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Il cerchio di Numen. Il fuoco di Eares
Il cerchio di Numen. Il fuoco di Eares
Il cerchio di Numen. Il fuoco di Eares
E-book490 pagine7 ore

Il cerchio di Numen. Il fuoco di Eares

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Info su questo ebook

Alex è una venticinquenne convinta di essere una ragazza come tante, timida e maldestra con i ragazzi e perennemente insoddisfatta di sé. Dopo la morte dei suoi genitori, per lei un nuovo inizio, un nuovo lavoro; una sorellina tutto pepe da tenere sempre lontana dai guai; un'anziana zia un po' troppo protettiva e la sua eccentrica amica Lucy sempre pronta a darle una mano. Durante una festa, le sue labbra incontrano quelle di un irresistibile sconosciuto, travolta da una passione, che nasce da un antico legame che origine tra le pieghe del tempo, scoprirà che sarà il suo nemico colei che più desidera. Dovrà affrontare un passato dimenticato che torna con i suoi fantasmi bramosi di vendetta, su colei che diverrà L'Eares: custode di un potere divino che dominerà il destino degli uomini. La sola in grado di formare il nuovo Cerchio di Numen, al suo fianco avrà un esercito proveniente da un altro mondo, pronti a sacrificare la propria vita per lei. Alex sarà disposta ad accettare questa grande responsabilità e a sacrificare quello che ha di più caro, la sua famiglia per salvare il destino di due mondi?
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2020
ISBN9788831660822
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    Anteprima del libro

    Il cerchio di Numen. Il fuoco di Eares - Clio Jb

     ClioJB

    Prologo

    Il fuoco esplose selvaggio avvolgendo tutto nel suo tremendo abbraccio; una magica melodia di morte che in un attimo dissolse ogni rumore con il suono più assordante, cancellò ogni ferita con il dolore più lancinante e fermò la realtà in una bolla trasparente in cui il tempo non scorreva più.

    «Tu sei… Mia!».

    Inutile lottare, oramai non c’era più nulla per cui valesse la pena di vivere: aveva fallito. Chiuse gli occhi e lasciò che le sue braccia smettessero di stringere quel corpo a cui si era aggrappata. Perché lo stringeva? Non ricordava chi fosse, non sapeva nemmeno perché si trovasse lì in quel momento. Il calore era esploso dentro di lei non appena… Quando?

    Non aveva più alcuna importanza ormai, se ne stava andando: i battiti nel petto erano deboli… Uno. Due. Tre. Quattro?

    E poi più nulla.

    1

    Il fumo si dissolse, lasciando il posto a un refolo di vento fresco, odore di erba bagnata nell’aria e due figure che giacevano accasciate nel mezzo di un vecchio edificio abbandonato, del quale non rimaneva che qualche parete diroccata. Un uccello cinguettava svogliato, osservandoli come se lì intorno ci fosse qualcosa che non era al suo posto.

    L’uomo si destò per primo, scattò a sedere come una molla e dalla sua gola uscì un urlo sofferente, ma carico di rabbia: «ALEX!». Dopo lo sforzo si accasciò di nuovo sul fianco: aveva a malapena la forza di tenere gli occhi aperti, poteva solo percepire la desolazione che regnava tutt’attorno; in sottofondo poteva distinguere uno scrosciare lento di acqua. Da una finestra filtrava un debole raggio di sole che faceva risplendere delle lunghe e scomposte onde di luce. Il volto della figura femminile rimaneva semicelato dall’oscurità.

    L’uomo non era sicuro che la donna accanto a lui fosse ancora viva. Fu preso dall’ansia: gli mancò l’aria nei polmoni come gli era successo quando ancora si trovava in mezzo a quell’inferno di fuoco e fumo soffocante perché sapeva che non sarebbe potuto sopravvivere da solo. Era quello il patto. E se lo ricordava bene.

    No, non può essere…, ripeteva frenetica la sua mente. Che cosa ho fatto?!.

    Ansimando per il dolore, che rendeva cento volte più faticoso qualsiasi movimento, si mosse per raggiungere la donna trascinandosi a forza di braccia, riuscendo appena a muovere le gambe ferite, su quel pavimento ricoperto di foglie secche, polvere e sudiciume vecchio di anni. Non gli importava se le sue lesioni si fossero infettate, contava solo lei. Anche se forse era troppo tardi.

    Quando le fu vicino tanto da poterla toccare, con timore le scostò le ciocche di capelli dal volto, vide del sangue rappreso dovuto a una brutta ferita sulla fronte. La sua pelle, un tempo liscia e puntellata di lentiggini, ora era pallida e sporca, incrostata di sangue e sporcizia. Ma era sempre bellissima. Il suo corpo giaceva scomposto sulla schiena; notò una pozza di sangue scuro che si allargava sotto di lei.

    «Oh no! Dio, no, c’è troppo sangue…».

    Ironico che proprio lui stesse pregando per salvarla. Oltre a lottare contro quel tremendo senso di colpa che stritolava la sua anima maledetta, doveva fare i conti con se stesso, contro le azioni commesse che avevano portato a tutto questo.

    Stupido, idiota… Idiota!, si accusò.

