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Il verbo di A'Alwe - Seconda Parte
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Il verbo di A'Alwe - Seconda Parte
E-book975 pagine15 ore

Il verbo di A'Alwe - Seconda Parte

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Info su questo ebook

Quando il bosco di Lorgul inizia a sussurrare presagi di morte, per Andrel non rimane altro che aggrapparsi all’istinto di sopravvivenza. Ma dal momento in cui l’oscura selva decide di mostrare il suo vero volto, nulla potrà più trascendere l’immaginazione, se non il nulla stesso. Inizia così un’odissea per terra e per mari, tra battaglie ed epici duelli, alla ricerca di una bambina, fonte di salvezza contro l’orda del Male che avanza. Un invisibile nemico li attenderà, un’indecifrabile realtà li accompagnerà, una segreta alleanza li sosterrà. Dalla drammaticità degli eventi, eroici cavalieri all’ombra delle Tenebre vedranno emergere dai propri conflitti interiori quei valori persi nel profondo del cuore umano. È infatti in un viaggio spirituale che i protagonisti dovranno affrontare la loro prova più dura ed è nel verbo di Lei, di A’alwe, che dovranno trovare quella fede che li renderà invulnerabili. Un cammino fatto di illusioni e verità, di macabre conoscenze e profetici disegni. Un cammino che porterà alla rivelazione e alla redenzione. Sarà pianto delle Tenebre, grido degli abissi o un’alba morente incatenata da un imperituro tramonto?
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2019
ISBN9788834196007
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    Anteprima del libro

    Il verbo di A'Alwe - Seconda Parte - Andrea Agomeri

    il verbo

    di a’alwe

    Seconda Parte

    Andrea Agomeri

    Il Verbo di A’alwe - Seconda Parte

    Andrea Agomeri

    © Editrice GDS

    Via per Pozzo, 34

    20069 Vaprio D’Adda (MI)

    www.gdsedizioni.it

    Ogni riferimento dell’opera a cose, luoghi, persone

    e altro è da ritenersi del tutto casuale.

    Tutti i diritti sono riservati.

    Capitolo XXVIII

    Nero e silenzio. Null’altro.

    Poi un alito bollente gli investì la faccia e lo destò dall’indesiderato sonno. Un rauco rantolo dileguò il silenzio e il viscidume di qualcosa di morbido e caldo gli solleticò la guancia.

    Andrel lentamente sollevò le palpebre e le oscurità vennero trafitte da barlumi di luce. Un’ombra lo avvolgeva, ma non più una macchia nera e fredda bensì uno scuro manto protettivo.

    La vista era sfocata e impiegò diversi minuti per metterla a fuoco. Quando vi riuscì, due enormi sferule gialle lo fissavano a pochi centimetri dai suoi occhi. Un abnorme lupo dal pelo blu gli stava slinguazzando il volto, lasciandogli una patina di bava calda che gli colava fin giù al mento.

    La reazione non fu immediata, ancora prigioniero di uno stato d’incoscienza che lo rendeva succube di una realtà sfocata che andava lentamente sfumando verso qualcosa d’incomprensibile.

    I secondi tamburellarono sulla morbida pelle della quiete, dando al Ricercatore una lenta, seppur imperfetta, visione di un presente volto all’irragionevole percezione di una creatura materializzatasi da un sogno. S’abbandonò per qualche momento alla sua arrendevole posizione, ferito nel corpo e ancora legato ad un lieve stato d’incoscienza. Combatté per vincere questo stato di debolezza, si difese strenuamente, reagì, lo incalzò fino a spazzarlo via. La sua mente s’aprì e sprazzi di ragione incominciarono a prevalere. Fu allora che in lui avrebbe dovuto prendere il sopravvento l’apprensione verso quell’estranea creatura dal ferale aspetto. Invece non fu così. Sebbene avesse vagato per diversi minuti in uno stato di frastornamento, la sua letargica coscienza lo aveva preavvertito dell’apparente minaccia che gli si aggirava intorno, ma fu il tempo stesso ad indicargli la fallacia di quella sensazione. Da che lui s’era destato, quella strana creatura infatti non s’era atteggiata in minatorie gesta. Uno stato di disorientamento lo aveva accolto al suo risveglio, aiutandolo ad accettare una realtà che, in situazioni normali, lo avrebbe gettato nel panico. Solo dopo che l’ultimo segno di smarrimento svanì si rese conto di quanto realmente stava succedendo. Un lupo. Un gigantesco lupo dalle enormi zanne e dalle insaziabili fauci lo sovrastava in tutta la sua mole. L’uomo s’agitò, si divincolò, cercando frettolosamente di mettere a posto i pezzi della sua scombinata mente. Non additò ai suoi sensi nessun inganno. Si convinse che la sua ragione era abbastanza lucida, seppur avesse la sensazione che un nugolo di insetti gli vorticassero tutt’attorno. Tentò di muoversi ma la dura pietra su cui era appoggiato gli aveva anchilosato tutte le ossa; cercò allora di scrollarsi la testa, ma gli doleva troppo. Il lupo era lì, apparentemente innocuo, ma con un aspetto terribilmente minaccioso. Si muoveva lentamente davanti a lui, con gli artigli che stridevano sulla gelida pietra. Sembrava come in attesa di una sua reazione, fremente per un movimento che tardava ancora ad arrivare.

    Il viso di Andrel non ardeva più; probabilmente l’ambiente freddo e umido gli aveva fatto scendere la febbre. Anche la ferita alla gamba sembrava avergli dato qualche attimo di tregua. Riprovò a muoversi; le ossa gli scrocchiarono, ma riuscì a cambiare posizione. Nonostante il cuore gli battesse all’impazzata, cercò di convincersi che quella bestia non era lì per saziarsi delle sue membra. Poi uno spicchio di luce gli aprì la teca dei ricordi e rivide nel racconto di Pciko un lupo, apparso per sventare l’ignobile attacco di loschi uomini, durante il sopralluogo che fece due giorni fa. Si sforzò ad accettare che quella mostruosa belva dovesse trattarsi della stessa che aveva salvato il compagno. Eppure non dava adito ad un essere dall’amichevole apparenza. Tali dubbi tornarono prepotentemente a galla quando gli si accostò nuovamente per aprire davanti ai suoi occhi le enormi fauci; da queste ne vide uscire non solo due file di denti lunghi e aguzzi ma anche il nero e profondo obito, da cui fiottavano rauchi e tenebrosi gorgoglii. Per un attimo si paralizzò. Sembrava quasi che gli volesse sferzare un morso, ma poi lo addentò sulla divisa. Lo strattonò, lo spronò. Fu allora che Andrel vinse ogni titubanza e debolezza e, a denti serrati, si destò dalla sua posizione rannicchiata. Un singulto di dolore gli esplose in gola, ma desistette. Improvvisamente sentì l’impellente bisogno di uscire dalla casupola e prendere una boccata d’aria. Mosse qualche passo a fatica, con il grosso animale che lo scortava. L’uomo si sentì soccombere al suo fianco. Non aveva mai visto nulla del genere, nemmeno lontanamente. Aveva delle masse muscolari che incutevano paura, ma niente in confronto a quel muso perennemente tremolante, con ogni lineamento che sembrava essere stato tracciato per ricreare la perfetta immagine della ferocia. Il corpo sembrava un gigantesco mantice che si gonfiava e sgonfiava continuamente, con volute di aria bollente che fuoriuscivano da quell’orbita vuota rappresentata dalle fauci. Gli occhi poi sprizzavano un’indole selvaggia che trascendeva ogni altra forma di ferale istinto. Andrel fece per sfiorare il suo pelo, forse per percepirne la vera entità, per confutare quei pregiudizi che l’analisi visiva dava di quel anormale bestia, o forse semplicemente spinto da un’incauta azione. Ritirò la mano; quel lupo era come un mistero che non andava violato. Come se gli avesse letto nel pensiero, l’animale roteò il grosso capo e per qualche secondo lo fissò. Andrel cercò di tracciarne una proiezione da un’angolazione diversa, non più frutto di un giudizio materiale ma qualcosa che andava oltre l’immaginazione. Allungò il braccio e pose una mano sul suo dorso. La saliva sembrò friggere tra le cavernose fauci del lupo. Un brivido attraversò l’arto dell’uomo. Temeva di aver risvegliato il mostro che doveva per forza dimorare nel corpo di una creatura così spaventosa a qualsiasi occhi, ma non fu così. La più violenta forma d’inganno l’aveva spogliato del suo naturale aspetto, dandogli l’ingiusta effigie di qualcosa che non apparteneva alla sua natura. Andrel sentì quel brivido formicolarci ovunque fino a mutare in un senso di appagamento.

