. O forse l’arroganza era dovuta alla sua pelle straordinariamente chiara, alle labbra carnose e ai riccioli che si riversavano sulle spalle come rivoli d’oro. Gli uomini, padroni o schiavi, la guardavano e Freya sapeva che le piaceva essere ammirata. «Sbrigati, prima che quella si arrabbi anche con me e mamma». Asta le diede un colpo per metterle fretta.

    La casa in cui Björn viveva con la sua famiglia si trovava nel cuore del villaggio. Un casotto allungato che sovrastava gli altri di circa due metri, perché dotato di un secondo piano in cui trascorreva le notti con la sua donna. Sul tetto e tra le pareti a graticcio proliferava il muschio, dal foro del camino si alzava una voluta di fumo.

    Quando Freya aprì la porta, fu invasa da un coro di risate e da un’allegria chiassosa. Ma quell’aria giocosa era ingannevole. Si accorse infatti che quasi tutti gli uomini appena rientrati dal mare non si reggevano in piedi dalla stanchezza. Molti si erano accasciati contro il muro della sala, con le gambe allungate verso il camino e in mano i corni con l’idromele che trangugiavano avidamente. Volevano fare festa, essere celebrati come eroi, qualcuno, forse, anche dimenticare le efferatezze perpetrate. In realtà, ciò di cui avevano più bisogno era dormire.

    «Vuoi mettere radici qui?», sibilò Asta alle sue spalle, spingendola dentro.

    Passando lanciò uno sguardo furtivo al suo signore, che si era accomodato su un letto imbottito di pellicce. Björn era un uomo muscoloso dai capelli biondi e la barba intrecciata, in cui comparivano i primi capelli bianchi. Gafna, la figlia maggiore – Elva non gli aveva dato figli, con suo gran dispiacere – era inginocchiata davanti a lui con un catino, pronta a sciogliergli la treccia e sistemargli l’acconciatura. I normanni erano vanitosi e fissati con la pulizia, come ripeteva spesso sua madre. Si lavavano ogni settimana e si cambiavano spesso i vestiti. Björn glielo lasciò fare, benché gli si stessero per chiudere gli occhi. Quando con la lama gli sfiorò una ferita non ancora cicatrizzata, lui imprecò ma non la colpì come avrebbe fatto con una schiava, perché era sua figlia.

    «Avanti, ci sta guardando», disse Asta spingendola di nuovo.

    E infatti, Elva indicò il secchio con le aringhe accanto al tavolo, dietro il camino. Le ragazze avvicinarono lo sgabello e Freya iniziò a squamare il pesce. Il vento fischiava attraverso le minuscole fessure alle pareti che di giorno lasciavano filtrare la luce. Nella stalla separata, sotto il dormitorio, pecore e capre masticavano l’erba. C’era odore di fumo e del sudore salato dei guerrieri appena rientrati a casa. Con la coda dell’occhio Freya vide che Björn e i suoi uomini si erano alzati e con fare svogliato si erano spogliati. Stavano per andare a lavarsi. Ed era positivo, perché così loro avrebbero avuto il tempo di cucinare.

    Freya squamava le aringhe e Asta tagliava loro la testa. Lavoravano con dita velocissime. L’importante era non farsi riprendere. Non in un giorno come quello, in cui tutti erano su di giri per il ritorno a casa degli uomini. Freya esaminò furtiva la pila di teste mozzate. Di solito le schiave potevano tenerle per fare una zuppa. Forse anche quel giorno sarebbe andata così. Volpe fritta e zuppa di pesce, che lusso! Anche se sarebbe stato meglio mettere da parte un po’ di cibo per…

    «Finalmente», sbraitò Elva.

    Freya sobbalzò. Gisla era entrata in sala, sulla schiena portava una pesante botte di idromele che la costringeva ad avanzare piegata sulle ginocchia. Freya vide che la madre, paonazza in volto, stava tremando per la fatica, ma fece finta di niente. Elva aveva reazioni contrastanti per quanto riguardava la sua schiava storica. La percuoteva per un nonnulla a ogni occasione. «Perché è invidiosa», aveva detto una volta sua madre impassibile. Anni prima Björn l’aveva catturata e resa sua schiava di letto, ed Elva non gliel’aveva mai perdonato, nonostante il marito non dormisse più con la rivale ormai da molto tempo. Gisla era invecchiata e sembrava un’anziana.