    Accostandosi alla ragazza le cercò il battito tastandole il collo con due dita. In principio non avvertì nulla; si sforzò di concentrarsi su quel punto del suo collo, una speranza racchiusa in un debolissimo pulsare. Avvicinò poi il viso a quello della ragazza per cogliere anche solo un flebile respiro o qualsiasi altra traccia di vita. Finalmente un lievissimo alito uscì dalla sua bocca socchiusa, scaldandogli l’orecchio. Quel debole sussurro riaccese in lui un’energia che non credeva più di avere.

    Ecco la sua seconda occasione… Aveva una strana sensazione che gli riempiva l’animo e, immediato, un selvaggio spirito di possesso nei suoi confronti scattò in lui, guarendolo miracolosamente da ogni ferita, mentre fino a un attimo prima stava quasi per morire. Si accucciò accanto a lei con le mani a terra, come un grosso felino che all’erta con il pelo ritto scruta tutt’attorno in cerca della minaccia che sta incombendo sulla sua compagna. Sì, perché lei era proprio quello, la sua compagna… la sua sposa… Anche se forse l’aveva accettato troppo tardi. Ma per fortuna lei era ancora viva, e solo questo importava adesso.

    Doveva portarla in un luogo sicuro dove poterla curare, proteggerla per permetterle di rimettersi in piedi.

    Le sue orecchie si tesero come quelle di un animale che fiuta il pericolo avvicinarsi. Con uno scatto sovrastò il corpo della ragazza ancora incosciente, voltando lo sguardo verso la minaccia incombente.

    «Natale dev’essere arrivato in anticipo quest’anno!». Voce di donna, pungente; nell’ombra arrivò come un pizzicotto alle orecchie dell’uomo. Note per niente amichevoli che già aveva sentito, ma in quel momento non riusciva a focalizzare: era esausto e i suoi sensi erano tutti volti a proteggere la sua compagna.

    «Mostrati!!», la voce di Eric uscì dalla sua gola come un ruggito animale.

    «Stai calmo, amico». La voce si stava muovendo attorno a loro, ma ancora non si mostrava.

    «Ho detto mostrati!».

    «Va bene, come vuoi…», disse con una tranquillità che non lasciava presagire nulla di buono.

    Sentì freddo all’altezza del collo solo un tocco lieve ma sufficiente a bloccarlo all’istante: quella maledetta lama bianca che prima aveva scatenato l’inferno ora era posizionata per una perfetta decapitazione: la sua.

    «Fai un solo movimento e potrò verificare se davvero il tuo sangue reale è blu come si dice…».

    Una mano delicata e profumata gli accarezzò il viso, gesti lenti e quasi amorevoli. L’uomo non la riconosceva ma dentro di sé sentiva che era una femmina che portava morte. E lo stava provocando, anzi lo stava prendendo in giro. La lasciò fare per qualche istante, poi d’improvviso si ribellò; raccolse tutte le sue forze e con un gesto calcolato afferrò il braccio che reggeva quella lama e scaraventò la donna a terra di fronte a sé, per poi balzarle addosso e puntarle la sua stessa arma alla gola.

    Finalmente poteva vederla in faccia, o quasi, dato che il viso era celato da un drappo nero; era certo che la sua espressione sarebbe stata decisamente di stupore e delusione in quel momento. Poté vedere le sue labbra carnose ma si rese conto che sotto quel drappo era stampato un irritante sorriso di soddisfazione.

    Poi comprese e gli si mozzò il fiato; non si era accorto che come un fantasma dietro di lui era apparso un essere sinuoso e fluttuante… O forse era meglio dire che era stato evocato: aveva forma di serpente ma era costituito da una sorta di pelle, la cui struttura poteva far pensare a qualcosa di artificiale; non aveva né testa né coda, quindi non poteva dire se fosse un’entità con vita propria. Un lungo serpente di cuoio che stava catturando la preda tra le sue spire.

    La donna che fino a quel momento si trovava bloccata sotto di lui scomparve, letteralmente dissolta.

    «Ma che diavolo...».

    «Ops…». La sentì fluttuare nell’aria, sempre con quell’odioso tono di scherno.

    L’uomo cercò di opporre resistenza tirando e strattonando con il braccio avviluppato a quelle spire con tutte le sue forze. A pochi metri di distanza giaceva la donna rimasta senza protezione; voleva spingersi verso di lei per quell’innata sensazione protettiva, ma il cuoio gli avrebbe lacerato la carne in pochi secondi.

    «Voi uomini siete proprio testardi!».

    La donna, ora entità sovrannaturale, ordinò a quel magico serpente di stringere le sue spire ancor di più.

    E la preda cadde senza fiato; ora era quello il problema principale: tentare di liberarsi quel tanto che bastava per far entrare un minimo d’aria nei polmoni. Si trovava disteso poco distante dalla ragazza svenuta. Rosso in viso, tossiva e rantolava, allungando un braccio verso lei.

    «Interessante… Davvero interessante…», e la stretta si allentò dissolvendosi magicamente, lasciando respirare l’uomo che ne approfittò per tornare a protezione della sua compagna svenuta. La prese tra le braccia e, nonostante fosse malfermo sulle gambe, arretrò sollevando con coraggio una mano verso l’avversaria per intimarle di stare lontana. Ora lei era in piedi di fronte a pochi passi da lui, con entrambi i pugni sui fianchi, la testa inclinata che osservava incuriosita la scena: «Cosa pensi di fare? Stai scherzando, vero?».