    Quando attraversò la soglia, un velo dorato lo colpì in pieno volto e dovette ripararsi gli occhi con il braccio. L’aria era piacevolmente calda ed un leggera brezza gli sfiorava il collo; le pupille gli si dilatarono a tal punto che dovette schermarsi con un braccio. Vide solo ruderi e vegetazione; non c’erano corpi a terra, sebbene fossero rimasti gli evidenti segni di devastazione del demone. Ricordò di aver visto i suoi uomini allontanarsi, chi verso il Grande Bosco e chi ad occidente verso il villaggio di Moharia. Si guardò attorno, in cerca del suo bastone, ma non lo trovò. Inalò altra aria nei polmoni. I suoi occhi scivolarono lentamente verso il lontano orizzonte, a nord. Tutta la sua attenzione giacette lì, in quel lontano miraggio chiamato Kir-sandia. Il suo senno s’era affilato e ora la sua cuspide puntava verso quelle terre imbevute del potere occulto del Male. Solo il rumore dei pesanti passi del lupo sull’erba lo distolse dai suoi cupi pensieri. Non dovette riflettere sul da farsi; già sapeva come agire, come se il più nobile degli istinti lo avesse forgiato di quella consapevolezza. Mosse qualche passo in quella direzione ma dovette subito soffocare un lamento di dolore. Strizzò gli occhi. In quelle condizioni sarebbe stato difficile raggiungere Kir-sandia e le terre del nord, dove era nascosto il covo dei Ribelli, ma soprattutto dove era lei, la donna che guidava la resistenza al Male, colei che era stata definita guardiano della luce dal vecchio druido. Aveva bisogno di un mezzo, di un cavallo, pensò. Proprio in quel momento un’ombra lo ammantò e fiochi ruggiti soffocati e gorgoglianti echeggiarono. Andrel si scontrò con i suoi occhi fiammeggianti. No, non un cavallo, si ripeté, un lupo.

    Dopo essersi separato, assieme al suo drappello, dal resto del gruppo, Pciko Stull non si era mai voltato indietro. Non lo aveva fatto non per paura, né tantomeno per non dover infangare una decisione presa con sofferenza. Andrel era ancora lì, solo tra le rovine del defunto villaggio di Borhmada. Era rimasto perché sofferente, perché non poteva evadere da quello scenario, ma soprattutto, e questo glielo aveva letto negli occhi, perché quello era il suo fermo volere. No, non si era voltato perché doveva credere in ciò che faceva, così come quella luce riverberante dagli occhi di Andrel gli avevano trasmesso. Un tremendo crocevia aveva separato le loro strade, perché così aveva voluto l’infido destino. Si tuffò senza rimpianto in quell’azione che lo vedeva proiettato verso il lontano Sud. Ma sarebbe tornato, in cuor suo sapeva che sarebbe tornato ed assieme al suo compagno avrebbe affrontato il padrone di ogni male.

    Ricordò di aver serpeggiato di corsa tra le macerie, lasciandosi alle spalle le fragorose grida della aberrante creatura, per poi attraversare una distesa piatta e infoltita dall’alta erba e da qualche sporadico alberello. Non ricordava per quanto tempo avevano corso; forse un ora o solamente dieci minuti, fatto stava che erano giunti ai margini del Grande Bosco.

    Già da lontano si poteva rimanere esterrefatti dall’imponenza di quei mastodontici alberi che svettavano imperiosi, ma era nel lambirne le fredde ombre che si veniva invasi da una sensazione così cupa da essere proiettati al di là di quell’immaginaria linea che separa la realtà da un mondo del tutto sconosciuto. Le ombre di quelle secolari querce s’aprivano fino a catturare ogni cosa osasse avvicinarvi. Quel netto contrasto tra il tappeto di luce che rifletteva sugli steli d’erba e quel nero sudario che gravava con le sue algide volute sembrava spaccare il mondo il due. Il presagio dell’ignoto e del mistero s’affacciò con tutte le sue infide trame. Il Grande Bosco incuteva soggezione e valicarne i confini era come sfidare uno spirito dormiente e quel silenzio che ne derivava sembrava gettare un tetro monito per coloro che avessero osato disturbarlo.

    Le ombre tracciate sul terreno erano di un nero così intenso che quando Pciko vi passeggiò sopra fu subito assalito dalla sensazione di vagare nel vuoto. Man mano che si avvicinavano, sembrava che le chiome degli alberi si allungassero in alto, trafiggendo l’immenso velo azzurro che copriva il cielo. I tronchi erano così massicci e alti che ricordavano gli obelischi delle antiche città.

    I pensieri del Ricercatore vennero interrotti dai passi leggeri di Drumundon. Lo accolse con un saluto e si fece ragguagliare sull’attuale situazione. Nella lotta contro il Koulg la Settima Divisione si era spezzata in due drappelli. La fuga era avvenuta a ventaglio per disorientare il più possibile il demone che non aveva mai smesso di inseguirli. Inevitabilmente il mostro si ritrovò ad inseguire solo una ristretta falange di uomini. Tra loro c’era Bluketil, Jeddring, Denius, Vigera e Dugger. A causa del trambusto che si era venuto a creare, la concitata fuga e la fitta ed ingannevole vegetazione, avevano perso le loro tracce. Successivamente si erano separati anche Volutin con una mezza dozzina di uomini per procedere verso Moharia. Pciko si guardò intorno, rannuvolato in volto. Erano rimasti in pochi. Quando chiese a Drumundon se ci fossero notizie di Bluketil e gli altri il ragazzo scosse il capo sconsolato.

    Pciko trasse un lungo respiro e rigettò l’aria in una frustrata esalazione.

    Rifletté per qualche secondo, si voltò attorno e roteò più volte gli occhi. La separazione con il resto del gruppo era avvenuta così frettolosamente da non permettergli di circoscrivere una precisa realtà dei fatti. Alcuni suoi compagni erano dispersi chissà in quale sconosciuto anfratto delle Sacre Terre, altri vagavano verso il confine che separa la terraferma dall’oceano, uno, solitario, lottava per sopravvivere.

    Era giunto il momento di prendere una decisione. Drex, Itargo, Carcassa, Drumundon, Lapalaeae formarono una cerchia attorno a lui. I loro volti erano ancora segnati dalla estenuante corsa e dal combattimento nelle rovine di Borhmada. Avevano passato gli ultimi minuti a scandagliare il terreno battuto per cercare tracce dei loro compagni. Nulla. Perlustrare l’intera piana che separava Borhmada dal Grande Bosco era improponibile. Troppo vasta e il tempo ticchettava inesorabilmente. Gli sguardi s’incrociarono e, seppur visibilmente angustiati dal dolore di ciò che stavano per abbandonare, nessuno obiettò alla decisione che Pciko decretò. Una ferrea amicizia, fantastici ricordi passati insieme, e ora separati da un triste destino. Avrebbero percorso la loro strada, nella speranza di riunirsi tutti insieme per elevare in cielo il vessillo della giustizia.

    Sei uomini si stagliarono allineati ai piedi delle imperiose querce del Grande Bosco.

    Era come trovarsi sul ciglio di un precipizio, con la sola differenza che qui non occorreva guardare in basso per accusare le vertigini. Quando vi entrarono l’atmosfera cambiò repentinamente. L’aria, particolarmente densa, ristagnava in un folto sottobosco, con alte felci che ne ammantavano la superficie. Solo sporadici fili di luce penetravano nello schermo protettivo delle fronde, lasciando lunghi solchi giallastri sul terreno sottostante. Le pupille si dilatarono e presto la vista si abituò alla scarsa illuminazione. Anche i rumori erano cambiati drasticamente; lo scricchiolio dei fruscoli secchi sotto i loro stivali e il frusciare dell’erba e delle felci era accompagnato sovente dal crepitio delle cortecce e dal ritmico verso di diversi strani animali; erano ovunque, nascosti sui rami più alti, dietro i cespugli o mimetizzati con la vegetazione. Ovunque. Dopo una manciata di minuti un risucchio gutturale giunse da sinistra; Pciko si voltò in quella direzione ed il rumore cessò, mentre alcune fratte venivano scosse in lontananza; subito dopo un fischio acuto e gracchiante risuonò a destra per poi scemare tra le ombre del sottobosco. Ovunque alberi fitti, scuri e minacciosi, ostacolavano la vista e sembrava che li osservassero e scrutassero dall’alto dei loro fusti. Ce n’erano di tozzi o slanciati, nodosi o lineari, curvi e contorti, con la corteccia liscia o ruvida, lisa o spellata; andavano dal grigio chiaro al marrone scuro e talune volte apparivano verdi, rosei o bianchi per via dei muschi viscidi, dei licheni ispidi e di altre piante parassite. In quelli più vetusti fessure profonde si aprivano come ferite inferte dal tempo e scricchiolavano ogni qual volta i rami si agitavano. Le foglie che sventolavano come tanti stendardi variavano da spesse, coriacee, grandi e scure a piccole, tonde e lungamente picciolate.