    «Troppo! Tagli via troppo». Elva si precipitò al tavolo, prese Asta per i capelli e tirò così forte che alla ragazza scesero le lacrime.

    «E tu, idiota, cosa stai lì a guardare con quella faccia?». Le parole erano rivolte a Gisla. «Muoviti, vecchia strega! E se rovesci qualcosa, ti aspetta la frusta!».

    Gisla cercò di appoggiare la botte su una mensola e, dopo vari tentativi, ci riuscì. Poi Elva riprese a strillare. «Razza di carogna maldestra, rovini tutto! Cosa ci resta da friggere, qua? Hai tagliato via la metà…». E schiaffeggiò Asta, che scoppiò a piangere. «Gisla, portala via. Porta quest’imbranata nella stalla, subito! A fare il burro. Tutta la notte, senza pause, fino a domattina! Dovrà pestare il burro fino al sorgere del sole! E che non perda tempo, altrimenti maledirà il giorno in cui è nata».

    Era una punizione durissima, quella, disumana, soprattutto perché Elva diceva sul serio. Nella stalla faceva freddo, e pestare il burro richiedeva una forza enorme. Sarebbe stato un coacervo micidiale che avrebbe ucciso chiunque. Cosa le era passato per la mente? Aveva tormentato Gisla, ma finora con le figlie si era sempre comportata come con le altre schiave.

    Freya guardò la sorella ed ebbe un tuffo al cuore. Poi abbassò la testa quando Elva la fissò con aria di sfida. Il resto della serata trascorse liscio senza altri intoppi.

    Parecchie ore dopo era distesa accanto alla madre nel capanno delle schiave. Faceva molto freddo, anche se era solo ottobre. Freya si accoccolò vicino a lei e avvinghiò le braccia al corpo minuto per scaldarla. Le galline che Elva aveva affidato loro scalpicciavano nella paglia, il vento fischiava contro la parte alta dello stanzone. Tutto il resto era immobile. Le altre schiave erano state prelevate dagli uomini rientrati dalle scorribande o erano sgattaiolate nel capanno degli schiavi, dall’altra parte del villaggio, o in quello di qualche contadino.

    Gisla cercò la mano di Freya. «Volevo dare il cambio ad Asta, perché potesse dormire un paio d’ore, ma la strega non ha voluto», sussurrò.

    Freya si sentì male. Anche lei aveva pensato di aiutare la sorella, e proprio lei avrebbe potuto infilarsi nella stalla senza farsi vedere. Voleva farlo, ma poi si era sentita stanchissima e si era tranquillizzata all’idea che Elva avrebbe passato la notte con Björn, così Asta avrebbe potuto fare qualche pausa durante l’attività di pestaggio del burro. «Domani farò io i lavori più duri al posto suo», promise. Battevano i denti. La coperta era troppo leggera. Per avere dell’altro legno per il fuoco serviva il permesso di Elva e in quella stagione non l’avrebbero mai ottenuto.

    Gisla si girò verso di lei. «Che Dio…». E non concluse la frase. Il silenzio improvviso la spaventò.

    «Che Dio cosa?».

    Gisla tremò tra le sue braccia. Mormorò qualcosa, poi tacque e iniziò a piangere, il pianto spezzato da altre parole… E d’improvviso lo disse, prima con esitazione, poi con un impeto travolgente come l’acqua che rompe una diga: «Che Dio distrugga la strega danese, la faccia a pezzi con le sue mani… le strappi la carne come fosse cotone… Sai cos’è successo, cos’è successo veramente il giorno in cui…». Dalle sue labbra zampillava una verità che non aveva mai rivelato. Il giorno in cui era stata rapita. Quel giorno doveva sposarsi la sua amica Giovanna… quello doveva succedere, ma adesso che differenza faceva. La cerimonia al duomo. Il vescovo che pronunciava le parole sante in latino.

    «E poi si spalancarono le porte». Le grida di battaglia dei danesi a imbrattare il sacro luogo… spade… sangue… urla di dolore… bambini sventrati… «Bambini, Freya, bambini! E poi furono su di me».

    Un sospiro profondo, quasi insopportabile.

