Ora che ci sei
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Anteprima del libro
Ora che ci sei - Gabriele Collesano
sarà
Uno
Chissà cosa gli frulla in testa.
Mi sto avvicinando alla cassetta postale della famiglia Pasini. È rossa, di forma allungata in classico stile americano. Ed è situata proprio all’interno dell’alto cancello che divide il giardino di casa dalla strada.
Il prato tagliato con immensa cura mi chiede di mollare tutto e di sdraiarmi sotto i raggi di un sole che per ora è pallido ma promette un mezzogiorno di fuoco. Però non posso permettermi nemmeno un minuto di sosta, sono a inizio gita. Ho lo scooter carico di posta e questa è la prima di non so nemmeno io quante consegne. Nell’allungarmi per lasciare il giornale travalicando l’inferriata col braccio destro, rischio anche di cadere tanto è il peso da sostenere in quest’equilibrio precario.
In più ci si mette lui a mettermi pressione. Lucky, il pastore tedesco della proprietaria che come ogni mattina, appena mi vede, inizia ad abbaiare sguaiatamente e arrampicarsi sui ferri nell’intento di saltarmi addosso.
Perché lo faccia non sono ancora riuscito a spiegarmelo. Me lo chiedo ogni mattina da un anno e mezzo a questa parte, da quando ho iniziato a fare il portalettere all’ufficio di Pontedera.
Riesco a inserire il quotidiano senza farmi assalire dall’apparentemente graziosa creatura e riparto alla volta della prossima fermata. Mentre mi allontano, continuo a sentire il rumore delle sue zampe che sbattono sulla cancellata.
Chissà davvero cosa gli frulla in testa: forse il suo intento quotidiano è quello di non farmi entrare e mandarmi via. E forse, vedendomi davvero andar via senza intromettermi nella sua proprietà, si sentirà davvero fiero di sé. Visto? Se gli abbaio se ne va! penserà tra sé e sé. Lui sì che ha la sua razione giornaliera di soddisfazione. Sono io a dargliela.
Io, invece, di me, non sono proprio soddisfatto: ho una laurea in giurisprudenza e un dottorato in economia ma sono costretto ad adattarmi al mestiere che passa il convento. Tempi duri che non sembrano vedere la parola fine, purtroppo.
Ora faccio il postino, prima ho fatto il cameriere. Prima ancora l’animatore nei villaggi turistici in giro per il mondo.
Tutti contratti precari che poco c’incastrano con quello per cui ho studiato. Non mi resta che adattarmi e vivere nella speranza che un giorno arrivi la proposta che ripaghi i sacrifici fatti per studiare.
Per fortuna l’attuale lavoro per lo meno mi permette, metaforicamente, di fuggire dalla triste realtà: apro il gas a manetta e scappo da un mondo del lavoro che penalizza pesantemente noi giovani. Che non ci dà quello che ci spetta. Un futuro, una vita, una casa, una famiglia.
Proprio ora che un futuro, una vita, una casa, una famiglia, sono proprio tutto quello che vorrei: ho trent’anni, sono innamorato di Valeria da cinque e mai come oggi siamo decisi a voler andare a vivere insieme.
Sono passati i tempi delle bravate, delle notti sbagliate finite con molto più di un bicchiere di troppo.
Quelle notti ad aspettare il mattino in mezzo a una strada con gli amici di sempre per smaltire la sbronza. Magari con la camicia strappata e uno zigomo gonfio perché avevi avvicinato la ragazza più carina del locale e il suo fidanzato non l’aveva presa proprio bene.
Ora voglio altro.
Il vento si intrufola tra i pertugi del casco e mi accarezza la pelle. La sua dolcezza mi fa sentire vivo, seppur non sia vivo per come lo vorrei.
Due
Tappa fissa. Ore undici sosta al bar L’Abete: sbirciata ai quotidiani locali e spuma bionda. Da quindici anni a questa parte penso di berla solo io tra tutti i clienti del locale. Il gestore mi ripete spesso, per prendermi in giro, che la compra altro che per me. In effetti è una bibita d’altri tempi, oggi vanno di moda drink energetici e beveroni vari capaci solo di spaccarti lo stomaco con effetti collaterali non proprio il massimo della vita. E fosse il male di questo, i ragazzini di oggi si spengono pian piano con ogni tipo di droga. Pasticche, cocaina, prodotti sintetici mescolati con chissà quale schifezza.
Per sballarsi una sera e rendersi conto la mattina seguente di essere solo dei perfetti coglioni con qualsiasi tipo di mal di testa, pancia e chi più ne ha più ne metta.
Ai miei tempi, quelli della spuma, al massimo ci sfondavamo di marjuana. Qualche cannetta in compagnia, forse qualcuna di troppo, niente di più.
Un tavolo, un mazzo di carte e mille risate, o un altro tipo di tavolo, quello prenotato in discoteca, con sopra diverse bottiglie ad alto tasso alcolico, ma senza passare al livello superiore: sballarsi. Quel livello che porta le famiglie a piangere i figli perché la pasticca era tagliata male. Poi hai voglia di fare le analisi tossicologiche o incolpare l’infame che te l’ha venduta: oramai è troppo tardi.
Sarà passato un anno, più o meno, da quando fui attore non protagonista di un evento che non scorderò finché campo. Erano le sei di mattina e mi stavo dirigendo all’ufficio di recapito, avevo un sacco di lettere accumulate da incasellare e decisi di anticipare l’entrata di un’ora abbondante.
Mi diressi a piedi verso la meta come consuetudine, le strade erano deserte e il cielo era color azzurro scuro. I raggi del sole ancora non avevano deciso di far luce su una giornata che per me sarebbe rimasta indimenticabile.
Un’auto solitaria sbucò dall’incrocio di fronte a velocità sostenuta e inchiodò improvvisando un parcheggio di fortuna sul marciapiede che costeggia la via. Il guidatore, bianco come uno straccio, con lo sguardo visibilmente preoccupato e gli occhi a palla, scese quasi al volo e si diresse precipitosamente ad aprire la portiera del passeggero.
Ne uscì una ragazza mingherlina, due gambe dello spessore delle mie braccia, dal colorito che dire pallido è un eufemismo e con gli occhi arrovesciati.
Mi chiese aiuto così mi avvicinai, la facemmo sedere in terra, era sotto effetto di ecstasy.
Lui mi raccontò che stavano tornando da ballare e per finire la serata avevano sciolto la roba che gli era rimasta in un super alcolico.
Lei, non contenta della cazzata che aveva fatto, ora fumava un sigaretta come se nulla fosse e nemmeno da seduta riusciva a stare in equilibrio, la sua testa pendeva verso destra catturata dalla forza di gravità.