    Il tempo divenne un’entità astratta, imperfetta. Raggiunsero un leggero pendio. Vi si inerpicarono senza difficoltà, accompagnati dal pigolio di qualche uccello ramingo. Ovunque si intravedevano i segni degli animali che vivevano nel bosco; una corteccia rosicchiata, dell’erba brucata o mucchietti di terra rovistata. Di tanto in tanto si scorgevano anche serie di orme ancora fresche. Superato il pendio seguì una facile discesa al termine del quale però si interpose un fossato. Furono costretti a deviare per qualche centinaio di metri prima di trovare un agevole punto dove poterlo attraversare; vi si calarono e presto furono investiti da cespugli che crescevano a macchie fitte, alternati a spazi brulli. La risalita fu breve ma faticosa e dovettero arrabattarsi spingendo sulle punta dei piedi, tanto era la pendenza. Non potevano permettersi distrazioni, pensò Pciko, se volevano raggiungere le pendici del Promontorio prima di notte. Ma non sarebbe stato facile nemmeno procedere a passo sostenuto, dal momento che orientarsi in quella gabbia di tronchi e foglie non era assolutamente facile. Dovevano fare molta attenzione a non perdersi e questo forse rappresentava il pericolo maggiore. Il Grande Bosco era infatti un labirinto senza fine e chi ne entrava con incauti propositi rischiava di non uscirne mai più. Si segnarono qualunque tipo di punto di riferimento per l’eventuale ritorno; un albero dalla forma particolare, un canale o ancora una lieve collinetta oppure un affioramento roccioso. Orientarsi con il sole non sarebbe stato facile; raramente si poteva intuire la sua posizione.

    Marciarono piegati dall’opprimente fardello dei continui rumori che giungevano cupi e misteriosi. Era impossibile non voltarsi ogni qualvolta uno strano verso rompeva il silenzio e quando lo sguardo tornava sul sentiero si aveva ogni volta la percezione che qualcosa nella conformazione del terreno fosse cambiata. Ciò era motivo di smarrimento e di vertigine.

    Pciko sospirò. Gli tornarono alla mente gli incubi che di sovente faceva da bambino. Tutto iniziava con quello stato di disorientamento che lo mordeva, profondato senza una ragionevole spiegazione in luoghi sconosciuti e tremebondi e con timidi sprazzi di luce a sostenerlo; ogni punto di riferimento, sia materiale che non, veniva così a sgretolarsi. Quei sogni erano ora terribilmente simili all’attuale realtà. Nei turbolenti sonni del passato era la disperata ricerca di un qualcosa di familiare che lo spingeva a vagare ininterrottamente, senza però mai riuscire a scorgere nulla che potesse alleviare la sua angoscia. Si scopriva da subito impaurito, attorniato da visioni irriconoscibili e in compagnia di creature visibili solo al buio. Giungeva sempre il momento in cui il cuore iniziava a battergli forte e quando quello sbuffo di coraggio sopraggiungeva si voltava e nulla era come prima. Era come se i ricordi di quanto aveva appena visto s’erano accartocciati per formare nuove immagini di posti sconosciuti alla mente. Camminava e non faceva altro, se non tentare invano di sfuggire alle sue crescenti paure. Poi, implacabile, giungeva quell’opprimente senso di soffocamento che gli bloccava la gola. Scosse di brividi iniziavano ad attraversare la sua schiena. Si voltava continuamente in quella che credeva essere la direzione iniziale ma nulla di quello che c’era prima appariva davanti ai suoi occhi. Persino quando batteva le palpebre lo scenario mutava in qualcosa di più grottesco. Con la crescente paura, il passo si faceva sempre più sostenuto, nell’inevitabile ricerca di quel filo di speranza che lo aiutasse a ricondurlo a quel punto di partenza che sembrava perso in un’altra dimensione. Iniziava così ad agitarsi, a divincolarsi con le braccia da qualcosa di invisibile; il suo cuore batteva con fastidiosa irruenza, il fiato si faceva corto. Occhi nascosti lo scrutavano, sguardi minacciosi lo seguivano. Poi le ombre si staccavano e qualcosa di macabro prendeva a muoversi. Era allora che uno strillo spaventoso gli sfuggiva dalle labbra, destandolo dal sonno.

    Quei sogni si stavano materializzando agli occhi di Pciko Stull; ma mentre in questi c’era un continuo cambiamento del mondo esterno, nella realtà che adesso il Ricercatore stava vivendo regnava una piatta uniformità. Ogni cosa appariva amorfo. Immagini sfocate che sembravano ricreare quelle appena immagazzinate nella teca della memoria. Un sottobosco perennemente disegnato da una mano che tracciava sempre le stesse linee, gli stessi colori, gli stessi oggetti, senza quel tocco artistico che faceva di ogni albero, di ogni cespuglio, un quadro a se stante. Una banale ripetizione cadenzava in quel mondo così isolato ed arcano. Sogni e realtà fraternizzavano in quel senso di assoluto smarrimento che infondevano a chi vi ci entrava imprudentemente; un tortuoso dedalo dai mille intrecci.

    L’ennesimo rumore, stavolta un trillo sordo, distolse i pensieri di Pciko. Si girò; un gesto che negli ultimi minuti aveva fatto un’infinità di volte. Nulla, solo alberi e fronde, rami e foglie. La sua memoria fotografò una triade di alberi accostati molto vicini tra loro. Scosse la testa e il suo sguardo tornò a posizionarsi davanti a sé. Lì, nei suoi occhi riflesse la stessa identica immagine dei tre alberi accostati ad un ugual distanza, in un inquietante deja vu. Si rivoltò immediatamente, ma questi non c’erano più. Deglutì e prese a respirare piano, ma con più frequenza. Guardò nuovamente davanti a sé ma dei tre alberi non v’era più alcuna traccia. Cercò di rimanere calmo, ma sentiva che le mani iniziavano a sudargli.

    All’improvviso una pioggia di foglie cadde sulle loro teste, dopo un violenta frustata di fronde. Le dita di Pciko si chiusero istintivamente intorno all’impugnatura della balestra. Sei frecce incoccate puntarono verso l’alto, con minacciose rose di luce che affioravano dalle aguzze lingue metalliche. Scorsero solo un’ombra scivolare rapidamente tra i rami e disperdersi tra le chiome. Fecero la prima sosta, più che altro per distendere una tensione che andava di minuto in minuto salendo. Si rimisero quasi subito in marcia e, dopo una manciata di minuti, uscirono dal muro di alberi e si ritrovarono in una piccola radura, poco più di un fazzoletto di terra. Qui l’erba era molto più alta, ma almeno non c’era quell’uggiosa cupola verdeggiante a sovrastarli, occludendogli l’azzurro cielo. Un senso di appagamento li investì. La volta celeste era tersa ed ammantata da un sottile velo di luce; mai quell’immagine fu così accogliente. Si presero qualche altro minuto di sosta, approfittando di quel ventaglio di luce per rifocillare quegli stati emotivi che lentamente andavano deteriorandosi. Pciko guardò la direzione da cui erano giunti; sbuffò, come a voler scacciare malevoli presagi che ghermivano in tutta la loro ostilità. Si trovò a chiedersi dove fossero Bluketil e gli altri compagni che lo avevano fedelmente seguito e se erano riusciti a scappare dalle infide grinfie del Koulg. Scoprì di essere scosso dalla preoccupazione, come se un presentimento lo avesse informato di qualcosa di gravoso occorso a Bluketil. Non avrebbero potuto fare nulla per aiutare i loro amici. Quel senso d’impotenza lo frustrò. In più di un’occasione era stato morso dalla tentazione di tornare sui suoi passi, ma ogni volta aveva desistito. Era certo che lo stesso Bluketil non avrebbe approvato. Comunque avevano pensato bene di seminare lungo il percorso indizi del loro passaggio che avrebbero permesso, all’occhio di una benevole sorte, a Bluketil di riunirsi a loro.

    Erano in marcia da poco meno di due ore. Avevano ancora due o tre ore di cammino prima di giungere agli acquitrini di Mohl e al reietto villaggio di Arbring. Pciko in cuor suo sperava che le poche informazioni fornitegli da Andrel, avute nel suo incontro con il vecchio saggio, fossero veritiere fino in fondo.