    In quel momento l’uomo fu distratto dallo squittio di un topo che era sbucato da un anfratto dietro di lui per infilarsi di corsa in mezzo ad alcune travi di legno; voltò lo sguardo per pochi istanti ma quando tornò a guardare di nuovo davanti a sé la minacciosa femmina si era materializzata a pochi centimetri dal suo viso. Gli prese il mento tra le mani, in contrasto con la forza con cui lo aveva bloccato, e rimase a fissarlo intensamente per alcuni lunghissimi secondi.

    «Tu, chi sei?», chiese lui quasi rassegnato di fronte alla potenza di ciò che aveva di fronte. La voce dell’uomo uscì gracchiante ma tranquilla; quel tocco caldo lo stava addolcendo e calmando, come un balsamo sulle ferite aperte, lo stava cullando.

    «Tu mi conosci già. E sai anche perché sono qui». Detto questo lo lasciò andare, si allontanò indietreggiando lasciando come ricordo una risata convinta, come quella di una persona che avesse appena svelato uno dei misteri della vita a un bambino.

    L’uomo rimase ammutolito di fronte a quella manifestazione un po’ folle. Se era un diversivo per distrarlo, lui non si sarebbe lasciato incantare: doveva fuggire e portare Alex con sé. Ma qualcosa dentro di lui gli diceva che quanto aveva appena sentito non era una cosa da trascurare.

    Guardandosi attorno notò tra i ruderi un passaggio che dava sulla boscaglia. Da lì avrebbe potuto darsi alla fuga. Ma la sua avversaria non era realmente scomparsa: sebbene fosse invisibile era ancora ben presente sulla scena; li stava osservando e poi, più veloce di lui, ricomparve spiccando un salto molto scenografico: aggrappandosi a una vecchia trave atterrò alle sue spalle con la grazia di una pantera.

    «Da un figlio di Kadis mi sarei aspettata di più. Però che colpo eh? Ho ritrovato l’Eares e il suo Compagno in una volta sola. Mi daranno un extra per questo lavoro…».

    «Credo che resterai delusa», fu la risposta orgogliosa dell’uomo, che aveva riacquistato lo sguardo letale e minaccioso e ora lo puntava negli occhi della donna che aveva di fronte.

    Un battito di ciglia e il serpente nero ricomparve, volteggiando sopra di lui, sibilando. Attendeva ordini di morte.

    «Mi stai facendo incazzare, bello mio. Consegnami Alex e sarai libero di andare via sulle tue gambe. Ti darò la possibilità di vivere abbastanza per guardarla ancora negli occhi…». Detto questo l’uomo sentì un acuto dolore alla nuca e la vista gli si annebbiò. Si rese conto che il serpente di cuoio era stato soltanto un diversivo.

    Le gambe gli cedettero di schianto e due mani invisibili gli prelevarono la ragazza dalle braccia. L’ultima cosa che vide fu il pallido viso della sua compagna che, inerme e indifeso, si allontanò da lui.

    2

    Ore 4:00 del mattino di un lunedì di Luglio - Troppo presto per alzarsi, troppo presto per fare qualsiasi cosa! Soprattutto per una come Alex che si era sempre considerata una pigrona doc. Non trovava pace, si stava rigirando da almeno mezz’ora tra quelle lenzuola oramai bollenti, cambiando posizione almeno un centinaio di volte. Era andata a dormire presto la sera precedente con l’intenzione di riposare beatamente e alzarsi fresca e riposata la mattina dopo, ma invece si era ritrovata con la testa pesante e in bocca un saporaccio schifoso da far risvegliare un morto. Purtroppo quell’incubo ricorrente era tornato; l’aveva tormentata per diverse notti, sempre lo stesso schema: fiamme potenti e avvolgenti; poi la sensazione del vuoto che l’inghiottiva lasciandola precipitare verso quel calore di morte fino a che non si sentiva come un vulcano che eruttava lava bollente.

    Sopraffatta dalla paura di morire nel rogo, ogni volta si svegliava in preda all’ansia e zuppa di sudore. Neppure i sonniferi erano serviti, anzi avevano peggiorato decisamente la situazione, perché le impedivano di svegliarsi e prolungavano inesorabilmente quell’onirica minaccia. Dopo vani tentativi di riprendere il sonno si era fissata su un piccolo ragno che meticolosamente tesseva la tela in un angolino del soffitto di fronte al suo letto. Nel frattempo le tornavano ripetutamente in testa i ritornelli delle canzoni che aveva ascoltato la sera prima di addormentarsi… Non era sicura che quella mattina le sarebbe bastata una sola tazza di caffè per rimanere sveglia dopo solamente tre ore di sonno.   Pensò che l’incontro con lo specchio le avrebbe rivelato l’inesorabile profondità di due spaventose occhiaie e… tutto il resto non osava neanche immaginarlo! Con coraggio si costrinse ad alzarsi dal letto, soffocando un’imprecazione quando urtò lo spigolo del mobile col mignolo del piede. Finalmente trovò l’interruttore della luce e purtroppo ebbe la conferma di ciò che si aspettava.

