Neravorio
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Anteprima del libro
Neravorio - campeti marika
© Utterson s.r.l., Viterbo, 2022
AUGH! Edizioni
Collana: Frecce
I edizione digitale: dicembre 2022
ISBN: 978-88-9343-393-8
Progetto grafico di copertina: Luca Verduchi
Progetto grafico interni: Stefano Frateiacci
Questa è un’opera di fantasia. Alcuni nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.
www.aughedizioni.it
A mia madre
A Pina Giuffrida: la luce di Catania
Al viola che avrebbe colorato i miei campi a settembre
Prologo
Le avevano preso tutto: l’autorità di suo padre, che giaceva riverso legato al melo del cortile, i ricci biondi di sua sorella, sparsi tra le bucce di patate e il sangue che imbrattava il selciato, le grida di sua madre, che si affievolivano alle sue spalle a ogni passo che le separava. Le avevano portato via anche la dignità, che le scivolava lacera in rivoli rossi lungo le cosce nude, mentre senza respiro correva via dai diavoli che erano piombati all’improvviso in casa loro.
Il corpo non le apparteneva più, la carne era livida di morsi, bruciava del seme che le avevano spinto dentro con la forza, il naso gocciolava sangue e muco ogni volta che si sentiva svenire e provava a respirare.
Non aveva tempo di pensare, solo l’istinto di sopravvivere.
Se avesse saputo, se avesse avuto modo di realizzare ciò che le era accaduto, sarebbe rimasta a terra e avrebbe chiesto al cielo di chiuderle gli occhi per sempre. Invece si era alzata ed era fuggita, lontano da quelle mani che le avevano strappato di dosso i vestiti, dalle botte che l’avevano fiaccata fino a farle perdere ogni volontà, dalla faccia terrorizzata di sua sorella che veniva stuprata accanto a lei. Era scappata, senza pensare che dopo avrebbe preferito essere morta.
Non aveva avuto il tempo di decidere con lucidità. I diavoli erano vicini, troppo vicini. Aveva le orecchie piene delle urla selvagge che levavano mentre finivano di massacrare la sua famiglia e non riusciva a strapparsi di dosso il puzzo acre dei loro umori. Non importava quanto avesse corso, era come averli portati con sé. Lo sportello di ferro le era apparso davanti all’improvviso. Salvezza, oppure morte certa. Non aveva neppure interrotto la fuga. Aveva afferrato la maniglia con le mani tremanti e tirato forte verso di sé. Un calore intenso le aveva investito il viso. Un solo attimo di esitazione, poi si era accucciata tra le fauci di quella bocca nera, per nascondersi al resto del mondo.
"Un giorno la paura bussò alla porta.
Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno".
(Martin Luther King)
Ritorno alla Torre Quadrata
Ho paura della notte, il buio non mi è mai stato amico. Quel pianto mi ha lacerato l’anima. Ma dovevo aiutare la ragazza, impedire qualunque cosa stesse per succederle. Non oso sollevare gli occhi. Il cielo è nero, senza stelle. Così profondo e indecifrabile che a guardarlo ancora ho paura di perdermi per sempre. Procedo a testa china, fissandomi i piedi che si distinguono appena dal pietrisco scuro del sentiero e sforzandomi di non pensare a quanto sono lontana da casa.
Mi sono accorta dell’auto solo quando i fari mi hanno abbagliata per un istante. Ho teso il braccio per indicare dove lei era nascosta, ma non mi hanno vista nel buio della notte. Mi sono buttata in strada con tutto il coraggio che credevo di aver perduto, ho gridato e agitato le braccia per portarli da lei, per liberarla, proteggerla da un destino che non avrebbe mai voluto scegliere.
La storia non doveva ripetersi. Mai più.
E così è stato. La ragazza adesso è salva, e per me è ora di tornare a casa, tra le pareti confortevoli della mia Torre.
Percorro lenta la salita. La città dorme ammantata di luci ambrate che sembrano stelle cadute sui tetti.
Non ricordavo più la stanchezza. Mi trascino un passo dopo l’altro stringendomi le mani al petto, e accarezzando il mio anello per farmi coraggio. Da quanto tempo non mi separavo dal mio nido di pietra? Non riesco a ricordare, forse da sempre.