    Si rifocillarono con una sorsata di acqua e si stiracchiarono il collo e le spalle; poi ripresero nuovamente il cammino. Pciko, Drex, Itargo, Carcassa, Drumundon, Lapalaeae vennero nuovamente risucchiati dalle profonde oscurità del Grande Bosco, ignari dei pericoli che stavano per abbattersi su di loro.

    «Correte!» Gridò Bluketil con tutto il fiato che aveva in gola.

    Aveva lasciato il bivacco, tra il pulviscolo che si levava al cielo e le grida dilanianti dell’orribile demone. Si era defilato tra le rovine di Borhmada, gettandosi a perdifiato lungo l’aperta radura che li separava dal margine boschivo. Volutamente Bluketil si era fatto esca dell’infernale creatura, per permettere così a Pciko, Volutin e tutti gli altri di portare a compimento la missione. Nonostante tutto, era riuscito a sottrarsi dalla vista del mostro e a congiungersi successivamente con alcuni componenti della Settima Divisione. Lungo il tragitto, però, un inatteso ristagno d’acqua fangosa li aveva frenati, costringendoli a tornare sui loro passi per aggirarlo. Quell’imprevisto costò loro molto caro. Il gigantesco demone si rifece sotto, con le braccia possenti che si agitavano continuamente e il terreno che tremava sotto il suo peso. La fuga riprese, più incalzante di prima.

    «Correte! Dobbiamo nasconderci nel Grande Bosco prima che ci raggiunga!» Intimò Bluketil a squarciagola. Si voltò per l’ennesima volta. Il demone diventava sempre più grande, in quel orripilante gioco prospettico. Lo spazio che li separava veniva mangiucchiato di secondo in secondo, metro dopo metro.

    «Da questa parte!» Incitò Jeddring che prima di tutti si era avveduto di uno schieramento di rovi che sbarrava la loro strada.

    Formarono un rango unito verso sinistra e aggirarono l’ostacolo. Ma il territorio continuava ad offrire insidie e i fuggiaschi erano continuamente costretti a deviare il loro tragitto. Questo non faceva altro che favorire l’avvicinamento del Koulg, che non smetteva di rollare fendenti all’innocua aria e colpi scalcianti alla vegetazione.

    «Guardate, la giù! Presto!» Additò frenetico Vigera che aveva intravvisto un leggero declivio che li avrebbe portati dritti al Grande Bosco. Questo si stagliava in tutta la sua imponenza davanti ai loro occhi, ma per quanto corressero sembrava non avvicinarsi mai.

    Denius arrancava, trascinando la sua grossa mole senza mai smettere di correre. Più avanti Dugger, rosso in volto, aveva la fronte completamente madida di sudore.

    Bluketil capì che dovevano fare qualcosa, creare un diversivo che gli permettesse di guadagnare quei pochi secondi preziosi necessari per raggiungere il bosco. L’occhio gli cadde su un raggruppamento di rocce. «Vigera, Dugger, a destra! Jeddring, Denius, con me lungo la cresta sinistra di quelle rocce! Dobbiamo disorientarlo!» Sguainò i suoi incitamenti con decisione. Dovette attutire un singulto strozzato, con gli occhi contorti in due sottili fessure.

    Con la coda dell’occhio Bluketil vedeva il proprio petto avanzare per poi ritirarsi velocemente. Sentiva una fornace ribollirgli dentro, con brucianti vampate di calore che si facevano strada lungo la gola. Il respiro gli si faceva sempre più corto, con la gola e il palato divenute aride superfici su cui non riusciva più ad attecchire alcuna goccia di saliva. Cercò di umettarsi le labbra con la lingua, ma fu inutile, e quando tentò di deglutire, sentì raschiare dolorosamente la gola. Gli occhi presero a bruciargli e dovette più volte battere le palpebre perché la vista gli si stava offuscando.

    Con la mano provò a sfilarsi la borraccia d’acqua da tracollo; l’operazione fu condotta nervosamente e ci impiegò diverso tempo per sfibbiarla. Quando ci riuscì, sfilò convulsamente il tappo e si rovesciò il contenuto sul volto. L’acqua gli cadde ovunque, inzuppandogli la faccia; come dei rigagnoli gli scivolarono giù per il labbro superiore, li raccolse con la lingua. Era particolarmente dolce e il senso di frescura che ne provò gli diede un po’ di sollievo.

    Il terreno iniziò a tremare sotto i loro piedi, tanto era vicino il demone. Con un cenno del capo Bluketil richiamò l’attenzione di Vigera, il quale annuì. Insieme a Dugger si precipitò verso i tre compagni, tagliando a sinistra; lo stesso fecero Bluketil con Jeddring e Denius che svicolarono repentinamente a destra. I due gruppi s’incrociarono, tagliandosi rispettivamente la strada. Nel mezzo, il Koulg venne dirottato verso una duplice preda che disorientava il suo inseguimento annodando la sua scelta d’azione. Funzionò. Il demone, lanciato verso il terzetto, si vide passare davanti Vigera e Dugger correre sulla sinistra. L’istinto fu irrefrenabile. Deviò e si lanciò al loro inseguimento, pagando alcuni secondi nella scelta della preda. Questi si dimostrarono vitali.

    Una ventata gelida li investì quando entrarono nel cono d’ombra proiettato dalle imponenti querce.

    «La fitta vegetazione farà da schermo a quella demoniaca creatura!» Urlò, illuso, Dugger.

    Strapparono le penombre dei primi alberi del Grande Bosco, con il sole che svanì tra le folte chiome. Un tappeto di felci rivestiva il suolo, lì dove neri veli si distendevano ovunque, lacerati occasionalmente da qualche raggio di luce.

    «Maledizione!» Inveì improvvisamente Jeddring, mentre lo sgomento serrava i volti dei Ricercatori. In quel punto del bosco la vegetazione non era così compatta come si sarebbero aspettati, con gli alberi che crescevano distanti l’uno dall’altro. Il Koulg era gigante, ma non sufficientemente per impedirgli di muoversi nel sottobosco.

    «Dobbiamo continuare e confidare che la vegetazione si infoltisca più avanti!» Bluketil si aprì ai suoi compagni in quella speranza. «Individuate alberi che sfoderano rami più bassi, solo così riusciremo ad allungare sul demone!» La voce ci tremolava per via della corsa e del dolore al torace.

    L’aria s’appesantì, densa nei polmoni e umida sulla pelle. Si gettarono a capofitto tra un grosso tronco e l’altro, con le felci che gli schiaffeggiavano continuamente sulle ginocchia. Alle loro spalle si sentiva il Koulg scorticare le cortecce degli alberi al suo passaggio e qualche ramo spezzarsi sopra la sua testa. La flora li stava iniziando a proteggere.

    Vigera saltò verso Bluketil. «Se non sarà prostrazione verso la creatura delle tenebre sarà dannazione tra i meandri senza fine del Grande Bosco!» Risucchiò aria nei polmoni prima di riprendere a parlare. «Di questo passo ci perderemo! Concitate sono le orme che lasciamo, sfocati gli occhi e verso ignote direzioni si dileguano le nostre speranze!»

    Quello sterminato bosco era un labirinto intricato di insidie, una gigantesca ragnatela in cui era facile rimanerci imbrigliato.

    «Vecchio mio, il soffio della vita non si estinguerà né qui e né ora!» Gli rispose Bluketil, nonostante le parole del compagno erano state per lui delle sferzate al cuore. Era vero, di questo passo sarebbero stati inesorabilmente ingoiati dalle viscere di quella sconfinata creatura verde. Bluketil si guardò intorno, e non vide altro che rovi, felci e piccoli arbusti. Impossibile sopravvivere in quell’ambiente se non ci si avvaleva di un attento orientamento; ma le circostanze non glielo permettevano. Ogni punto di riferimento passava senza che l’occhio vi ci potesse accostare un minimo d’attenzione. Non era un’impresa facile raggiungere il villaggio di Arbring in condizioni normali, ancor più improponibile con un demone alle calcagna. Sopravvivere era importante, la missione ancor di più.

    Le oscurità si chiusero su tutti loro. I rumori del bosco erano offuscati dalle grida rabbiose del demone e dallo schianto dei rami che precipitavano a terra, seguiti dallo scricchiolio delle loro carcasse al passaggio veemente del mostro.

    Più volte si girò a destra e a sinistra per sincerarsi che nessuno dei suoi compagni fosse piombato in disgrazia. Non inciampare in quel terreno insidioso era difficile, con le continue radici che spuntavano in tanti infidi cappi.

