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Il profumo delle mattine di maggio
Il profumo delle mattine di maggio
Il profumo delle mattine di maggio
E-book198 pagine2 ore

Il profumo delle mattine di maggio

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Info su questo ebook

Come ci si comporta quando si decide di scappare da una strada che non si vuole percorrere, ma poi ci si accorge che è questa a percorrere te? Questo pare essere il destino di Mark, un giovane studente che non trova il suo posto e adotta il conforto nella droga come potenziale stile di vita, nella completa indifferenza della sua famiglia. La sua determinazione lo porta a ricostruirsi la vita in un’altra città, dove conosce Isabel.
Nonostante il forte sentimento che unisce i due, la loro relazione è complicata, faticosa e tortuosa. “Il profumo delle mattine di maggio” è una rinascita, un’intensa storia d’amore giovane e genuina che ha il potere di riscattare le sofferenze dovute alla diversità e all’emarginazione sociale.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2020
ISBN9788868273439
Il profumo delle mattine di maggio

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    Anteprima del libro

    Il profumo delle mattine di maggio - Matteo Carecci

    Bukowski

    1.

    C’era un ragazzo. Questa non è una favola, men che meno una fiaba. Questo è il racconto di una vita vera. Ecco perché non c’era una volta, ma c’era e basta. Non che ora non ci sia più, da qualche parte si trova, solo che non si è capito bene ancora dove sia, non si è capito in quale piccolo e banale dettaglio della sua vita si sia perso.

    Perché lui era così, era in grado di affrontare le grandi situazioni che la vita gli metteva davanti, per poi cadere in banalità e piccolezze che lo disarmavano e lo privavano della tranquillità che ogni adolescente dovrebbe avere sempre a portata di mano.

    Questa è la storia di un ragazzo che un giorno decide di passare dal bianco al rosso, da un paesino, a una città, da un ruscello al mare. Da una pallina da tennis a un pallone da basket. Questa è la storia di un ragazzo che trova un pezzo di carta per terra, lo prende e lo porta con sé. Chi raccoglie pezzi di carta per terra? Non un ragazzo qualunque. Chi è che sorride leggendo cosa c’è scritto in un bigliettino tutto stropicciato trovato per caso? Non un ragazzo qualunque. Cosa c’era scritto di tanto importante? Un ragazzo qualunque lo direbbe, ma lui no. Questa è la storia di un ragazzo che da un giorno all’altro ha trovato la forza di scappar via e di cambiare strada, proseguendo alla cieca, senza sicurezze, senza certezze. Questa è la mia storia.

    2.

    Quante persone ci hanno guardato negli occhi e sono state in grado di dirci: «Se hai le palle, prendi tutto e vai, scappa. Qualcosa cambierà e sarà sicuramente in meglio. Se non stai bene qui, starai bene altrove». Ma quante di quelle persone quando vivevano nella loro ristrettezza hanno seguito il consiglio che hanno dato a me.

    Ve lo dico io, pochissime, forse nessuno. E quante invece hanno continuato a illudersi sperando in un cambiamento che non sarebbe avvenuto mai?

    Consigli, parliamo di consigli. Siamo tutti in grado di dare consigli, perché in fondo ormai chiunque conosce il verso in cui ruota il mondo, abbiamo imparato tutti quali sono i nostri errori comuni, eppure continuiamo a farli. Sappiamo sempre differenziare le scelte giuste dalle scelte sbagliate, ma pensateci un attimo. Quale via continuiamo a percorrere? La risposta la conoscete, non c’è bisogno che sia io a dirla. Siamo tutti in grado di dare consigli vitali agli altri, non siamo mai in grado di darli a noi stessi, quando in realtà conosciamo ciò di cui realmente abbiamo bisogno, perché io sono l’unico a conoscere perfettamente me stesso. Mia madre è l’unica a conoscere bene se stessa. Tu sei l’unico a conoscere bene te stesso, e francamente le risposte alle tue domande, le trovi solo dentro di te. Perché tu sei un libro. Un libro fatto di domande, e le risposte sono alle ultime pagine, in fondo. Quindi ti prego, prima di fidarti di qualcuno, fidati di te stesso, perché hai già tutte le soluzioni per andare avanti. Devi solo andare all’ultima pagina.