    «Mi trascinarono fuori… mi caricarono sulla barca… Poi comparve mio padre, Gerold, tuo nonno. Un uomo buono, forte. Sentivo che mi chiamava. Voleva…».

    «…salvarti», concluse Freya, quando si accorse che sua madre aveva ripreso a singhiozzare.

    «So che avrebbe dato la vita per me. Ma i danesi erano più forti».

    Questa era l’amara verità.

    «Eppure non dimenticare», sussurrò Gisla afferrando Freya per la maglia, «siamo schiave, ma serviamo il vero Dio dell’amore. Quando i tempi saranno maturi, questo Dio ci libererà dai maledetti bastardi, non dimenticarlo mai, figlia!».

    Freya annuì, non per convinzione – non credeva nella liberazione – ma perché glielo chiedeva quel corpo tremolante tra le sue braccia.

    «Ti ricordi quando ti sei bruciata con la torcia?».

    Per forza. Un incidente. Era inciampata. Le era rimasta la cicatrice, dalla nocella al gomito.

    «Succederà lo stesso alla fine della vita. Dio spedirà all’inferno i danesi. E li farà marcire in purgatorio. Patiranno il tuo stesso dolore, solo cento, mille volte più intenso. Un dolore senza fine. Il nostro Dio punirà i danesi per l’eternità, senza la remissione che concede ai peccatori penitenti. Ma quelli non si pentirebbero comunque…».

    Presa dalla compassione, Freya accarezzò la mano avvizzita della madre. Ma prese le distanze dalle sue parole. Certo, avrebbe desiderato che Björn soffrisse. Rispetto agli altri danesi infatti, lui non picchiava per punizione, ma perché godeva nel terrorizzare le sue vittime. Gliel’aveva letto negli occhi e percepito nella voce. Non esisteva al mondo essere umano cui augurasse la morte con tanto ardore. Tuttavia, quello che le dava fastidio era la contraddizione nelle sue parole. Come poteva permettere quel Dio di puro amore che un essere umano fosse torturato e perseguitato? Provò a porle la domanda.

    Si sarebbe aspettata che Gisla le troncasse le parole in bocca e le vietasse di pronunciare eresie, come le chiamava lei, ma inaspettatamente tacque, e poi aggiunse: «Non sono così intelligente, Freya, neanch’io riesco a capirlo. Ma la persona più intelligente che abbia conosciuto aveva una fede incrollabile in questo Dio d’amore e vendetta».

    Parlava di Giovanna, Freya lo sapeva. E sapeva anche quello che la madre le avrebbe detto dopo. Giovanna era per lei un’immagine di luce colma di saggezza, coraggio e amorevolezza, l’esatto opposto dello spirito cupo e corrotto dei danesi. Se per Giovanna amore e vendetta potevano essere riuniti in un unico essere…

    Poi sua madre cambiò improvvisamente argomento.

    «Tua sorella sta crescendo».

    «Lo so».

    «Anche tu. Ma lei è più bella, è proprio avvenente».

    Perché lo diceva? Freya si sentì male. Lo sapeva da sé che il suo corpo magro, da maschio, con quei seni non più grandi di due noci, era poco appariscente, se non ripugnante. Aveva i capelli rossi e ispidi. Nessun uomo la degnava di uno sguardo. Certo, questo le consentiva di evitare situazioni spiacevoli. Ciononostante, l’osservazione della madre la ferì.

    Gisla era di nuovo sprofondata nel silenzio, e Freya pensò al lavoro che l’avrebbe aspettata il giorno dopo, al fatto che voleva veramente darsi da fare per alleggerire la sorella. Per Odino e Gesù e per tutti gli dèi, qualunque fosse il loro nome, era stupido e spregevole rifiutarsi di aiutare la sua unica alleata di sangue. Inoltre, Asta le faceva veramente pena. Bene, si sarebbe goduta una o due ore di sonno, quanto bastava per far riposare le membra stanche, poi avrebbe… Una folata fredda che proveniva dalla porta aperta interruppe i suoi pensieri. Quando si girò, vide qualcuno sull’uscio. Una figura scura si stagliava nel rettangolo illuminato.

    Era Björn.