    «Quella non posso essere io!». Ridacchiando isterica per quella strega che vedeva riflessa, tese le braccia davanti a sé e si immaginò di essere uno zombie delle serie preferite che seguiva in tv, dove il solito virus era sfuggito al controllo dei soliti tecnici di laboratorio a cui era andato male il solito esperimento sulle scimmie e che aveva provocato l’epidemia definitiva.

    Che schifo! Aveva gli occhi ridotti a due fessure, le palpebre arrossate, due borse della spesa sotto gli occhi, i capelli ora ridotti a una massa informe e annodata… E non osava guardare il resto: sarebbe stato troppo! Un certo fastidio le strisciò lungo la schiena come una serpe facendole serrare le labbra e stringere le mani a pugno.

    Grazie alla zia, anziché godersi le tanto attese nonché meritatissime vacanze estive, si sarebbe dovuta rinchiudere di lì a poche ore tra quattro mura e affogare tra le scartoffie impolverate. Ma che figata!

    Si era laureata in economia pochi mesi prima, era sfinita dagli studi ma anche raggiante per essersi lasciata alle spalle tutti quegli anni con la testa china sui libri e le notti in bianco passate a preparare la tesi. Si era immaginata che il suo giorno di vacanza perfetto poteva iniziare con la goduria del girarsi dall’altra parte non appena la luce del sole avesse fatto capolino nella sua stanza. E lei, beata, a mostrare al sole il dito medio mentre richiudeva con un magico gesto le tende per poi rintanarsi rapidamente sotto il lenzuolo… Ma tutto questo non sarebbe stato possibile. Nossignore, perché in ogni caso, una simpatica sveglia a forma di gattino che stanziava sul suo comodino le avrebbe dato il suo rumoroso Buongiorno con un robotico Miaoooo, ti voglio beneeee.

    Quel gattino era stato un delizioso pensiero della sua cara sorellina Charlie, la quale sosteneva che rispetto allo stato di abbandono in cui giaceva la sua camera da letto quello poteva rappresentare la massima espressione dell’allegria. Per lei era assolutamente necessario un piccolo passo verso la modernizzazione e un grande passo verso una vita psico-sessuo-sociale più attiva. Il Charlie-pensiero proseguiva nello sfotterla per il suo senso del gusto e della femminilità totalmente assenti e rincarava la dose insistendo sul fatto che fosse troppo testarda e orgogliosa. La sua crociata era ormai iniziata: tornava spesso a casa con qualche stronzata pelosa di colore rosa da aggiungere alla collezione di peluche e bamboline già notevole o qualche fragranza super dolce da spargere nell’ambiente e su tutti i vestiti, sapendo benissimo quanto Alex odiasse quelle noiosissime abitudini da ragazzine!

    Risultato: la camera della sorella maggiore oramai era irriconoscibile e spiccava ovunque un’insopportabile tonalità di rosa o fucsia, brillante di glitter, e l’aria diventata irrespirabile a causa di un nauseante profumo di ciliegia. Per quanti sforzi facesse per liberarsi da queste cianfrusaglie, aveva l’impressione che aumentassero sempre più invece di diminuire.

    Primo memo per le vacanze: far sparire la sveglia miagolante e scoprire dove Charlie ha nascosto quell’insopportabile profumatore automatico.

    Accantonate le manie di Charlie in un angolo remoto della mente, tornò a punzecchiarla il fastidio di quella vacanza sfumata che avrebbe potuto proseguire in giardino su di una comoda sdraio, i-Pod nelle orecchie con una personalissima selezione di brani rock metal sparati a manetta direttamente nelle trombe di Eustacchio e una bibita fresca da sorseggiare moooolto lentamente; il tutto mentre il sole le baciava la pelle regalandole una splendida abbronzatura. Per la verità sarebbe diventata presto un’aragosta abbrustolita data la sua pelle estremamente chiara, ma avrebbe volentieri sfidato i raggi U.V.A e pure quelli U.V.B pur di non far nulla per una mattinata intera.

    Quell’irritazione le diede una piccola carica extra che le permise addirittura di spremere il tubetto di dentifricio che aveva in mano senza schizzare come al solito quella pasta alla menta e xilitolo per tutto il bagno. Dopo essersi chinata con la testa nel lavandino si fermò un attimo, dopo qualche secondo guardò su e d’impulso prese il dentifricio e fece ciò che andava fatto: ne sparò mezzo tubetto abbondante diritto sullo specchio di fronte a lei in modo da coprire quella faccia spaventosa che aveva davanti.

    Maledizione! pensò mentre si asciugava la faccia. Quello sarebbe stato il suo primo giorno di lavoro e non era per nulla pronta per affrontarlo, né tantomeno poteva iniziare così la sua giornata.

    In attesa di trovare un impiego confacente ai suoi studi e più remunerativo, Alex aveva avuto il battesimo nel mondo del lavoro nella cucina di un fast-food. In quel periodo, fortunatamente, lei e sua sorella Charlie avevano a disposizione il fondo che i loro genitori avevano depositato in banca pensando al futuro delle loro due figlie. Lo stipendio (chiamiamolo così) che percepiva non era sufficiente e per di più era costretta a spenderne una buona parte per acquistare tonnellate di shampoo, detersivi e sapone profumato per togliersi la puzza di fritto e di unto che le si incollava addosso alla fine di ogni turno di lavoro. Sentì montare ancora di più la carogna sulle sue spalle, già pesante come un gargoyle di pietra.