Ma ecco l’arco di Porta Romana che mi accoglie alle soglie della città. Ho ancora le grida della ragazza nella testa, l’eco graffiante del suo pianto disperato. Ma lei ora è libera. E io invece torno a chiudermi nella Torre.
Fimmina ca arrida t’ha dittu sì
.
(Proverbio catanese)
6 aprile 2019. Un caffè in piazza del Duomo
Il cameriere gli rivolge un sorriso cordiale, poggiando una pasta di mandorla e un caffè scuro e corposo sul tavolino. Davide lascia distrattamente i soldi sulla tovaglia continuando a fissare lo schermo del cellulare.
"Credimi, non vorrei essere qui a scriverti questa cosa, davvero. Ho voluto io che lavorassi con noi, ho fatto carte false per averti con me. E tu in questi anni hai dato tantissimo alla redazione. Ma ora sei cambiato. La tua passione è cambiata, e la voglia di fare la differenza. E non si tratta più del tuo divorzio, oramai è passato più di un anno, Davide. Siamo stati tutti comprensivi con te, ma a quest’ora avresti dovuto almeno ricominciare a ripartire, a rimettere in piedi la tua carriera. Non scrivi un articolo da mesi, in ufficio non si ricordano più che faccia hai, non rispondi neppure alle mie telefonate, santo cielo!
Io ci ho provato ad aiutarti, in ogni modo possibile. In nome della stima che ho per te e della nostra amicizia. Ma i tempi sono quelli che sono e non posso più permettermi di pagare uno stipendio per nulla, neppure se si tratta di te. Sono sicuro che capisci e spero che il nostro non sia un addio definitivo, ma solo una separazione momentanea, finché non avrai ripreso in mano la tua vita. In questi giorni ti contatteranno le Risorse Umane per le ultime formalità.
Buona fortuna, mi auguro di avere tue notizie presto. Pierluigi".
«Ma vaffanculo, Pier!».
Davide scorre lo schermo rileggendo la mail inviatagli dal caporedattore.
Aspetta quanto ti pare, mormora tra sé. Nel tuo giornale di merda non ci metto più piede.
Gli anni di prime pagine e le nottate passate in redazione non gli sono valsi neppure una telefonata. Licenziato in tronco, mentre provava a imbastire un’inchiesta sulla mafia catanese. Senza neanche un incontro di persona.
Posa lo smartphone sul tavolino, rivolto verso il basso, per impedirsi di guardare ancora il display. Avvicina il piattino e porta la tazzina alle labbra. Uno scossone alle sue spalle lo fa sussultare e il caffè, prima che possa berne un solo sorso, si rovescia sulla mano, sul polsino della giacca e sulla tovaglia immacolata.
«Mio Dio! Mi scusi! Sono mortificata!».
Davide si volta di scatto, ma il suo sguardo infuriato si smorza negli occhi luminosi di una ragazza.
«Mi dispiace molto… sono inciampata! Io… io…».
È vicinissima, tanto che lui non riesce a scostare la sedia per alzarsi del tutto, così si ferma a metà, le ginocchia semipiegate e lo sguardo dritto in quello di lei. Le iridi sono verde scuro, con delle venature gialle al centro; il corpo della sconosciuta è avvolto in un cappotto largo di panno blu, ne percepisce chiaramente il buon odore.
«Non si preoccupi. Non è nulla».
Lei abbassa lo sguardo sulla sua manica.
«La giacca! È tutta macchiata. E il caffè si è rovesciato! Vado subito a prendergliene un altro!».
Davide non ha il tempo di replicare. La ragazza col cappotto blu svanisce tra le persone che affollano l’ingresso del bar. Si risiede rassegnato, osservando le chiazze scure che si sono allargate sulla tovaglia. Dopo qualche minuto, la tipa ritorna con una tazzina e un piattino in equilibrio sulla mano.
«Ecco qui. Non servirà a smacchiarle la giacca, ma non potevo lasciarla senza caffè a quest’ora della mattina!».