    La sua capigliatura lanosa risaltava come una corona chiara nella notte. Era ubriaco, la luce della torcia proiettava un’ombra dal passo instabile sulla parete e sul soffitto. Senza dire una parola scese la scaletta. Quando raggiunse il pavimento del capanno, cercò Gisla e Freya con la fiaccola. Madre e figlia si strinsero sempre di più l’una all’altra. Lui le squadrò commentando con disapprovazione: «Dove si nasconde?».

    Cosa?

    Mamma mormorò: «La piccola… è ancora una bambina, vi prego signore, no». Cercò di tirarsi su. «Ci sono io a rendervi felice…».

    Björn scoppiò in una risata belante. «Ho capito bene? Vuoi infangare il mio letto?». Lui la cacciò via. «Mi ripugni, vecchia strega, non te ne rendi conto? Piuttosto mi sbatto una gatta morta». Strappò via la coperta e fissò Freya che si fece piccola piccola. Björn era distratto, un po’ di pece le colò sul collo, ma lei evitò, nonostante il dolore, di asciugarsela via. «Questa è un manico di scopa», brontolò, e le assestò un calcio. «Muoviti! Va’ a prendere tua sorella!».

    Solo allora Freya capì. Björn cercava una nuova concubina. E ovviamente voleva Asta, chi altri? Quanto a bellezza nessuna reggeva il suo confronto. Le si aprirono gli occhi. Elva doveva avere intuito la mossa di Björn e aveva reagito con gelosia. Ecco il perché di quella punizione esagerata. Per Björn era indifferente che Asta fosse sua figlia?

    Freya guardò la madre in cerca di aiuto, ma Gisla era come paralizzata. Giacevano nel letto impotenti. Al netto della paura che le bloccava, neanche in due sarebbero riuscite a contrastare il loro ebbro signore. Con pesantezza si tirò su e salì i gradini. La porta era ancora aperta e un’aria fredda le soffiava in faccia. Stava per uscire quando un urlo disperato le risuonò alle spalle, un verso disumano, strozzato dal dolore. Si girò di scatto.

    Gisla era saltata addosso a Björn e gli aveva stretto le mani al collo. La sua faccia era sfigurata da una smorfia. Rimase appesa al gigante come una bambola, premendo le dita sul collo largo e robusto che quasi non riusciva a cingere tutto, lo colpì, urlò… Ma Björn era più forte. Senza battere ciglio le staccò le mani e la scaraventò contro la parete. Furioso si piegò verso la torcia che gli era caduta di mano quando Gisla l’aveva assalito e la conficcò nel fondo terroso. Freya riuscì a vederlo solo di spalle, ma si accorse che tremava dalla collera. Si gettò su Gisla, rannicchiata in lacrime sul giaciglio. Si sollevò un po’ per strapparle la veste, poi col suo corpo imponente schiacciò contro la paglia quello rinsecchito della donna. Gisla si mise a gemere.

    Come anestetizzata, Freya scese le scale. Scivolò ai piedi del misero letto e si mise a cercare tra la paglia il coltello con cui aveva ucciso la volpe. Björn spostava i piedi, sembrava stesse frantumando il corpo di Gisla con la sua carne. Dove diavolo era? Eccolo finalmente, percepì l’impugnatura di corno tra le dita. Afferrò l’arma. Si tirò su, poi ripeté senza esitare lo stesso gesto che aveva compiuto poche ore prima con la preda: prese Björn per i capelli e con un movimento deciso fece scorrere la lama sulla gola del danese incredulo.

    Non morì all’istante.

    Con un rantolo, si sollevò sulle ginocchia e le strappò il coltello per piantarglielo in grembo. Ma non ci riuscì. Mentre Freya si scostava, Gisla gli strinse le gambe. Furibondo, lui si girò di scatto e le conficcò la lama in volto, proprio in un occhio. Gisla si accasciò, senza avere nemmeno il tempo di gridare.

    Björn respirava con affanno, il sangue gli sgorgava dal collo come acqua da un secchio forato. Freya si precipitò su per le scale, ma un tonfo la trattenne. Il suo aguzzino giaceva per terra, con la faccia contro il pavimento. Con la mano cercò il coltello che gli era caduto, poi non si mosse più.