    Poi era arrivata sua zia, con quelle guance grassocce e arrossate dal fard che si ostinava a spiattellarsi in faccia, ed era riuscita a distruggere il suo desiderio di libertà estiva. Aveva rintracciato un vecchio amico di suo padre, lo stimato Dottor Peter Fullen il quale, senza troppi sforzi, aveva acconsentito a prenderla a lavorare nel suo organico, accettando al volo la proposta della zia di farla lavorare per tutta l’estate.

    «Vedrai, Alexandra, sono sicura che imparerai tantissimo in questi mesi estivi! E poi hai notato che uomo delizioso è il Dottor Fullen? Un vero gentiluomo, ha accettato subito di assumerti. Deve aver riconosciuto a occhio nudo le tue doti. Su, cerca di sorridere, tesoro: la gavetta la fanno tutti, prima o poi», la incitò la zia appena fuori dalla banca.

    Dovette fare uno sforzo disumano per non accopparla a mani nude. Riguardo alla tanto decantata signorilità di cui parlava sua zia riguardo a Peter Fullen, direttore generale della Greendawn Bank nonché padre di due ragazze più o meno dell’età di Alex, bisogna dire che durante il colloquio non aveva fatto altro che far rimbalzare lo sguardo tra il volto della zia e le curve di Alex, lasciando spesso rotolare l’occhio dentro la sua scollatura. Fortunatamente la zia era orba come una talpa e non si era accorta della bramosia con cui scrutava la nipote. Lei l’aveva scambiata per cordialità, Alex invece sulla fronte in piazza del direttore leggeva stampata a caratteri cubitali la parola DEPRAVATO.

    «Purtroppo al giorno d’oggi non ce ne sono più di persone gentili come lui! Si è anche offerto di istruirti personalmente… Pensa a quale onore!».

    Che Dio ci aiuti!

    «Vedrai, qui da noi sarai iniziata al mondo del lavoro!», furono le precise parole del direttore, fin troppo cariche di una certa eccitazione, e la cosa non le piacque affatto.

    Alex era comunque grata alla zia per aver abilmente convinto il direttore a prenderla nella sua azienda nonostante fosse senza esperienza. D’altro canto aveva studiato proprio per poter ottenere un lavoro in quel settore e tutto questo sarebbe dovuto essere meraviglioso per lei, ma in quel momento proprio non riusciva a fare i salti di gioia.

    Il secondo miao-miao dell’orologio-gatto le comunicò simpaticamente che stava perdendo troppo tempo, doveva ingranare la quarta e passare alla fase della vestizione. Dovette lottare contro se stessa per mantenere la pace zen, altrimenti la guerra con la lampo della gonna a vita alta che proprio non ne voleva sapere di allacciarsi sarebbe durata in eterno e lei non aveva più tempo a disposizione: rischiava di romperla se avesse continuato a strattonarla con violenza.

    Sarò mica ingrassata?!, pensò.

    Non c’è nulla da fare: quando una giornata iniziava nel verso storto, non poteva che peggiorare! legge di Murphy. Il caro buon vecchio Murphy. Sarebbe dovuta tornare a letto immediatamente. Purtroppo però nell’altra stanza l’elemento di disturbo per eccellenza, Charlie, era già alla massima carica. Di solito non si alzava prima di mezzogiorno, ma chissà perché quella mattina era sveglia e arzilla già alle sette. Si era messa in testa di farle un restyling completo, trasformarla da ragazza spensierata, illusa vacanziera in shorts e canottiera, a donna in carriera con tanto di tailleur e collant di seta! Nonostante le repentine lamentele della sorella nel sostenere che in pieno luglio non occorreva coprirsi tanto, Charlie era stata irremovibile rispondendole che i colletti bianchi non conoscevano stagioni e che si mettevano in completo e cravatta anche in estate, sollecitandola ad adeguarsi in quanto presto sarebbe diventata una di loro.

    «Alex, sbrigati: vieni fuori di lì e fammi vedere come stai! Sto diventando vecchia! Sai quanto ci ho messo per sceglierti quel vestito? Tu non ne hai proprio idea… E poi diciamola tutta: con le tette e il culo che ti ritrovi non è facile trovare la taglia giusta che riesca a contenere tutto».

    Il blaterare di Charlie proveniva dalla cucina al piano di sotto, la voce talmente squillante che la si poteva udire senza fatica fino in camera.

    «Sì, ecco! Grazie, Charlie, sei sempre simpatica!», le urlò di rimando con un certo cipiglio. Adesso anche tutto il vicinato sa che hai una sorella con un gran davanzale e un grosso culo a canotto che si sta agghindando per carnevale!.

    Alex sapeva benissimo che in quel caso le sue chiacchiere valevano zero, inutile continuare a discutere. Ritrovò il coraggio e per la seconda volta quella mattina si guardò allo specchio, sperando solo di non essere tanto ridicola da far scoppiare a ridere il primo che l’avesse incontrata per strada. Si aspettava che lo specchio si incrinasse ma con sorpresa, e una certa soddisfazione, quello che vide fu il corpo di una ragazza formosa e attraente, di media statura, con lunghi capelli castani ricci che le cingevano il viso ovale e sul quale spiccavano grandi occhi di colore verde ben definito, un nasino dritto puntellato da qualche lentiggine e delle labbra piene un po’ imbronciate che le conferivano un’innocente sensualità…

    E un tailleur! Per Alex il massimo dell’eleganza era indossare la camicia sopra i jeans, figuriamoci mettersi una gonna! Si sentiva come una trota nel guadino.