Non chiede il permesso e si siede di fronte a lui.
Davide le sorride. Ha una bellezza singolare. Non è truccata, il viso è pulito e pallido. Labbra carnose, un accenno di gobba su un naso troppo lungo che però conferisce una connotazione interessante a dei lineamenti altrimenti anonimi. Ha i capelli raccolti in un rigido chignon alla base della nuca.
«Quanto zucchero? Posso darti del tu?» gli chiede lei restando in attesa della risposta con una bustina bianca tra le dita.
«Certo… e, grazie, lo prendo amaro. Ma non sei catanese, giusto?». Ha riconosciuto l’accento romano anche dalle poche parole che lei ha pronunciato.
«No. Sono arrivata ieri pomeriggio da Roma. Vengo qui spesso. Mi chiamo Lara. Ma dimmi di te. È chiaro che neppure tu sei di Catania».
Lui assapora il caffè socchiudendo le palpebre.
«E ti sbagli, invece. Sono nato qui. Ma avevo cinque anni quando la mia famiglia si è trasferita. Sono di Roma anch’io».
La trova magnetica, nonostante sia vestita malissimo, con quegli abiti larghi e fuori moda che la fanno sembrare più vecchia. A guardarla meglio non avrà neppure trent’anni.
«Fumi?». Le porge un pacchetto di Marlboro rosse aperto.
«No, per carità!».
Lara arriccia la bocca in un’espressione inorridita che lui trova incredibilmente sexy.
«E questa sera che fai?» gli chiede di punto in bianco, guardandolo dritto negli occhi con un sorriso.
Le guance, pallide fino a pochi istanti prima, sono adesso illuminate da una sfumatura rosa e la bocca è umettata di saliva. Davide non può fare a meno di notare quanto sia candida la pelle del suo collo incorniciata dal bavero del cappotto blu, con un velo di peluria rossa che dirada dall’attaccatura dello chignon. Sono così vicini che gli basterebbe sporgersi per strofinare le dita su quei capelli sottili e sentire se sono davvero così soffici come immagina. Ma si trattiene. Sanno a malapena i reciproci nomi.
«Non ho nulla in programma, se è questo che vuoi sapere».
Sente un calore improvviso mordergli l’inguine. Non ha battuto chiodo per tutto il mese che è stato a Catania e proprio adesso che deve ripartire, ecco che una ragazza sembra intenzionata a flirtare con lui.
Allerta i sensi per studiarla a fondo, nel caso avesse travisato i segnali. Ma tutto sembra confermare l’interesse di lei: gli occhi fissi nei suoi, la spalla protesa nella sua direzione, il primo bottone del cappotto, che era sicuro fosse allacciato, che adesso lascia intravedere un lembo di clavicola.
«Allora, per farmi perdonare di averti versato il caffè addosso, ti invito a cena. In un posticino speciale di Catania, che sicuramente non conosci».
«Affare fatto!» le risponde ridendo. Per la prima volta nella vita ha rimediato un appuntamento senza dover fare neppure uno sforzo.
Lara sfila il tovagliolo di carta dal piattino della sua pasta di mandorla e tira fuori dalla borsetta una penna a scatto.
«Ti scrivo l’indirizzo». Solleva per un istante gli occhi per fissarlo. «E anche il mio numero di telefono».
Fa scivolare il foglietto verso la sua mano e si alza.
«Mi raccomando, alle nove in punto. Non fare tardi».
«Capito. Puntuale. E metterò anche una giacca nuova, senza macchie di caffè!».
«Perfetto! Adesso scusami, ma devo proprio sbrigarmi». Si alza velocemente riallacciandosi il bottone aperto. Anche lui si alza di riflesso. Si rende conto che non è ancora pronto a separarsi da lei.
«Ti accompagno… ovunque tu debba andare?».
Lara scuote energicamente la testa. Una ciocca sottile sfugge allo chignon e le scivola sul viso. Poi lei inaspettatamente si allunga sulle punte dei piedi per salutarlo con un bacio. Quando gli posa la bocca fresca sulla guancia, Davide inala a fondo il profumo dei suoi capelli. Una fragranza a metà tra l’odore di una spezia e quello di un fiore che cresce sulla sabbia.