    Freya deglutì. Tutto la esortava alla fuga, ma farlo senza un piano era sciocco, forse addirittura fatale. Scese i gradini, osservò con diffidenza il corpo senza vita e si appropriò del coltello. E adesso, via? Esitò di nuovo. Poi girò il cadavere di lato e lo spogliò dello spesso mantello con la pelliccia di martora. Alla vista di tutto quel sangue ebbe dei conati di vomito. Ciononostante si fece forza, perché il mantello non solo l’avrebbe tenuta al caldo, ma avrebbe forse anche confuso gli eventuali passanti. Dopo averlo sfilato dal corpo flaccido ed esserselo messo addosso, spense la torcia nella sabbia e uscì fuori.

    Non era completamente buio. La luna proiettava deboli fasci di luce sulla viuzza e sui tetti delle case. Senza fiatare passò di fianco a una panchina, poi oltrepassò la stalla e una serie di capanne. Sentiva delle voci? No. La stanchezza aveva sopraffatto i guerrieri e la gioia di averli di nuovo a casa sani e salvi aveva trattenuto le donne accanto a loro. Solo un gatto svoltava l’angolo miagolando rabbioso. Freya non faceva che guardarsi le spalle. Ma era tutto tranquillo.

    Finalmente raggiunse la stalla incassata a terra per metà, come il loro dormitorio. Aprì la porta. La luna illuminò la sorella. Asta era accovacciata sul pavimento davanti ai gradini di pietra, ritirata su se stessa, con il pestello del burro tra le ginocchia. I capelli le incorniciavano il viso. Era veramente bella. Una principessa dai capelli dorati, il pestello il suo scettro, gli stracci che indossava uno sfavillante, morbido abito di seta. Freya la toccò, prima con delicatezza, poi più forte. La sorella sobbalzò e Freya le mise una mano sulla bocca. «Dobbiamo scappare».

    Capitolo 2

    Corsero verso l’area antistante il bosco, ricoperta di vegetazione, dove la boscaglia e le erbacce avevano invaso il terreno, evitando le strade che le avrebbero portate rapidamente lontano, ma che i danesi avrebbero setacciato per prime quando avrebbero trovato il corpo di Björn.

    Forse l’avevano già trovato? Sarebbe successo, al più tardi, al rientro delle altre schiave. Björn giaceva in mezzo al corridoio, tra i giacigli di paglia. A Freya scesero le lacrime quando pensò alla madre. Sicuramente avrebbero gettato il suo corpo in pasto ai cani o commesso spregevoli atrocità per punirla, anche dopo la morte. Si asciugò le lacrime. Non doveva pensarci, non in quel momento!

    La via era piena di buche e radici d’alberi. Dal buio i rami le colpivano d’improvviso in faccia come frustini. La paura le faceva avanzare. Ma quella corsa attraverso la macchia richiedeva una concentrazione che Asta purtroppo non aveva. C’era da impazzire con lei. Strillava di continuo, si lamentava, chiamava aiuto. Era più a terra che in piedi a correre.

    «Non respiro più».

    Su tutte le furie per l’ansia, Freya si voltò. Le servì qualche istante per individuare tra gli arbusti la schiena di sua sorella. Con poca grazia la trascinò in piedi. «Forza».

    «No, io… non ce la faccio più». Asta si appese alle braccia della sorella. «Mamma è veramente morta?»

    «Se te lo dico».

    «Ma…».

    «È morta. Non possiamo farci niente». Avrebbe potuto dirlo più dolcemente, ma la paura di essere inseguita la faceva impazzire.

    «Dove andremo?»

    «Dalla nostra famiglia». Sparò la risposta come un colpo di fucile, anche se le era appena venuta in mente.

    «Non abbiamo una famiglia. Abbiamo solo… avevamo solo mamma».

    «A Dorstadt c’è nostro nonno», le spiegò Freya con la voce più calma possibile. Quelli erano rumori tra gli alberi? Nitriti di cavalli? No, se lo stava immaginando. «Senti, Asta. Mamma era nobile. Ce l’ha sempre detto. Era una donna ricca. La margravia von Villaris. Deve esserci stato anche un margravio, che forse è ancora vivo e…».

    «…sputerà su di noi. Siamo le figlie dell’uomo che l’ha messa incinta. Ci odierà. Tutti ci odieranno a Dorstadt. Se non ci uccideranno, ci cacceranno».