    Improvvisamente una fitta acuta al petto lo fece accartocciare su se stesso. Sentì un rivolo liquido scendergli dall’angolo della bocca e quando se lo strofinò con il polso vide con sgomento una strisciata rossa sul guanto. Non ora, pensò disperato Bluketil, non ora. Esplose in un colpo di tosse, sputando un grumo di sangue sul terreno. Il tumore aveva stretto un’alleanza con il Koulg ed insieme intendevano schiacciarlo. Pensò alla missione, ai suoi compagni, si legò tenacemente ai ricordi piacevoli del passato, si fece investire dalle parole che A’alwe gli aveva sussurrato in sogno. No; non doveva darsi per vinto proprio ora. Strinse forte le dita chiuse nel palmo, digrignò i denti e fulmineo riprese a correre. Un insopportabile macigno gli gravava sul petto. Il dolore era lancinante.

    Un grosso tonfo alle loro spalle fece vibrare il suolo ed una fontana di schizzi di terra ammorbò l’aria di pulviscolo.

    Jeddring, con quei suoi folti favoriti che quasi gli si univano sotto il mento, s’avvide del compagno in difficoltà ed accorse prontamente in suo soccorso. «Resisti, amico mio, le oscurità s’infittiscono, le braccia degli alberi si protendono sempre più in nostro aiuto!» Lo vide sofferente, emaciato in volto. Soffocò tra i denti un gesto di stizza. Gli mise una mano sotto il braccio e lo sostenne, più moralmente che fisicamente, in quella sfrenata fuga. Quando il compagno incrociò il suo sguardo e lesse quel sorriso malinconico sul suo viso, Jeddring ebbe un tuffo al cuore.

    «Ascolta.» Iniziò Bluketil, con tono amaro. Era sufficiente che non dicesse altro, perché Jeddring sapeva già cosa il suo compagno stava per dire. «Ricordi l’azione diversiva fatta poc’anzi? Ebbene...» Esalò dell’aria fredda in un improvviso risucchio, per poi subito dopo espellerla in un getto bollente. «...funzionerà di nuovo. Quel demone non è che un cacciatore dissennato la cui cieca ambizione si restringe sulla indifesa preda.» Dibatté contro un singulto improvviso. «Una volta che gli se ne offre una vi si scaglia contro senza badare a null’altro. Come prima Jeddring...» gli strattonò la divisa, per incoraggiarlo e per avere ragione di una fitta tagliente «...come prima, senza indugio. Deviate insieme, in due gruppi da due, in direzioni opposte per poi aggirarlo quando il momento propizio si affaccerà. Mi accingerò io a crearlo.»

    «Il tuo cuore è impavido, ma non lasciare che si ferisca con la lama della stoltezza!» Lo rimbeccò il compagno, ma lui sembrò non starlo ad ascoltare.

    «Vedrai, il demone non si curerà di voi.» Continuò Bluketil. «Rallenterò perché voi possiate svanire all’occhio del demone e ritrovarvi così all’ombra delle sue spalle, senza che quella cosa possa avvedersene. Farò in modo che nelle sue anfrattuose orbite si rifletta solo il mio corpo.»

    «Deliri se pensi che te lo faccia fare!» Urlò Jeddring. «Piuttosto sarò io a impuntarmi contro quell’infernale essere! Ho di certo più probabilità di te.»

    L’altro rise. «Ne sei proprio certo?» Sputò del sangue. «Come vedi le mie probabilità di uscirne sono minime. Il mio fardello non sarà motivo di impedimento per voi. Comprendi quanto ti dico e capirai perché lo faccio.» Poi i suoi occhi iniziarono ad indurirsi. «Vai ora!» Tuonò. «Riferisci agli altri!»

    Il quello sguardo Jeddring vi lesse qualcosa di indefinibile, un coraggio ed una forza che trascendeva ogni sua logica comprensione.

    «Non ti lascerò solo!» Insistette. Dovette urlare sia per respingere quell’angoscia che covava per il compagno malato e sia per vincere il trambusto alle loro spalle. Il Koulg menava fendenti micidiali alle fronde che gli si paravano dinanzi, spezzando una quantità notevole di rami. Dove passava, vi rimaneva una scia di profondi solchi sul terreno. Molte erano le piante che erano state sradicate dalla sua veemenza, troppe le verdi foglie schiacciate sulle sue orme.

    «Non sarò solo.» Disse Bluketil in un sussurro. «Fa ciò che è giusto, mio fidato amico.» Ultimò senza rimpianto. «Fa ciò che è giusto.» Ripeté con un’acidula nota di amarezza. «Il mio è un ordine, non una scelta. Il mio è un saluto, non un addio.» Le parole gli morirono in gola. Strinse i denti. La fatica cominciava ad opprimere in maniera estenuante.

    «Non portare da solo questa croce, non me lo potrei mai perdonare!» Esternò Jeddring con la voce strozzata dal dolore.

    «Questa è la mia croce e sulle mie spalle la trascinerò, fin quando l’ultimo respiro verrà esalato dalla mia bocca, e solo allora la impalerò e dormirò l’eterno sonno invocando l’autrice della somma speranza, la protettrice dei nostri sogni, la madre della giustizia. Colei che indora i nostri cuori.» In quel momento una manata del vento scostò le fronde ed un fascio di luce imbiondò il suo viso.

    Posò la mano sulla spalla di Jeddring e lo spintonò. Questi lottò con tutte le sue forze contro quel rimorso che ostinatamente cercava di prorompere. Sputò grida di frustrazione, pianse lacrime di dolore. Si staccò dal compagno e pochi secondo dopo Bluketil lo vide defilarsi assieme a Vigera sulla sinistra e sgattaiolare tra la fitta vegetazione. Contemporaneamente Dugger e Denius girarono verso destra, aggirando il demone che ormai era prossimo a recuperare l’arretrato Bluketil. Li vide scomparire nella penombra del sottobosco. Il Koulg era lì, alle sue spalle che rollava come un animale selvatico impazzito.

    Il Ricercatore, rimasto solo, si catapultò in una cieca corsa, verso l’ignota destinazione della salvezza. Aveva il mento imbrattato di sangue, gli occhi iniettati di fredda determinazione.

    Jeddring non smise mai di mettere un piede dopo l’altro, con un vortice d’impetuosità che gli pervase il corpo e le lacrime che gli salirono all’angolo degli occhi.

    Si girò una sola volta. Lo scorse in lontananza, poco più di una sagoma soffusa dalle ombre del sottobosco. Eppure la sua immagine era viva e distinta nella sua mente. Lo vide, lo vide fermarsi, una figura statuaria forte di una lucidità mentale e di una fermezza invidiabile. Ammirò il suo impareggiabile coraggio, mentre roteare su se stesso con incredibile calma a fronteggiare il demone. Rami di rovi s’abbarbicarono davanti ai suoi occhi, schermando la visuale. Non ci fu null’altro se non quell’incredibile grido che squarciò il cielo.

    Jeddring non seppe mai cosa avvenne ma una cosa la realizzò, quell’agghiacciante richiamo di battaglia non giunse dalle fauci del demone.

    Capitolo XXIX

    Julien si morse il labbro inferiore per tornare da quel mondo immaginario in cui era precipitata. Ogni volta che la guardava gli faceva lo stesso effetto. La Dama Bianca. I suoi verdi occhi scivolarono sullo scafo del galeone, s’arrampicarono su per le sartie, fin sopra gli alberi, per poi lanciarsi giù verso il ponte assieme alle drizze e agli stragli.

    In alto, uno spicchio di cielo terso lambiva le chiome degli imponenti alberi. Come una folata di vento fece danzare le fronde, un caduco fruscio plasmò una pioggia di scintille luminose, riverbero delle lucide foglioline dei germogli.

    «Julien.» Udì labilmente il suo nome sciogliersi tra i sospiri delle brezze. Sorrise, divertita dalla fervida immaginazione che la stava trasportando in un mondo fantastico.

    «Julien.» Quel suono si ripeté. Il magico alone, che per un lasso di tempo imprecisato si era adagiato su ogni cosa, svanì per ridare vita a quei tratti forti che marcavano ogni linea, ogni contorno, risaltando così quel contrasto che permetteva una selezione visiva. Il sorriso della Mohariana si fece più contenuto. Si guardò attorno, sbatacchiando i capelli corvini a destra e a manca. Gli uomini erano indaffarati negli ultimi preparativi prima di salpare. L’ancora fuoriuscì in quel momento dal pelo dell’acqua, con gocciolanti brandelli di verdognole alghe che vi penzolavano, mentre da una vecchia banchina venne aggiustata la posizione dello scalandrone che permetteva il collegamento con la nave. Attorno alle taccate v’erano diversi uomini a armeggiare con le funi, altri erano già sul ponte a stringere nodi attorno a barili e casse, altri ancora stavano all’ombra della carena a scrostare colonie di minuscoli crostacei e piccole praterie di alghe che, nel loro silenzio, ne avevano ammantato la superficie.