Un istante dopo la ragazza è già svanita tra la folla del mattino, e il suo cappotto blu troppo largo è una macchia sfocata oltre la cattedrale di Sant’Agata.
Davide si incammina per via Etnea, il suo alloggio è giusto dietro piazza del Duomo. Ha preso un appartamento in centro per potersi muovere a piedi. Passando davanti alla vetrina di una pasticceria si ferma sbigottito a osservare il riflesso della propria immagine. In mezzo ai cannoli siciliani farciti di scaglie di cioccolato e canditi, il suo volto lo osserva con un velo di disprezzo.
Non si fa la barba da giorni, i capelli castani sono spruzzati di grigio già da qualche anno. Ma è il taglio che fa proprio pena. Lo invecchia, con quei ciuffi asimmetrici che gli ricadono sulla fronte.
Avrò almeno quindici anni più di te, Lara dai capelli rossi.
Non è mai stato bello, ma ha avuto sempre un certo ascendente sulle donne. Probabilmente perché è un tipo allegro, alla mano.
Già, un tipo. Occhi nocciola, mascella squadrata, un reticolo sottile di rughe che si diramano ai lati delle palpebre, naso dritto e allungato. Non riesce a togliersi dalla testa il collo candido della ragazza, né scrollarsi di dosso l’urgenza di sfiorare la sua pelle sottile… Visto quanto è stata audace a dargli subito un appuntamento, non ha dubbi su come andrà a finire la serata. Sorride tra sé e raddrizza le spalle. Poi fa un respiro profondo ed entra nella pasticceria per chiedere dove si trova il barbiere più vicino.
Alle 20.10 è di fronte allo specchio della sua camera da letto per darsi un’ultima controllata. È ancora presto, perciò prende una birra dal frigo bar e se la beve davanti alla tv. I nervi subito gli si distendono. Ha dormito un po’ dopo pranzo, e ora si sente riposato come non gli capitava da tempo. Si è costretto a non rileggere più quella mail, almeno per questa sera. Ha bisogno di divertirsi, affondare le mani nel corpo di una donna, svegliarsi con il suo odore addosso e poi grazie e arrivederci.
Alla fine ha deciso di mettersi un paio di jeans e una camicia bianca. Qualcosa di casual ma non troppo informale. Non ha idea di che locale sia quello che Lara gli ha indicato sul foglietto. Ashram, via Landolina, 41 - ultimo piano
.
Il barbiere ha fatto un lavoro discreto. Gli ha modellato le basette in modo da scolpirgli le guance e mettere in risalto gli spigoli del viso, e in effetti così sembra più giovane. Eppure la birra gli rimane sullo stomaco. La butta ancora mezza piena nel secchio della spazzatura e si decide a uscire. È da tanto che non si porta a letto una donna. L’ultima volta è stato con una sua collega ubriaca. Una sola notte di sesso e neppure questa gran cosa. Era svogliato, e lei aveva un odore che non gli piaceva.
Scende la scalinata in pietra del suo palazzo e supera la piazza, per ritrovarsi subito in corso Umberto.
L’aria di aprile è ancora fresca. Si chiude il bavero del cappotto e si incammina di buon passo lungo la strada.
Svolta in via Landolina, dove lo accoglie il baccano di un pub con i tavolini all’aperto. Per un istante lo assale il timore che quella tipa strana lo abbia invitato a mangiare patatine e hamburger. Ma per fortuna il locale non è quello, il civico è diverso. Il 41 è più avanti, un imponente portone di legno. Non c’è musica, né tavolini, solo i due battenti enormi di un palazzo antico.
Ricontrolla il tovagliolino stropicciato che ha in mano: il posto è quello. E infatti legge Ashram
su uno dei campanelli del citofono, una scritta colorata. Suona e il portone si apre senza che nessuno chieda chi sia. Supera un cortile ampio e buio e prende la rampa di scale sulla destra. Nessuna indicazione che segnali il ristorante.