    Troppo aderente questo vestito?!

    E cosa sarebbe accaduto se le fosse scappato uno starnuto? L’idea era esclusa… Un brivido le scosse la spina dorsale immaginandosi addosso lo sguardo bavoso di Fullen, il suo futuro capo. A completare il quadretto, o meglio la ciliegina sulla torta, era il profumo: La vie en rose, confezione ovviamente francese che l’attendeva minacciosa sul comò accanto allo specchio.

    «Dai, usami… Spruzzami, se hai il coraggio…», sembrava dirle.

    Sua sorella si era raccomandata, anzi l’aveva praticamente obbligata a mettersene piccole quantità nei punti strategici, facendole uno schema preciso: dietro le orecchie, sul collo e sui polsi. Asseriva che ogni occasione aveva il profumo più adatto che fosse in grado di convincere le persone giuste. Ma Alex non ne era del tutto sicura: nel posto in cui stava andando non voleva proprio conquistare nessuno, almeno per ora, e in ogni caso sarebbe stata sufficiente una camicetta per ritrovarsi Fullen attaccato alle caviglie.

    Si sforzò di seguire quelle istruzioni così pignole, visto che era abbastanza soddisfatta del risultato finora ottenuto, ma appena la fragranza impestò l’aria andandosi ad aggiungere all’odore dolciastro che già permeava, le venne all’istante un discreto scombussolamento di stomaco.

    «Charlie, ma chi diavolo te l’ha venduta questa roba? Cos’è? Hai sbagliato reparto e sei finita in quello delle puzze di Carnevale? Mi dispiace dovertelo dire ma questa volta ti hanno fregato!».

    «Ma smettila di lamentarti sempre, quello che tu chiami puzza in realtà è la novità assoluta dell’estate, che richiede profumi floreali e morbidi. Quando l’ho sentito mi sei subito venuta in mente tu. Che Dior ci aiuti!, sei un caso senza speranza!».

    «Prima o poi me la pagherai, tu aspetta e vedrai! Mi sento soffocare! Ho paura persino a camminare, maledette autoreggenti! Le odio!», urlò esasperata tentando di allentare quella morsa di nylon e seta.

    «Alex, posso solo immaginare come tu stia tirando quelle povere calze, non ti hanno fatto nulla di male! Ormai sei una rampante venticinquenne in carriera e dovrai abituarti a queste finezze, cara mia!».

    «Non contarci proprio! Piuttosto esco senza calze...».

    «Non pensarci nemmeno! Non conosco lo stato della tua ceretta, quindi per non rischiare è meglio se te le infili. E ora esci, per favore: sono sicura di aver scelto l’abito perfetto, sarai splendida! Dobbiamo ancora controllare come ti sei truccata!». Il tono di Charlie era un misto tra vieni fuori così vedo come ti sei conciata e speriamo che il colore non la faccia sembrare troppo grassa.

    Trattenne il respiro tirando un po’ in dentro la pancia per ammirare meglio la silhouette ed ebbe la conferma che tutto sommato non era poi così male, era decisamente interessante. Charlie aveva davvero scelto bene, il seno era coperto e le mutandine stavano ben al di sopra del livello della gonna.

    Un po’ si divertiva a stuzzicare Charlie: sapeva quanto ci aveva messo per scegliere gli abiti e tutti gli accessori coordinati, solo che essendo un po’ stronza inside non le avrebbe mai dato la soddisfazione di ammettere che si trovava attraente.

    «Uno sguardo provocante allo specchio, un sorriso appena accennato, la coscia che si intravede e un dito delicato che sfiora il profilo della gamba… Lui che le solleva un po’ la gonna e poi…». Automaticamente il suo sguardo ricadde sul letto ancora disfatto, l’immagine di un uomo disteso tra le lenzuola bianche che scrutava la sua femminilità con sguardo chiaramente affamato di lei. Le venne un sussulto, avvampò e arrossì di vergogna. Alex si rese conto con sconcerto che non aveva un uomo da troppo tempo. Non ricordava nemmeno l’ultima volta, ma se le venivano questi pensieri a quest’ora del mattino era sicuramente troppo.

    «Alex! Sto per buttare giù la porta!». Una voce troppo squillante si aggiunse a quella già poco sopportabile di Charlie, seguita da un rumore di passi veloci che salivano le scale.

    Oh no, ha chiamato i rinforzi!, pensò allarmata Alex, lanciò un’occhiata all’orologio-gatto e sobbalzò, sia perché lo vide muovere la testa come quelle tartarughe con il bilancino che fanno no-no come per farle capire che così non andava, sia perché erano già le 7.30 e sulla sua lista c’erano ancora due voci da spuntare: una bella tazza carica di caffè nero e l’esame approfondito di Mark da superare.

    «Mark, finalmente sei arrivato! Grazie a Dio, giusto in tempo!».

    «Calmati, tesoro, se ti agiti così ti verranno le rughe! Ci penso io».