    Julien portò la sua attenzione oltre, lì dove il volto del paesaggio era coperto dalle foglie.

    «Julien» Nuovamente quel richiamo che nessuna rosa dei venti avrebbe saputo indicarne la provenienza. Un viluppo di confusione e perplessità la sottomise. Si spostò di qualche passo, gironzolando e voltandosi continuamente. Si distaccò dal gruppo e s’addentrò tra i cespugli e gli arbusti, scostando con le braccia i rami che le impedivano di vedere oltre. Ogni cosa era colorata dal silenzio.

    «Chi sei?» Fece, incipriata da un rossore d’imbarazzo. La sua invocazione non aveva asservito alcun effetto. I suoi occhi rotearono in cerca di un indizio, di un movimento. Nulla.

    Mosse qualche altro passo, con le felci che le solleticavano sulle caviglie. Avvertiva una presenza, ma intorno a lei non c’era niente.

    «Dove sei?» La sua voce vacillò tra realtà e immaginazione. Scrollò il capo, come a voler scacciare quel vespaio di illusioni che le vorticavano attorno.

    «Ascoltami, Julien.» Gli occhi della Mohariana si dilatarono. Stavolta non era fantasia e se il tarlo della pazzia non le aveva scavato una breccia nella ragione allora quella voce misteriosa era vera, lucente come la speranza che nutriva nel suo cuore.

    L’angelica voce soffiò e Julien si lasciò avvolgere dal suo melodioso canto.

    Volutin la vide riemergere da dietro un cespo di carici, sullo sfondo di ontani neri e farnie. I lineamenti della ragazza gli apparvero rimodellati su di uno stampo più maturo, con quegli occhi sgravati da quel fiore della vita che sembrava improvvisamente essere esploso. Socchiuse le labbra, come ad imprigionare lo sgomento per qualcosa che si era appena consumato, e gli si fece incontro.

    «Qualcosa ti angustia, Julien?» Un cipiglio arruffato si disegnò tra le sopracciglia del Ricercatore.

    Julien sentiva ancora l’influsso di quelle mistiche parole che le gocciolavano ancora nella testa, lasciando una scia vacua e sommessa.

    Aspirò entrambe le labbra per reprimere un singulto. Per un secondo guardò a terra, dove con la punta del piede stava tracciando nervosamente dei ghirigori. Poi sollevò il capo e il suo sguardo s’incrociò con quelli del ragazzo.

    «Volutin, è giunto il momento che le nostre strade si separino. Avrei tanto voluto incontrarvi in circostanze diverse, ma purtroppo non è stato così. Abbiate cura di voi e fate dell’accortezza il vostro scudo.» Poi iniziò a muovere leggermente le labbra, senza però che ne uscisse alcun rumore. Tergiversò, come se non riuscisse a trovare le parole giuste. Poi riassunse il suo pensiero. «Devo tornare sui miei passi, c’è bisogno di me.» La sua voce era poco più d’un soffio al vento.

    Sulla fronte di Volutin l’increspamento s’accentuò. Non si sarebbe messo ad indagare, non intendeva violare i segreti che quella ragazza custodiva. Si limitò ad appoggiare entrambe le mani sulle sue spalle. «Trova allora nella mia riconoscenza una compagna di viaggio e che la luce dei tuoi occhi possa essere per me sorgente di speranza. Presta attenzione a dove metti il piede, perché in queste terre gravano minacce assai pericolose.»

    Lei gli scoccò un timido sorriso. «Lo farò.» Oltrepassò le spalle del ragazzo con lo sguardo. «Porgi il suo saluto ai tuoi amici e non proferir mai loro la parola addio.»

    L’altro annuì. Gli si accostò e gli scoccò un bacio sulla guancia. «Che la fortuna possa uguagliare il mio bacio.» Così dicendo, si sciolse dal lui e lentamente sfumò tra la vegetazione. Volutin la seguì con gli occhi mentre spariva tra i rami degli frutici e l’erba alta, con i lunghi capelli neri che le oscillavano al vento come creste d’onda. La vide rimpicciolirsi sempre più mentre diventava parte integrante della flora.

    Un’improvvisa stretta al cuore gli presentì che non l’avrebbe mai più rivista.

    S’avviò pensieroso verso babordo, dove la passerella era ormai stata puntata sul suolo. Raomin lo accolse, con quella sua vistosa cicatrice che gli segnava il volto e quell’immancabile espressione dura e burbera, e lo ragguagliò sugli sviluppi.

    Sentì qualcuno chiamarlo dall’alto del ponte del galeone; portò il mento all’insù e vide Atro d’un Voz che gesticolava con le massicce braccia, invitandolo a salire.

    Quando fu sul ponte, ogni cosa sembrò cambiare attorno a lui; dall’alto del galeone la visuale si apriva in una panoramica più ampia e ci si lasciava ammaliare da quell’esplosione di rametti e foglie che, nel loro insieme, andavano a formare le imponenti chiome. Appoggiò i gomiti sull’impavesata e guardò in basso; il suo occhio piovve giù lungo la murata, in un volo liberatorio. Ovunque ferveva lo scricchiolio delle travi di legno ed il ticchettio dei tacchi degli stivali. C’era un gran fermento sul ponte, con le funi che serpeggiavano ovunque e gli alberi che crepitavano ad ogni oscillazione. Nijenhus, Troglen Moll e altri due uomini erano alle prese con il rizzaggio di quel carico che che avrebbe potuto risentire del beccheggio o del rollio della nave, mentre Raomin, Hudd an’Po e Bura’n provvedevano a fissare drizze, scotte e altre cime di manovra nelle caviglie o attorno alle candeliere.

    La Dama Bianca versava da lungo tempo in uno stato dormiente, eppure il legno, ottenuto dalla parte più dura del noce e della betulla, sembrava non aver risentito delle intemperie; anche le parti in metallo avevano resistito alla minaccia della ruggine, come se una patina invisibile le avesse protette. Lo stesso valeva per le funi e le vele, fatte con fibre vegetali ricavate da particolari piante, contro cui la corrosione non aveva potuto nulla. L’unica testimonianza dell’alternarsi delle stagioni in cui la Dama Bianca aveva riposato nel suo lungo sonno erano il tappeto di foglie secche sparse lungo il ponte e quei leggeri strati di polvere e terriccio che avevano mutato il suo naturale colorito.

    Atro d’un Voz non smetteva di urlare, dando disposizioni e impartendo direttive. Il Lungimarengo afferrò la gerla abbisciata attorno ad una galloccia e la lasciò filare; lo sfregamento rapido delle corde sulle assi di legno generò dei sottili fili di fumo. Contemporaneamente altre cime vennero sciolte. Le vele si gonfiarono immediatamente al vento e il loro bordare generò uno schiocco secco, con una nuvola dorata di polvere che si levò al cielo. Assunsero da subito una posizione a collo, esercitando una forza di arretramento della nave. Il galeone sbandò, oscillando longitudinalmente e inclinandosi con fare minaccioso. La Dama Bianca era stata destata dal suo lungo sonno ed ora sembrava stesse esternando la sua indignazione, dimenandosi in continui rollii e beccheggi.

    Atro d’un Voz alzò un braccio e diede un segnale a due Lungimarenghi appostati al paranco, poi lanciò uno sguardo d’intesa a Bura’n che iniziò a destreggiarsi e a manovrare le drizze affinché le vele rimanessero nella giusta posizione ed infine diede il segnale a Ozzo, Borko e Volutin di tagliare le gherline e le gomene tese attorno alle duglie. L’imbarcazione tonneggiò violentemente verso poppa; oscillò per diversi secondi, poi prese lentamente a muoversi. Come i pennoni più lunghi sfiorarono i rami più protesi, ci fu un sontuoso oscillare delle chiome ed una pioggia di foglie piovve assieme al polline e ai petali dei fiorellini, in un caleidoscopico gioco di luci. Il lamento della carena che raschiava il fondale, lo scricchiolio continuo delle travi di legno e le funi in tensione che crepitavano risuonò come un grido di guerra.

    Passarono sotto un tunnel verdeggiante ed ombroso, mentre la sponda dell’insenatura s’allontanò; le fronde degli alberi sembravano salutare il loro passaggio con labili fruscii, simili al mormorio di una cascata lontana, mentre le acque glauche presero a spumeggiare sulla scia della carena.

    Volutin boccheggiò per l’ultima volta l’aria del boschetto pregna di olezzi e con esso versò un ultimo pensiero alla ragazza di Moharia e a tutti quei compagni con cui avevano vissuto esperienze formidabili.