Si chiede se Lara non lo abbia invitato direttamente nel proprio appartamento. L’idea lo eccita, così si affretta a salire le scale e quando arriva all’ultimo piano ha il fiatone. Trova una porta bianca con un’insegna che riporta: Associazione Ashram Multikulti
. Davide suona il campanello osservando distrattamente il panorama dei tetti di Catania che offre la finestra sul pianerottolo.
Gli apre una donna con i capelli corti e un sorriso amichevole.
I suoi occhi lo scrutano a lungo, poi evidentemente realizza qualcosa, perché il suo sorriso si apre ancora di più e domanda:
«Davide sei?».
Parlata catanese, piccola di statura, ma lo guarda come a fargli intendere che lei è la padrona di casa e lui deve superare l’esame, se vuole entrare.
«Sì» le risponde incerto. Ma dove diavolo sono finito?
Al pensiero di come fosse eccitato neppure un minuto prima, si sente ridicolo. Vorrebbe girare i tacchi e andare via, ma la donna lo afferra per il braccio e lo trascina dentro. Non appena varca la soglia viene avvolto da un aroma speziato che gli solletica le narici.
«Avanti, gioia».
Il peggior modo di sentire la mancanza di qualcuno è esserci seduto accanto e sapere che non l’avrai mai
.
(Gabriel García Márquez)
Alla Torre Quadrata
Non posso credere di aver sentito la tua voce in fondo alle scale.
Sembrava una giornata uguale alle altre. Il profilo del Monte Sant’Angelo oltre la finestra, il tepore che si irradia sui vetri opachi, la fragranza del mare che risale tra i vicoli e ne accarezza la pietra per mescolarsi al suo sentore antico. Pietra e sale, l’odore di questa città. La nostra, la tua. Il riverbero della tua presenza nell’aria.
Sono stata sempre qui, sai? Mi sono separata dalla Torre solo quando ho udito le lacrime di quella ragazza. Ti ho osservato passeggiare sulle Mura per tutti questi anni, aspettando che alla vista del tuo viso seguisse il rumore ovattato dei tuoi passi sulle scale, che però non arrivava mai. La solitudine è stata la mia unica compagna per tutto questo lungo tempo. Ora finalmente sei qui, appena oltre il portone di legno che separa il tuo spazio dal mio: il luogo in cui ho vissuto lontana dal tuo odore, dalle tue braccia, da te. In cui sono sempre rimasta. Ad aspettarti.
Lo ricordo ancora, il nostro ultimo giorno alla Torre Quadrata. Abbiamo fumato tutti insieme quella sigaretta passandocela di mano in mano, spensierati. Quel fumo che abbiamo condiviso avvolge i miei ricordi, ma non li annebbia. Li rende nitidi. Rammento ogni cosa di quei tempi, di noi, di te. Dai momenti rubati ai colori che si mescolavano sulle pareti. Dalle canzoni che si sposavano con le corde stonate di una chitarra, ai mesi che correvano veloci, per non tornare più.
Quel giorno in particolare era il 7 febbraio. Il giorno del mio trentunesimo compleanno.
Che belli che eravamo, così sinceri l’uno tra le braccia dell’altra. Piangevo per la gioia e tu mi asciugavi le lacrime con i baci, mentre le tue dita cercavano il mio seno sotto la camicetta. Non eravamo mai sazi della nostra felicità, di scoprirci, toccarci, amarci.
Chissà se tutto questo lo ricordi ancora anche tu.
Avrai un motivo per essere tornato su queste nostre scale.
Ma sento che non sei da solo, sei venuto insieme a qualcuno. I tuoi passi si mescolano a quelli di altre persone. Sono quelle con cui hai condiviso la vita che non hai potuto avere con me dopo quell’ultimo giorno insieme qui alla Torre Quadrata? Oh, ma che importa. Ora sei qui.
Uno sguardo veloce allo specchio: sono radiosa come la luna, come ho sempre voluto essere.
Foglie di vite ripiene:
300 g di foglie di vite tenere
80 ml di olio d’oliva
3 piccole cipolle bianche
230 g di riso
1 cucchiaio di pinoli e 1 di uvetta,
sale, pepe, prezzemolo, cannella q.b.