    3.

    I giorni passavano lentamente. Erano una tortura, giorni spenti e freddi. Il sole non bastava a riscaldarli, gli abbracci degli amici men che meno. Avevo bisogno di qualcosa, che mi risollevasse il morale. L’erba non bastava, quella mi faceva solo andare in paranoia o rilassare. Io avevo voglia di correre, ma non sapevo dove trovare la forza per farlo. Fisicamente stavo benissimo, avevo bisogno solo di non pensare, avevo bisogno della forza mentale. Mi era saltata in mente l’idea di provarci con una ragazza, magari l’amore avrebbe potuto aiutarmi. Avrebbe potuto aiutarmi certo, ma mica salvarmi. Poi, in realtà io non sapevo nemmeno cosa volesse dire stare assieme a una ragazza. Ne avevo solo sentito parlare nei film, avevo letto qualcosa nei libri, ma io non ne sapevo proprio nulla. Conoscevo tante persone tristi perché le loro relazioni erano finite. Conoscevo tante persone che continuavano a dire che è meglio star da soli perché si è più liberi, si hanno meno problemi e bla bla.

    Non avevo bisogno di affidarmi a qualcuno per paura di affondare. Preferivo affogare nel mio oceano in silenzio, piuttosto che urlare al mondo di essere in pericolo; tanto nessuno mi avrebbe salvato. Poi mi guardavo intorno e notavo gente presa per mano, sempre pronta a sorridere, sempre con il buon umore. Non sapevo cosa fare. Non sapevo chi dentro di me, mi aveva detto: Trovare una ragazza, dove la trovi? E soprattutto come la trovi? Non sono mica dei vestiti per i quali basta andare e scegliere il tuo preferito, provare e acquistare. Non funziona così, non fa per te.

    Aveva ragione quella voce. Perlopiù in questo posto non avevo mai trovato una ragazza che avesse saputo incuriosirmi per più di un secondo. Di ragazze carine ce n’erano abbastanza, ma tutte impegnate ad apparire, tutte interessate a farsi, tutte propense a non pensare.

    Era questo il bello del posto in cui vivevo. Erano tutti dei drogati. Chiunque non vedeva l’ora di entrare nel proprio mondo fantastico nel quale, secondo loro, solo la droga poteva farli arrivare. Vivevamo giorni grigi certo. Non ero l’unico a essere triste qui. Questo mi consolava. Notavo gli occhi degli altri, anche loro, nel proprio piccolo, erano simili a me. Ma non ci credevo. Perché io ancora non ero simile a loro. Io non mi facevo. Ancora. Ancora non mi facevo.

    4.

    Nella mia compagnia eravamo tanti, dipendeva dai giorni. Dipendeva dalle dipendenze. Certe sere uscivamo anche in dodici, tredici. Altre volte in quattro, cinque. Tutto dipendeva dal tipo di droga che girava nel gruppo e ne girava di parecchia e di diversa. Io non so cosa facessi lì, ogni fottuto giorno con loro. Non c’entravo nulla, non contavo nulla, ma erano state le uniche persone ad avermi accettato così come sono: un ragazzo che non parla tanto, ma che quando parla esagera. Un giorno capii, però. Loro non mi avevano accettato. Loro non si erano accettati. Erano tutti dei solitari, che si erano ritrovati a far gruppo da un momento all’altro, ma in realtà a nessuno importava nulla dell’altro. A tutti importava solo di una cosa: chi portava cosa. In quest’ambito però c’era rispetto. Mai nessuno veniva meno ai propri impegni. C’era una sorta di calendario e ogni giorno qualcuno doveva portare la roba. Era una cosa intelligente, anche perché in questo modo si faceva anche in tempo a racimolare denaro. Erano furbi i miei amici. Erano anche egoisti.