    Basta esitare, Alex sapeva che era pericoloso sfidare quei due insieme, ché pur di tirarla fuori dalla stanza sarebbero stati capaci di usare un ariete per abbattere la porta. Con un sospiro di rassegnazione aprì la porta appoggiandosi allo stipite e incrociando le braccia al petto. Li sfidò con una chiara minaccia negli occhi: voleva vedere chi dei due avesse osato dire qualcosa.

    «Alexandra, sei assolutamente…».

    Assurda?

    Inguardabile?

    L’espressione sul viso di Mark era per lei al momento indecifrabile. «Credimi, non trovo le parole, sei davvero…davvero….», e non completava la frase. Ridicola? Vergognosa? Di lì a poco si sarebbe messa a urlare.

    Mark non le stava dando soddisfazione, aveva la bocca socchiusa e con lo sguardo scrutatore storceva un po’ il naso; accanto a lui c’era la sorella che si copriva le labbra con un dito, sorreggendosi il gomito con l’altro braccio; lei, che non sarebbe stata in grado di sopportare altro, sentiva che la temperatura stava salendo e non solo per la calura estiva: l’incazzatura le ribolliva nelle vene.

    Meglio tagliar corto, pensò. «Grazie a tutti e due per il vostro aiuto ma, credetemi..», disse senza emozione girando loro attorno per scendere le scale, adesso aveva solo necessità di bere quel dannato caffè prima di uscire.

    «No, seriamente Alex», la interruppe Mark prendendola per un braccio senza sapere che la ragazza era sul punto di esplodere, «credo che il vestito ti stia alla grande! Certamente il fisico è quello che è, non si può fare nulla per nascondere la tua abbondanza, ma questo fa del suo meglio: per me sei quasi una taglia 40!».

    «Sì, lo penso anch’io. Una 42, forse… sì!», confermò Charlie ancora con quell’espressione poco convinta di chi scruta un quadro di arte astratta e ne cerca il senso, senza trovarlo.

    «Grazie, Mark, è il complimento più delicato che tu mi abbia mai fatto!».

    «Però posso sapere perché avete scelto questo colore pesca-salmone? Non era meglio stare su un classico ma più elegante nero o grigio?».

    «Ma, cara mia, dove hai vissuto fino adesso? Il nero? Troppo novembrino… Meglio i colori pastello per la bella stagione!».

    «Anche se il nero si sarebbe effettivamente intonato meglio alle tue occhiaie! Ah!». Mark non perdeva mai occasione per sparare questo tipo di frecciate, soprattutto se si parlava di abbigliamento, ma fortunatamente quella mattina non si era intromesso durante la preparazione perché, fosse stato per lui, l’avrebbe tirata giù dal letto all’alba. Anche se alla fine non aveva comunque dormito un granché.

    «Mi sento… Ehm… Scusate, ma mi sento esagerata!  Questa gonna è talmente attillata che temo al solo pensiero di piegarmi per raccogliere qualcosa da terra!», sbottò alla fine Alex mostrando loro il sedere praticamente sottovuoto nella gonna stretta e lunga fino al ginocchio.

    «Ma dai ragiona, Alex: se ti cade qualcosa puoi approfittare di qualche aitante collega per aiutarti a raccoglierla! E poi sai, da cosa nasce cosa… Tra un archivio e l’altro chissà dove si va!».

    «Certo! Infatti quello nemmeno mi starà a sentire, troppo impegnato a decidere se è meglio affogare lo sguardo nelle mie tette», le strizzò all’insù per accentuarne il volume, «o cercare di leggere la marca delle mie mutandine attraverso questo squarcio!». Sottolineò l’ultima parola voltandosi di spalle sollevando un po’ la gonna per esasperarne lo spacco.

    Notò con soddisfazione che i suoi due interlocutori si stavano leggermente alterando. «Vedrai, con un pizzico di sensualità, il tuo letto presto si riempirà!». Quando Mark replicò, il suo tono di voce era salito di un’ottava, risultando quasi stridulo, rendendo impossibile non lasciarsi scappare una sonora risata; solo a quel punto Alex si ritenne soddisfatta e si diresse finalmente in cucina per il tanto agognato quanto ormai indispensabile caffè. Alle sue spalle Mark sbraitava nervoso scendendo le scale con sua sorella che lo sorreggeva moralmente.

    «Primo: lo "squarcio", come lo chiami tu, in realtà è un seducente spacco che lascia intravedere le tue affascinanti gambe avvolte in quelle meravigliose autoreggenti vedo-non vedo. Secondo: dato che tu non sai apprezzare la classe, forse sarebbe meglio che tornassi in camera e indossassi quella roba che assomiglia tanto alla moquette della tua camera da letto!», disse sempre più isterico facendo la sua entrata in cucina agitando la mano e facendosi aria con un fazzoletto. «Vedrai quanta strada farai! Nemmeno lo sgabuzzino per le scope ti daranno come ufficio!».

    Intanto Charlie gli massaggiava le spalle nel tentativo di farlo rilassare. E di fronte a quella scena madre, Alex non poté fare a meno di ridere soddisfatta mentre si faceva cullare dall’aroma estatico proveniente dalla tazza che teneva in mano.

    «Mark, tesoro mio, non arrabbiarti: non è colpa sua, lo sai che non capisce, lei non è come noi due… Non ha il senso dell’estetica, del bello. Pensa a lei come se fosse un vestito, non ce lo cambierebbero nemmeno mostrando lo scontrino; lei è come uno di quei capi in saldo che non si possono sostituire: una volta comprato te lo tieni!».