    Quando si voltò a poppa, la vegetazione lacustre lasciò il posto ad un aureo specchio d’acqua, lì dove solo le immagini riflesse degli alberi riuscivano a specchiarsi.

    Atro d’un Voz corse verso la ruota che governava il timone, Bura’n, Ozzo e un altro Lungimarengo provvederono a tendere i bracci dei pennoni disponendoli a collo, in modo che le vele venissero investite dalla parte prodiera. Completamente fuori dall’insenatura, vennero avviate le procedure per il viraggio. In quel movimento la Dama Bianca esternò tutto il suo disappunto con continui lamenti. Quando le sue vele rasentarono il filo della brezza, queste iniziarono a fileggiare. Il viraggio continuò e come il galeone andò all’orza gli esperti navigatori iniziarono a dargli un assetto, con alterne e frequenti accostate. Il galeone si lanciò verso il cuore del lago, dove le acque erano più profonde, con l’entroterra che si allontanava lentamente ma inesorabilmente, fino a diventare una spessa striscia verde.

    Il vento era quasi assente e il galeone procedeva lentamente, descrivendo una traiettoria tale da mettere il più possibile le vele sopravvento. Le acque erano così piatte, che si aveva l’impressione di scivolare su di una superficie di vetro. A sud si potevano scorgere le pendici del Promontorio, mentre a Nord il rispecchio del sole era talmente intenso che non si riusciva ad intravedere il pelo dell’acqua che segnava l’orizzonte.

    Costeggiarono un paio di isolotti, folti di vegetazione e con qualche piccolo mammifero o uccello che vi dimorava.

    Oltre al labile fischio del vento e al continuo scricchiolio del legno, si levò anche il rumore delle ramazze e della pietra pomice per eliminare il fogliame residuo e le sporadiche croste di ruggine che rosseggiavano sulle ringhiere e sugli argani.

    Tutto procedeva tranquillamente, ma presto quella tranquillità si sarebbe sgretolata come foglie secche.

    Il suo respiro era ansante e pesante.

    Non aveva detto una sola parola da quando l’aveva catturata e per tutto il viaggio si era preoccupato solo di far trottare il suo cavallo. A’alwe si lasciò cullare dal movimento dell’animale, tenendosi aggrappata saldamente tra le braccia del Cavaliere Senza Volto.

    Il suo volto era triste e alcune lacrime le rigavano le guance rosee. Sarebbe potuta evadere da quel mondo materiale, ma non lo fece. Sentiva il pulsare tenue del cuore di Dourne e non v’era suono più ammaliante per Lei. Ma questo era assai debole. Vi si aggrappò quanto più strettamente poté e mai lo avrebbe lasciato.

    Camminarono per un paio di ore, con il sole che andava lentamente calando verso l’orizzonte. L’aria era afosa e la calura delle prime ore del pomeriggio era asfissiante.

    Quando raggiunsero la Torre Nera, le ombre degli edifici erano già lunghe e tenebrose. Il volto di A’alwe era solcato da rigagnoli ormai secchi di lacrime. Non aveva paura, ma era soffocata dal dispiacere per l’avverso destino che s’era imbattuto sul quel prode cavaliere sul cui volto un tempo s’intravvedeva un sorriso, mentre ora solo l’oblio.

    Ormai sordo ad una realtà che andava sfumando in qualcosa di alienante, il Cavaliere smontò da cavallo, afferrò con entrambe le mani la piccola e la mise dolcemente a terra.

    Lei fuse il suo sguardo con l’immaginario orizzonte che regnava nel lontano Sud. Lui se ne avvide e per la prima volta da quando l’aveva prelevata un suono uscì dalla sua anfrattuosa bocca. «Riponi le tue speranze nelle profonde acque della disfatta e sradica ogni illusione di una salvezza che mai potrà valicare le mura della morte.»

    La fanciulla sospirò. «Attenderò.» Racchiuse in quella parola tutto il suo pensiero.

    «Inutilmente.» Aggiunse il cavaliere, con voce spettrale. «Se credi che degli uomini possano sovvertire il volere del Male, allora non vi sarà che tragedia nelle tue aspettative. Costoro sono destinati a soccombere. Potente è il potere delle Tenebre.»

    «Sì. Lo è.» Confermò la fanciulla. «Ma per quanto sia potente troverà sempre chi ne arresta l’avanzata.» Disse in tono sprezzante.

    «Credi ancora di potermi sconfiggere?»

    A’alwe si voltò e lo indorò con il suo sguardo. «Non intendo sconfiggerti. Intendo salvarti.»

    Il mezzo demone sembrò turbato. «E dimmi, intendi tradire gli uomini giunti dalle forestiere terre come facesti con me? Sono sciocchi se hanno creduto alle tue parole e presto saggeranno i peccati che sanguinano dai loro errori. Non sono che carne avvolta in deboli sentimenti e dalle loro paure nascerà il fallimento, la sopraffazione.»

    La fanciulla schiaffeggiò quelle parole. «Nei loro cuori è infusa la sacra essenza della vita. Vinceranno le loro paure e abbatteranno i pilastri del Male, come un tempo tu fosti in grado di fare.» Accentuò le ultime sillabe.

    «Non guardare al passato perché erranti sono le sue trame. È nel presente che marciano gli indomabili demoni, le orde di uomini dai grugni barbarici e le ombre che trasformano in insidia qualunque cosa sfiorano.» Un incolore suono ogni volta sembrava uscire dalle profondità del cappuccio.

    «La storia lascia le sue indelebili tracce, cavaliere, dovresti saperlo. Nel fallimento non c’è la sconfitta, ma solo una battuta d’arresto. Già una volta il tuo ginocchio si è discostato dal suolo e il tuo cuore ha ripreso vigore quando l’umana mano di una fanciulla suffragò la tua avanzata verso la perdizione. Ricordi?» Sbracciò, come a voler svelare quel ricordo. «Lei adesso è donna e guida la resistenza a quell’orda di uomini persi nell’offuscato volere del Male.»

    Il Cavaliere Senza Volto tacque.

    In un’espressione decisa e pugnace, A’alwe riprese a parlare. «Il potere nasce da un forte legame. Ebbene, io ti dico che presto la storia si ripeterà e a terra prostrerai il tuo ginocchio.»

    Il mezzo demone sembrò giganteggiare a quelle parole minatorie. Volute di nero sfumarono dal suo corpo. Lo spazio che li separava sembrò aprirsi in un vuoto senza fondo. Da lì parve giungere il verbo del Cavaliere Senza Volto. «No. Non temo la donna che guida quel ristretto manipolo di uomini che si nasconde tra i pingui boschi del Nord ed ogni atto di ribellione verrà spazzato senza pietà.»

    «Non è lei che devi temere, ora.» Pungolò la fanciulla e così detto tornò a fissare il Sud. Gli occhi gli rifulsero di luce propria ed un liliale sorriso fece da contorno alle melodiose parole che stillarono dalle sue morbide labbra porporine. «Presto un’altra donna giungerà e allora l’alba tornerà a incidere con i suoi raggi dorati l’effigie della speranza.»

    Capitolo XXX

    La vegetazione si era fatta più fitta e quell’amalgama di foglie, spine, rami e tronchi non lasciava un attimo di tregua a Pciko e ai suoi compagni.

    L’andatura era notevolmente rallentata e ad ogni passo dovevano staccare gli stivali dalle fangose orme, sferrare calci ai rovi e fendere con dei bastoni quella ragnatela di rametti che impediva loro di crearsi un varco. Pciko sentiva le mani indolenzite, con la ruvida corteccia del bastone che gli premeva sui calli, riempiendogli il palmo di vesciche.

    Era da più di un’ora che si erano addentrati in quella macchia. Camminare in quelle condizioni era frustrante, con i ramoscelli che si paravano continuamente davanti agli occhi e le edere che si aggrovigliavano senza tregua attorno alle caviglie. In alcuni tratti ci si sentiva così oppressi e schiacciati dalla vegetazione che l’aria veniva a mancare. Un’aria che sapeva di legno marcio e torba.

    L’ennesimo rovo gli lacerò la divisa sul braccio sinistro, inferendogli un lieve taglio sulla pelle. Portò lo sguardo sull’arto e si accorse di avere diversi rigagnoli di sangue sparsi ovunque. La faccia gli bruciava per via del sudore che colava sui graffi e gli occhi gli dolevano a causa delle foglie che gli sbatacchiavano incessantemente sul volto.

    I secondi scoccarono lentamente e la marcia proseguì ancora più a rilento. Nonostante quell’immenso tetto verdeggiante, la luce riusciva a trapelare rischiarando un sottobosco altrimenti tetro e tenebroso.