    Dopo un po’ capii perché uscivo sempre con loro. Capii che una striscia volevo farmela anche io. Solo questo mi differenziava da loro. Quando erano nei guai, e lo erano spesso, io li aiutavo. Non ci definivamo dei ladri, eravamo solo dei ragazzini alla ricerca della felicità. Rubavamo spesso però. Non felicità. Avremmo voluto rubare la felicità dagli occhi della gente, eravamo egoisti, no? Noi invece prendevamo denaro, gioielli, cd, casse, cuffie. Di tutto, puntavamo a roba facile, non volevamo esagerare, volevamo mantenere quel controllo su di noi che in realtà era venuto già a mancare all’inizio di tutto ciò. C’era anche chi rubava dagli zii, dalla nonna, dai genitori divorziati. C’era tutto lo schifo, nel mio gruppo. Ma poi, ridevano. Era questo ciò che importava. E io ero l’unico a guardarli senza fare alcuna smorfia.

    Non avevamo un gruppo su WhatsApp, sarebbe stato inutile. Molti di noi non avevano nemmeno un cellulare. Non ci sentivamo mai, però facevamo qualcosa di carino: ci scrivevamo bigliettini e li lasciavamo nel solito posto. Uscivamo solo lì e ci uscivamo solo noi. Era un parco piuttosto piccolo e malcurato. Si trovava dietro a un laghetto. Al laghetto ci andava parecchia gente, era un posto molto più accogliente. Il nostro parco era separato da una fitta serie di piante, alberi e siepi che impedivano la vista e il passaggio. I miei amici venivano qua già da qualche mese prima di conoscermi ed è stata una casualità che loro abbiano scoperto questo posto. Mi avevano raccontato che un pomeriggio di un anno fa, mentre facevano il solito giro perlustrativo alla ricerca di un rifugio sicuro per poter tirare qualcosa su, Gianluca, il tipo più coglione del gruppo, mentre cercava di impennare con la bici, cadde sulla siepe e d’un tratto si trovò in questo parco. Insomma, i rami, le foglie, le radici, erano fitti ovunque, tranne in quel punto, dove Gianluca cadde, come se qualcuno volesse donare a quei poveri ragazzi un posto dove autodistruggersi ancora di più.

    Era abbandonato il parco. A parte noi che passavamo in pratica tutto il nostro tempo lì, non c’era mai nessuno. L’erba era alta la metà di noi e i vialetti per camminare al sicuro erano pochi. C’erano solo tre panchine trasportabili. Nel senso che non erano fissate per terra e noi le spostavamo a nostro piacimento. C’era anche una sottospecie di tettoia e quando pioveva andavamo là sotto. Si stava bene. La sera bastava portare un po’ di lampadine e il gioco era fatto. Con noi avevamo Liam che era stato un boy-scout da ragazzino e aveva la strana mania di collezionare lampadine tascabili. Infatti, il più delle volte che andavamo a rubare in un negozio d’elettronica, lui finiva sempre nel reparto lampadine. E ci sapeva fare anche lui.

    5.

    Mi accusavano di esser sempre triste, di non sorridere mai.

    «Non troverai mai un lavoro se non sarai sorridente e simpatico» diceva qualcuno.

    Ho le mie maschere pensavo io.

    Ma il reale problema si presentò quando avevo ancora due anni, cioè quando ancora quasi non parlavo. La prima persona che mi abbandonò fu la mia madrina, la persona che mi aveva battezzato. Se la incontrassi per strada non saprei nemmeno riconoscerla. So il suo nome, si chiama Marta, o forse Martina, un nome con la M insomma. Lei sa che mi chiamo Mark, ma si è fermata lì, non ha voluto sapere nient’altro di me.