    Freya fissò la sorella. Finora l’aveva giudicata un’ingenua. Com’era arrivata a quella fredda conclusione?

    «E poi fino là non ce la facciamo. Hastein ci troverà prima».

    Si riferiva al fratello più grande di Björn, che viveva in un villaggio vicino. Hastein era il capo della sippe dei Ragnarsson, l’erede dei possedimenti paterni, un uomo selvatico, brutale, avido di potere. I fratelli non si piacevano, come Freya ben sapeva, ma Hastein avrebbe cercato di vendicare Björn. Era una questione d’onore, e di strategia. Se non avesse fatto nulla, gli altri l’avrebbero considerato un debole. E chi era debole, sarebbe stato attaccato.

    «Non ci troverà. Se ci nascondiamo nel bosco…».

    «Perché mamma non l’ha lasciato fare?»

    «Cosa?»

    «Ce la passavamo bene», disse Asta caparbia.

    Freya chiuse gli occhi. Björn era loro padre. Come faceva Asta a lamentarsi del fatto che sua madre l’avesse salvata dall’incombente violenza di suo padre? Come faceva a essere… così poco grata? Le venne in mente che al villaggio, mentre lei rubava uova e mele, Asta si dava da fare per accontentare Elva. Mentre lei fuggiva nel bosco a rimpinzarsi di bacche e funghi, Asta restava nella casa lunga, le guance arrossate dall’entusiasmo, a imparare a pettinare il cotone e decorare le ciotole d’argilla. Erano sorelle, ma non avevano nulla in comune.

    «Vieni con me o resta qua», rispose bruscamente.

    Asta cedette e la seguì, ma avanzavano molto piano, come se il litigio avesse prosciugato loro le forze. Fino ad allora si erano addentrate nel bosco senza sapere dove stavano andando, ma in quel momento Freya alzò gli occhi al cielo, per farsi guidare dalle stelle. Doveva reprimere la paura e pensare a quale direzione avrebbero dovuto prendere. I frisoni, il popolo cui apparteneva la madre, vivevano a sud. Non avrebbero potuto raggiungere il territorio via mare, seguendo la via che aveva fatto Gisla quando l’avevano rapita, non avevano un’imbarcazione, e anche se l’avessero avuta, non sapevano remare o condurla. Dovevano quindi procedere via terra. Poi le venne in mente una parola: Danevirke. Si trattava di una costruzione che i danesi avevano edificato per difendere i confini meridionali. Dovevano trovare quel posto. Oltre il Danevirke sarebbero state al sicuro.

    Allo spuntare del giorno si nascosero in una piccola grotta, un antro pieno di escrementi e nidi che penetrava nella terra per qualche metro fino a restringersi tanto da lasciar passare solo un topo. Con sua grande sorpresa Asta si addormentò subito, mentre Freya non riusciva a chiudere occhio. La madre che gemeva sotto il peso del corpo di Björn, la gola spalancata del loro aguzzino… Si addormentò per un attimo, ma poi scattò in piedi all’idea di aver visto un’ombra all’entrata della caverna. Si alzò, spiò cauta verso l’ingresso in cerca di orme, ma non trovò nulla. Solo quelle di un cervo che forse aveva brucato lì vicino.

    Esausta, rientrò nel nascondiglio, ma la stanchezza era scomparsa. Fissò le pareti terrose decorate dalle radici finché non venne buio. A quel punto si rimisero in marcia. Ora era chiaro che dovevano andare a sud, ma Freya era così stanca che non riusciva a orientarsi seguendo le deboli sfere che scintillavano tra i rami. Che stessero procedendo in circolo? O addirittura tornando indietro?

    Quando fu giorno si fermarono a una sorgente, e lei si addormentò con la mano in acqua. Quando Asta le toccò le costole, lei reagì prima con rabbia e poi con stupore. A pochi passi da loro si apriva una via nel bosco. Come aveva fatto a non vederla! Che sbadate, che pericolo avevano corso! Era quella maledetta stanchezza! Se non si fosse concentrata l’avrebbero pagata cara.