2 cucchiai di concentrato di pomodoro
Multikulti, tutto il mondo è casa
La donna lo conduce oltre una seconda porta, facendogli strada con passi piccoli e veloci verso una sala arredata in stile mediorientale, che gli ricorda un accampamento berbero. Drappi di stoffa che scendono dal soffitto, sonagli turchi appesi alle pareti e dei tavoli apparecchiati con stoviglie di foggia orientale. Sul fondo, un bar con diversi narghilè colorati disposti in fila sul bancone.
«Accomodati qui. Se vuoi fare un giro per il Multikulti, fai pure. Benvenuto!».
La donna sparisce dietro una porta che quando apre si rivela essere quella della cucina, e Davide prende posto al tavolino che lei gli ha indicato, apparecchiato per uno.
«Ma Lara dov’è?» chiede sconcertato. Inutilmente, dato che nessuno lo sta ascoltando.
La sala è quasi piena. Perlopiù di persone che stanno già cenando, ma c’è anche un piccolo viavai di fronte al bancone del bar, di gente che sopraggiunge da un corridoio che porta verosimilmente a un’altra sala del locale.
Prende il telefono e scrive un messaggio. Io sono arrivato. Dove sei?
.
Lei gli risponde subito. Intanto mangia, sarò lì tra poco. Gli antipasti sono buonissimi
.
Per evitare di perdere la pazienza, Davide si guarda ancora intorno. Il posto in effetti è molto carino. Proprio di fronte a lui c’è una magnifica parete decorata con una cartapesta dipinta a mano su cui è raffigurato un cielo notturno, con le stelle e la luna che si accendono grazie a un sistema di luci. Racchiusi in piccole cornici, appesi alle pareti di stoffa, degli ossi di seppia intagliati riproducono i camini delle fate della Cappadocia. Dalla cucina escono due ragazzi dai capelli nerissimi, e uno si dirige verso di lui con una bottiglia d’acqua in mano. Quando arriva al suo tavolo abbassa gli occhi e bisbiglia qualcosa mentre accende la candela decorativa al centro della tovaglia. Davide allunga il collo facendo intendere di non aver udito.
«Welcome in Multikulti» ripete il ragazzo con un sorriso timido.
Avrà sì e no una ventina d’anni. Non gli dà neppure il tempo di rispondere, che già è sparito da dove era venuto.
Davide si arrende. Si aspettava una serata facile, una bottiglia da sorseggiare a luci soffuse e un dopocena piccante in camera sua. E invece eccolo lì, in un locale etnico affollato e seduto a un tavolo con un solo coperto. Vorrebbe essere rimasto a casa a bere la bottiglia di birra che non ha più finito.
Se dopo l’antipasto non si è ancora fatta viva, me ne vado, si dice. L’idea di prendere una buca alla sua età lo terrorizza. Si passa una mano stanca tra i capelli. Si sente ridicolo, adesso, a esserseli tagliati. Merda, sono così da buttare?
È ancora perso nei propri pensieri, lo sguardo fisso sulle costellazioni luminose della parete decorata, quando una figura singolare gli si para davanti. È un uomo con i baffi più lunghi che abbia mai visto: neri, lucidi e arricciati all’insù. Ha in testa un grande cappello da cuoco e un grembiule nero.
«Yilmaz» gli dice, indicando se stesso. «Cuoco! Benvenuto a Multikulti. Stasera cena turca: insalata di bulgur, cacik, hummus, foglie di vite ripiene, Iç pilavi,¹ orman kebap e dolce baklava. Tutto fresco, cucinato io. Spero qui ti piace!».
«Grazie. Sono sicuro che sarà tutto buonissimo». Ma non ho capito un cazzo di quello che hai detto, aggiunge tra sé.
Yilmaz si alliscia il baffo destro verso l’alto e lo scruta con gli occhi scuri con l’aria di uno che vorrebbe affettarlo su un tagliere per poi servirlo ai clienti. Il modo che ha di fissarlo è sfacciato, come se volesse leggere le sue intenzioni.
Davide si sente a disagio. Pensavo di farmi una scopata e invece sono finito in una realtà parallela, con un turco pazzo che mi vuole ingozzare.