    Un’altra persona che mi abbandonò fu mia nonna, che per me era una madre. Infatti, non la chiamavo mai nonna, non la chiamavo mai e basta. Non dovevo farlo, perché lei c’era sempre, ma mi abbandonò anche lei. Se ne andò lasciandomi solo, disperso quando ancora avevo tredici anni e non potevo reagire. Dopodiché mi abbandonarono tante altre persone, ma non starò qui a stilarvi una noiosissima lista. Non finirei mai e non ne varrebbe nemmeno la pena.

    Fatto sta che i problemi arrivano sempre dopo. Le ripercussioni vengono a galla quando meno te lo aspetti, come quando perdi una persona. Il valore lo capisci sempre con il passare del tempo e con il passare del tempo quella persona ti manca. Mentre quella persona ti manca tu pensi a quanto sei stupido. È semplice il concetto, talmente semplice che ci sbattiamo sempre sopra.

    Mi abbandonarono talmente tante persone che alla fine sono arrivato a pensare che il problema fossi io, che in fondo qualcosa che non andava in realtà c’era, e stava proprio in me. Per questo motivo, mi abbandonai anch’io, e mi persi. Mi lasciai andare e non lo so, non so più nulla.

    6

    Anfetamina. Fu questa, la prima cosa che provai. Non lo feci a caso. Avevo molta paura quindi, nel mio piccolo, mi m’informai. Chiesi alle persone che frequentavo, feci un giro su internet e questo fu quello che trovai: Aumento della vigilanza e della capacità di concentrazione, maggiore propensione all’attività fisica, maggiore capacità di eloquio verbale, riduzione del senso della fatica e della fame, insonnia, induzione di atteggiamenti euforici, disinibiti e di gratificazione personale.

    Non sono sicuro che fossero questi gli effetti che desideravo, o lo stato che agognavo, ma non m’importava. Ero un ragazzo sempre attento, sempre sulle mie, ma questa volta volevo spegnermi a occhi chiusi. Ero curioso. Gratificazione personale. Non sapevo nemmeno cosa fosse, ma quell’effetto alla sola lettura m’ispirava fiducia. M’ispirava anche il fatto che forse in questo modo avrei potuto parlare di più con i miei amici, non lo facevo mai. Sicuramente non conoscevano neanche la mia voce. Avrei potuto ascoltarli anche di più. Insomma io prestavo attenzione a loro solo quando andavamo a rubare, perché se in quel momento non lo facevo, era finita.

    Precisamente si chiamava anfetamina-speed, non ho mai capito il perché, sinceramente nemmeno m’interessava capirlo. Forse perché ci metteva solo dai due ai dieci minuti a fare effetto. Ordinai la mia prima dose ai miei compagni e un venerdì sera di un qualsiasi mese toccò anche a me. La mia prima volta. Mi chiesero anche se la volessi in polvere o in pasticca. Risposi che non importava. Accadde tutto in fretta, chiusi gli occhi senza nemmeno pensarci, e sniffai. Non ricordo molto di quella sera, ma ridevo anch’io cazzo. Ero felice, ero felice!

    7.

    La mattina dopo mi svegliai? Certo che mi svegliai. Avevo dormito poco però, forse non avevo dormito proprio, ma avevo fatto un sogno strano: c’erano due Mark, uno lucido e un altro… ero io, che mi sentivo fatto.

    «Ehi Mark, devi studiare» diceva l’altro me.

    Io non rispondevo. Ridevo e basta.

    «Ehi Mark non hai soldi per drogarti».

    «Ahahahhahahaha li troveremo amico, siamo bravi a farlo» rispondevo così.

    «Mark in questo modo un giorno potresti non svegliarti più».

    «Non è un mio problema» ribattevo.

    Uno degli effetti era l’insonnia, ed era vero.

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