    Più tardi trovarono una carbonaia abbandonata tra due colline vicine e vi si stabilirono per un paio di giorni, tutte intirizzite, affamate e in preda alle vertigini. Il frugale arredo interno, che odorava di piante nuove, era distrutto, come se, nel tempo addietro, avesse avuto luogo una lotta. Tuttavia, non c’era da preoccuparsi, perché era ricoperto da uno spesso strato di polvere. Piuttosto, dovevano considerarlo una prova del fatto che nessuno lì dentro le avrebbe importunate. La carbonaia aveva una porta che Freya richiuse dall’interno usando uno sgabello rotto. Poi lei e Asta si adagiarono sulla terra e si coprirono con il mantello di Björn, macchiato di sangue ormai rappreso.

    Per qualche istante Freya cercò di godersi il calore della lana, ma non le riuscì, così si voltò cauta dall’altra parte. Meglio patire il freddo che percepire sulla pelle qualcosa che le provocava ripugnanza e odio.

    Posò lo sguardo sulla porta, costituita da una serie di rami rozzamente lavorati, intrecciati e fissati insieme, e d’un tratto le venne in mente Snorri, il figlio del fabbro, che qualche volta era andato con lei nel bosco. Lui aveva voluto mostrarle la sua straordinaria abilità nella lotta col bastone, e lei ne aveva impugnato uno e provato a imitare i suoi movimenti. All’inizio si era sentita impacciata, ma presto era riuscita a spostare l’arma da una mano all’altra a grande velocità, a farla ruotare attorno ai fianchi e scivolare di lato, e poi era arrivato l’affondo… il colpo… alla fine era persino riuscita a portargli l’arma proprio davanti al petto. Lui non avrebbe potuto fare altro che incassare il colpo. «Combatti come un maschio», aveva detto ridendo. Quanti anni aveva? Nove? Dieci? Nel frattempo Snorri era cresciuto e lavorava nella fucina di suo padre. L’avrebbe giustificata per quello che aveva fatto a Björn?

    Freya si girò di lato. Non avrebbe capito niente, pensò. Alla fine ognuno si schiera con la propria gente.

    Il loro nuovo rifugio era freddo e pieno di spifferi, e nemmeno il fuoco, che a un certo punto accesero, aiutava granché. Ma il tormento maggiore veniva dalla fame. Quando il sole scese, Freya sgattaiolò fuori in cerca di bacche e funghi. Dovevano sbrigarsi, quindi perlustrò la boscaglia attorno alla carbonaia. I funghi quell’autunno erano scarsi, non ne conosceva il motivo. E spesso si nascondevano sotto uno strato di foglie autunnali. Strisciò tra gli arbusti e negli avvallamenti del terreno, scostando il fogliame. Aveva con sé il cesto trovato al capanno, in cui ripose il bottino. Mentre lo trascinava dietro di sé nel tentativo di allungarsi verso uno champignon, toccò col ginocchio qualcosa di morbido.

    Rimase immobile. Un animale morto, poteva essere solo un animale morto. E molto grande. Guardò a terra e vide strisciare qualcosa. Coleotteri gialli e neri. Arretrò. Dal fogliame sporgeva qualcosa che assomigliava al dorso grigio di una mano. Si sforzò di spostare le foglie. Là sotto c’era un cadavere mal sepolto. La carne era in putrefazione, qui e là sporgevano le ossa. Il carbonaio? Forse. Il cranio spaccato rivelava il motivo della morte. In fretta e furia ricoprì di foglie il pover’uomo e si ripromise di non dire nulla ad Asta.

    Ma le era passato l’appetito. Quello che aveva raccolto doveva bastare.

    In realtà era troppo poco. Cucinarono i funghi allo spiedo, ma il pasto frugale non fece che accentuare la fame.

    «Ho freddo», sussurrò Asta alle fiamme che dovevano illuminare e riscaldare la carbonaia, ma che in realtà non sembravano altro che deboli spettri.

    «Lo so».

    «Moriremo di fame».

    «Non è vero. Domani sera ripartiamo. Andremo verso sud ed entreremo nella terra di nostra madre!».

    «Ci odieranno».

    «Ma non saremo più schiave».

    «Cosa c’era di male a lavorare per Elva…».

    «Adesso smettila», la interruppe Freya irritata. Voleva mettere nel camino qualche pezzo di legno che il carbonaio aveva accatastato in un angolo. E per una volta il destino fu

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