    Mark annuì comprensivo abbracciando Charlie: «Quanto hai ragione cara, e permettimi di aggiungere che se il vestito fosse tua sorella la terrei ben nascosta in fondo all’armadio!».

    In quel momento di pura bastardaggine, il cellulare di Alex prese vita annunciandole che la sua migliore amica Lucy la stava cercando. Con un gesto istintivo premette il tasto rosso per respingere la chiamata, poi il pop-up degli sms di risposta automatica le si aprì davanti. Velocemente scrisse su telefono: Scusa, qui mimì e cocò all’attacco! Mark continuava a blaterare qualcosa sulla moda e sul rispetto, Charlie gli dava ragione, lei rimaneva appoggiata allo stipite della porta ormai con la mente estraniata da quei due.

    La sua amica avrebbe capito, ogni volta che sua sorella e il suo fido compagno la nominavano vittima sacrificale, Lucy le veniva in soccorso. Ma quella mattina, causa cronica mancanza di tempo, avrebbe dovuto cavarsela da sola. Il tempo infatti passava inesorabile e quella stupida sfilata di moda casalinga doveva finire immediatamente. Trangugiò l’ultimo sorso di caffè per ottenere il massimo dell’energia disponibile e scambiò un ultimo sms di buon auspicio con la sua amica per l’importante giornata che stava per iniziare, senza degnare più d’attenzione i due seguaci di Gucci: in sottofondo ormai udiva solo un brusio fastidioso.

    Quando Mark si rese conto che la sua preda non gli dava più retta, s’infuriò ancora di più: «Non ci posso credere… Nemmeno ci ascolti più! Ingrata!».

    «Andiamo, dai…», interruppe Charlie che, fedelissima al suo credo, lo trascinò fuori di casa in direzione dell’auto che li attendeva sul vialetto di fronte.

    Alex scrollò vigorosamente la folta chioma riccioluta e diede un’occhiata all’orologio: ancora pochi minuti e sarebbe arrivata in ritardo. Il primo giorno di lavoro era essenziale fare una buona impressione, sia come mise che come comportamento, puntualità, eccetera… se non voleva battere il Guinness dei primati e diventare lo zimbello di qualche collega in meno di una giornata.

    Cacciò a forza il cellulare nella piccola borsa che sua sorella le aveva scelto appositamente per l’ufficio e afferrò le chiavi lanciandosi fuori nel sole caldo di Luglio. Osservandoli pensò a come facesse sua sorella ad ammaliare tanti ragazzi e a far loro fare ciò che voleva. Sicuramente grazie al dono di saper sorridere sempre e prendere la vita alla leggera, ma anche alla sua capacità di vestirsi provocante, con quelle gonne cortissime e aggiungendo poi lo schifoso lusso delle auto con cui Mark spesso la scarrozzava in giro, nemmeno fosse la regina d’Inghilterra. Persino lui, che si comportava come una prima donna, scattava sull’attenti a un solo cenno di sua sorella.

    Sebbene non avesse ancora compiuto 20 anni, Mark si agghindava come un uomo maturo e si vantava spesso delle sue conquiste tra i ragazzi di Greendawn. Longilineo, con i capelli scuri sempre perfettamente scolpiti dal gel, era un ricco figlio snob dell’artista Nathan Whitefeld, pittore di fama mondiale, che spesso si perdeva in qualche viaggio dall’altra parte del mondo in cerca di ispirazione lasciandolo a casa con la madre Arline, signora distinta e sempre molto elegante, impegnatissima nel sociale. Mark era ossessionato dall’estetica e l’abbigliamento. Era riuscito senza troppa fatica a tirare dalla sua parte Charlie, trascinandola nel suo mondo fashion condividendo gli stessi gusti in fatto di moda, musica e ragazzi. Viveva in una villa coi fiocchi e la sua stanza non aveva nulla da invidiare alle suites di lusso degli hotel a cinque stelle: il suo armadio aveva le stesse dimensioni del soggiorno di Alex e Charlie. File di abiti griffati, di scarpe perfettamente lucide e appaiate. Cofanetti contenenti ogni sorta di bracciale, collana e orologio che andassero di moda in quel momento. E poi c’era Jean Paul, il suo fastidiosissimo volpino color tortora, che una volta si perse in casa e fu ritrovato sotto una pila di vestiti e asciugamani nel locale lavanderia, dopo ben venti ore di ricerche affannose da parte di tutto il personale di servizio, mentre il povero Mark se ne stava rintanato in camera sua a piangere disperatamente. Un tipo senza dubbio bizzarro, quindi, ma con un cuore di inestimabile valore.

    Alex invece era meno incline alle sciocchezze civettuole che piacevano tanto a sua sorella. Se per Charlie un numero di Vanity Fair aveva lo stesso valore di un antico manoscritto egizio, lei pensava all’utilità di quelle riviste come possibili rialzi da piazzare sotto le gambe di un tavolo malandato.

    «Bene ragazzi…sentiamo…mentre io farò il mio dovere nei confronti della società, voi dove andrete a fare danni?», domandò provocatoriamente Alex mentre apriva la portiera di quel potente bolide che era la sua vecchia Ford: era sicura che quei due se la sarebbero spassata con le

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