«Foglie di vite arriva subito con crema di ceci. Piatto preferito di Suheila».
«Grazie!» gli risponde con finto entusiasmo, chiedendosi chi diavolo sia questa Suheila.
Poco dopo, il ragazzo che gli ha già portato l’acqua gli mette davanti tre piattini colorati con degli involtini scuri, una salsa bianca, del pane turco e la crema di ceci. Ha lo stomaco chiuso da quando ha messo piede nel locale, ma il cibo che adesso ha sul tavolo ha un profumo davvero allettante.
Lo saggia prima con la forchetta, scostando i lembi scuri dell’involto, senz’altro appartenenti alla foglia di vite. Il ripieno esala un aroma di spezie. Anche il pane caldo è ottimo, soprattutto quando lo intinge nella crema bianca che ricorda una specie di salsa greca. Non si accorge neppure quand’è che la fame gli è tornata. Si tuffa in quel cibo insolito divorandone ogni briciola fino all’ultimo pezzetto di pane, con cui ripulisce con cura la ciotola della crema di ceci. Pochi minuti più tardi il ragazzo torna per portare via i piatti e la luce improvvisamente si spegne, lasciando la sala illuminata soltanto dalla parete con il cielo stellato e le candele sui tavolini. Le voci degli altri avventori si affievoliscono. Davide riesce solo a cogliere qualcuno sussurrare sta per entrare Suheila, poi nel ristorante cala il silenzio.
La porta da cui è entrato si spalanca e contemporaneamente rimane al buio anche l’altra sala. Un uomo brizzolato fa partire una base musicale da dietro il bancone del bar. Una melodia ipnotica si diffonde dalle casse del ristorante, mentre gli occhi di tutti i commensali restano incollati alla porta aperta, in attesa che accada qualcosa. Anche Davide fa lo stesso, scoprendo presto di non riuscire a distogliere lo sguardo dai battenti di legno.
La musica prosegue per qualche secondo alimentando l’attesa. Infine una figura femminile contornata da bagliori caldi supera l’uscio ed entra nella sala. La donna è coperta da un velo dorato, trasparente ma non a sufficienza perché Davide possa intravederne i tratti del viso. Il drappo le ricopre anche la parte superiore del corpo, un manto di luce e ombre che lei trattiene su di sé con esperienza, con le braccia allungate oltre la testa e le mani che si muovono agili a creare delle ipnotiche onde ritmiche, che innescano riflessi d’oro sulla superficie liscia della stoffa. Sotto, la pancia è nuda. Pelle candida, ombelico piccolo e perfetto, adornato da un piercing argentato con un ciondolo a forma di luna. Il ventre è sodo, si muove in armonia con i fianchi morbidi e torniti, cinti da una gonna ricamata con perline di vetro e strass, con un taglio a coda di sirena che si allunga fino ai piedi. Uno spacco vertiginoso si apre sulla gamba sinistra a ogni passo con cui la donna incede nella sala. I piedi nudi poggiano sul pavimento silenziosi come fossero di velluto. Un filo d’argento le adorna una caviglia. Davide è rapito da quella visione, in una sorta di realtà onirica che gli offusca i sensi rendendolo incapace di guardare altrove o di reagire.
Le braccia della danzatrice fluttuano sapienti dentro i suoi pensieri, indirizzando l’attenzione su ogni curva di quel corpo sinuoso e infiammando il suo desiderio. Con movimenti abili e flessuosi, la figura velata libera una mano per rivelare i propri occhi al pubblico della sala. Due piccole gemme verdi marcate di kajal nero e un fitto velo di ombretto dorato risplendono nell’oscurità. Davide sussulta e serra i pugni per la sorpresa. Il verde bosco di quello sguardo appartiene a Lara.
La ragazza inizia a volteggiare, e il velo si libera tra le sue braccia scoprendole interamente il volto e il seno, costretto in un corpetto dorato tempestato di perle lucenti. Un neo al centro cattura subito la sua attenzione, è un frutto peccaminoso che aspetta solo di essere colto tra i bagliori dorati di quella pelle di seta.
Continuando a roteare i fianchi, le mani e le gambe,