    I movimenti erano assai limitati e si faceva molta fatica ad intuire cosa ci fosse nell’immediato tratto di bosco. La tenuta nervosa veniva messa a dura prova e le briglie della concentrazione non potevano essere sciolte un solo secondo fintantoché quell’incubo di legno e foglie non finisse. Inoltre, il verde frusciare e lo scricchiolio della corteccia secca occludevano l’ascolto di altri rumori.

    Pciko si sentiva spossato da quella situazione ma ogni qualvolta tentavano di fare una sosta per rifiatare, la sensazione di essere racchiusi entro un enorme bozzolo li sopraffaceva. Ed in effetti, per un arco di tempo imprecisato, dovettero battersi e dimenarsi come fossero crisalide. Strinse forti i denti e sfoderò un paio di fendenti con il bastone, tanto per scacciare quell’immagine; ma ogni volta la legnosa arma veniva avviticchiata dai rovi e dalle liane che cadevano a terra. A lungo andare, i muscoli delle spalle gli si erano induriti e le dita avevano preso a formicolare. Passò più volte la clava da una mano all’altra per dare quiete prima all’uno e poi all’altro arto; anche la schiena iniziava ad intorpidirsi per via dei rametti che impedivano spesso di camminare stando ritti.

    Il cammino era lento e difficile e sembrava che il tempo non passasse mai; i secondi scoccavano come il percuotere di grossi magli, freddi e duri. Avanzarono metro dopo metro, fendente dopo fendente, tenendosi chini in quello stretto passaggio di piante. Il terreno diseguale e rotto li costringeva a spostarsi da una parte all’altra, in movimenti frustranti che tradivano quella concentrazione che faticava sempre più a prendere forma nelle rigide espressioni disegnate sui loro volti.

    Ovunque era un turbinio di foglie seghettate ed erbacce intrecciate, un cunicolo di vecchi alberi i cui rami erano cresciuti così stretti gli uni sugli altri da formare un reticolo complesso assieme ai viluppi di radici che prorompevano dal suolo. Trincee di rovi ed arbusti spinosi apparivano e sparivano, sfidandoli con i loro fusti tenaci e con le loro spine acuminate. Più di una volta dovettero cambiare direzione, vinti dalle insidie invalicabili che affioravano continuamente; vere e proprie trappole nelle cui grinfie si udiva il lento mormorio del complotto. La macchia era così fitta che persino saggiare il terreno diventava cosa ardua, con quel tappeto di erbacce ed edere che sembravano custodire tranelli invisibili all’occhio stanco. Rasentarono ogni tipo d’asperità, roccioso o spinoso che fosse, e dovettero anche vincere il puzzo nauseabondo del materiale organico in decomposizione che saliva dalla terra.

    Pciko cercò di mantenere regolare il suo respiro, sebbene incominciassero ad affiorare i primi segni di stanchezza.

    Una voce interiore gli urlò di fare attenzione al rovo che gli si parò dinanzi, come fosse un mostro dai mille tentacoli acuminati, un altro suono figurativo gli consigliò di perlustrare il terreno impastato da zolle di fango, un altro richiamo ancora lo incalzò affinché prendesse vie alternative o si destasse in gravosi riposi. La sua testa era un mulinare di pensieri e emozioni che lo sballottavano da una parte all’altra, ma poi giungeva la voce della razionalità che lo dissuase ad accogliere ogni mendace monito partorito da quella rissa caotica e fastidiosa che gli vorticava in testa, come un vespaio. Capì con preoccupazione che si stavano affacciando ingannevoli emozioni che avrebbero potuto alimentare falsi pensieri, distrazioni, fino a generare nel subconscio l’immaginaria presenza di perfidie celate nel bosco che, a lungo andare, avrebbero anche potuto attentare alla ragione e dunque alla vita.

    Menò un fendente con il bastone per tranciare un intreccio di rametti spinosi; li spezzò, facendoli volare via. Subito dietro un altro garbuglio di fuscelli gli ostruì la strada. Si fermò per un secondo, trasse un profondo respiro, strinse i denti e sferrò un altro colpo. Il rumore del vento che fischiava sulla scia della mazza e quello dei rametti che si strappavano li stavano accompagnando da quasi due ore. Afferrò la mazza con entrambe le mani e con rabbia sfoderò una serie di colpi violenti che mandarono in frantumi tutto quello che riusciva a colpire. Finalmente, dopo l’ennesimo colpo, la mazza andò a vuoto. La macchia si stava diradando e i rovi irti e l’alta erba lasciarono il posto a secolari alberi dai tronchi massicci e curvi, come fossero giganti feriti. Dopo un arco di tempo che gli era sembrato non finisse mai, erano fuori da quell’incubo soffocante ed opprimente che li aveva stremati con continue immagini claustrofobiche. Ora di quel paesaggio, nelle loro menti, non rimaneva altro che un vacuo ricordo perduto e lontano.

    L’esperienza appena trascorsa era stata estenuante, in una ritmica ripetitività d’azione, continue vergate scandite solo da altre frustate, ridondanti colpi scagliati con pedissequa cadenza, in una monotonia sfibrante. Non v’era stato altro gesto se non quello di spazzare ogni forma vegetativa gli schermasse la visuale.

    Fecero una sosta. Si asciugarono il sudore, tamponarono le ferite, distesero la tensione e diedero il meritato riposo alle membra.

    Pciko si sedette sulla vecchia carcassa di un tronco muscoso disteso a terra. Si sfilò la borraccia da tracolla, strappò il tappo che schioccò come un bacio deciso e furtivo e accostò il beccuccio alle labbra; centellino qualche sorsata, poi con la lingua si leccò le gocce che gli colavano sul labbro inferiore, quindi alzò la borraccia sopra la testa e versò un po’ del contenuto sulla fronte. Al contatto con i graffi, sentì delle improvvise vampate di bruciore, seguite poi da un’appagante senso di frescura e sollievo.

    L’aria opprimente della macchia appena abbandonata, con la sua calura e l’odore nauseabondo di marcio, aveva lasciato il posto ad una frescura leggera e piacevolmente respirabile. L’umidità era aumentata decisamente, coprendo il sottobosco in uno scintillio di veli trasparenti e goccioline tremolanti che si stendeva sulle foglie, rendendole lucide e in alcuni casi viscide ed appiccicose; le stesse perle d’acqua che con metodica pazienza andavano ad alimentare un suolo già leggermente annacquato e popolato da una ricca fauna ipogea.

    Il Ricercatore sollevò il capo in alto e scrutò, sotto le volte degli alberi, uccelli di ogni forma e dimensione, in movimento in sontuosi sprazzi di colori che sparivano in un batter d’occhio, così come apparivano. Volatili dai becchi lunghi e ricurvi o dal piumaggio folto e colorato o ancora con creste e ciuffi stravaganti sulla testa o con code appariscenti e maestose.

    Sottili raggi di luce apparivano di tanto in tanto da uno squarcio delle chiome degli alberi, facendo diventare vividi e luminosi i colori altrimenti tenui del paesaggio sottostante. Un’incredibile varietà e tonalità di verde scintillava umida e immobile tutt’attorno; qua e là si potevano intravedere anche piccoli fiorellini dai colori scialbi così come enormi corolle dai colori intensi. Grosse macchie bianche e rosate di licheni tappezzavano le ruvide cortecce degli alberi, per lo più querce secolari, mentre il muschio ne ammantava il colletto e ricopriva i massi isolati, incassati nel terreno ad esternare le intemperie. Le imponenti querce occasionalmente brontolavano e si lamentavano agitando le imperiose fronde fatte di foglie grandi quanto una robusta mano.

    Uno strillo si alzò in alto sulla sinistra e si spense, un mugghio si levò poco più avanti per poi scemare rapidamente. Un misto di suoni gravi e acuti, privi di identità, provenivano da ogni parte, sciamando dalle chiazze più scure e riecheggiando nel buio. Animali alati remigavano come ombre nel luetico baluginare tra le chiome, agili e furtivi; altri sguazzavano e grugnivano nel silenzio, nascosti nell’oscurità del sottobosco, come predatori affamati che si aggiravano minacciosamente o piccole prede impaurite.

    Dopo qualche minuto Drumundon s’affacciò con una manciata di dolci bacche vermiglie che consumarono tutti in fretta e con gratitudine.

    La sosta aveva rifocillato lo spirito, più che gli stomaci, ma non sarebbe durato a lungo. Erano in ritardo e Pciko sapeva che non potevano più perdere ulteriore tempo. Il sole si vedere a sprazzi e di rado e le ombre del sottobosco si allungavano

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