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MEDIOEVO: Il futuro è la porta, il passato la chiave
MEDIOEVO: Il futuro è la porta, il passato la chiave
MEDIOEVO: Il futuro è la porta, il passato la chiave
E-book436 pagine5 ore

MEDIOEVO: Il futuro è la porta, il passato la chiave

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Info su questo ebook

Anno 2354, città stato di Vertoria.
In un’era in cui l’immortalità appartiene a una casta elitaria e l’insensato uso della tecnologia portò alla devastazione geologica del pianeta, gli Antichi controlano da otto secoli il potere assoluto.
Un’efferato omicidio e un ingiustificato rapimento, innescheranno una concatenazione di insoliti eventi. Tiran, un mago di 800 anni e Ann, una giovane strega, uniranno le loro forze per rovesciare il regime, contrapponendo i propri poteri ai corpi potenziati dei biocyborg a capo dell’esercito di Vertoria.
Un viaggio a ritroso nel tempo rimane l’unica possibilità per rimediare a un futuro senza futuro, ma la tecnologia che lo renda possibile non è ancora stata inventata.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2019
ISBN9788832551518
MEDIOEVO: Il futuro è la porta, il passato la chiave

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    Anteprima del libro

    MEDIOEVO - Elvio ravasio

    casuale

    1

    Anno 2252, Confederazione degli stati indipendenti, città di Vertoria.

    Distretto quarantacinque, comunità agricola.

    Rose osservava il cielo grigio attraverso il vetro della finestra della sala come se stesse leggendo un libro. Caratteri di una trama incerta, intervallati da legature e linee che ne diminuivano la comprensione. Striature perlacee di un’alba spettrale, proiettate su ammassi informi e mutevoli al vento.

    Sarebbe stata una mattina come un’altra, non fosse stato per l’inquietudine crescente. In bocca aveva un sapore amaro. Minuscole saette azzurre le giocherellavano attorno alle dita strette a pugno, come a cercarvi uno spiraglio.

    Distese le mani e interruppe il fenomeno: Ann stava scendendo di corsa le scale, saltò gli ultimi tre gradini a piè pari col suo solito «Buongiorno, mamma!» Poi, senza attendere risposta, saltellò in cucina per la colazione.

    Rose si alzò per raggiungerla ma una fitta improvvisa allo stomaco la inchiodò sul posto.

    Paralizzata, cadde di lato, trascinando con sé un tavolino e il porta fotografie appoggiato troppo vicino al bordo. La donna colpì il pavimento con violenza; oltre il vetro della cornice, gli occhi della figlia la guardavano sorridenti.

    «Mamma?» I passi di Ann risuonarono dalla cucina al salotto. «Cos’è successo?»

    Il dolore si espandeva: dall’addome scese verso il bacino e aggredì le gambe. Rose si rannicchiò mordendosi le labbra, poi si obbligò a sdraiarsi sulla schiena, per cercare di controllare il respiro. «Ann…»

    «Mamma!»

    Le mani tremanti della figlia le toccarono le spalle, poi le premettero delicatamente sullo stomaco. «È qui che ti fa male?»

    Rose cercò di rispondere, ma i muscoli delle sue mascelle erano tesi allo spasmo. Sentiva i tendini tirarle la pelle delle braccia e del collo.

    Sopra di lei, gli occhi della ragazza si inumidirono. «Cosa ti sta succedendo?» disse con voce stridula.

    Rose riuscì a prendere abbastanza fiato da sibilare: «Nasconditi, presto!»

    «Perché? Da cosa? Hai bisogno di aiuto, chiamo un medico!»

    «Ascoltami, ti prego… ti prenderanno e io non potrò aiutarti ma sarò sempre al tuo fianco, non dimenticarlo.»

    Con uno sforzo quasi sovrumano, Rose le sfiorò il viso con le mani. Scie luminose sfrigolarono dai suoi palmi e s’insinuarono tra i capelli mori della ragazza.

    «Ora va’» le ordinò.

    «Stai delirando, io non vado da nessuna parte!» Si asciugò le lacrime.

    «Ti prego, ascoltami e non discutere» insistette con un filo di voce. «Tra poco saranno qui, fai come ti dico.»

    Ann non capiva, glielo lesse negli occhi. Ma qualcosa del suo sussurro graffiante dovette turbarla, perché si allontanò senza staccare gli occhi dalla madre.

    Rose sperava di averla spaventata abbastanza. In vita sua il pericolo non era mai stato tanto vicino, vivido, reale, quasi palpabile.

    Pochi minuti dopo, tre militari sfondarono la porta di legno in fondo al corridoio, e si avvicinarono di corsa. Il primo della colonna urtò con la veste tattica un vaso di fiori, che cadde riversando l’acqua sul pavimento. Pesanti anfibi calpestarono i boccioli screziati, riducendoli a macchie informi sulle venature del parquet.

    Rose si impose di rialzarsi in piedi, non voleva che la trovassero a terra. Si appoggiò con una mano allo schienale di una poltrona in tessuto azzurro, tenendo l’altra premuta sullo stomaco.

    I militari irruppero nella sala e la circondarono. Uno di loro ridacchiò. Fuori dalla finestra, un mezzo blindato era di traverso sul vialetto: una pesante scatola di ferro sulle aiuole traboccanti di giallo e fucsia.

    Un soldato corpulento le si avvicinò stringendo il calcio del fucile. Si guardò intorno e sbraitò: «Dov’è?»

    «Dov’è chi?» rispose Rose, con un filo di voce. Abbassò lo sguardo, mentre la saliva le bagnava i lati della bocca e colava sul pavimento.

    «Sai perfettamente chi cerco. Tua figlia, dov’è?»

    «È uscita, non rientrerà prima di… sera» balbettò, cercando di ostentare sicurezza. Il tremore delle mani la tradiva. Con uno sforzo si rimise dritta e sostenne lo sguardo dell’uomo.

    Il militare la osservò in silenzio, l’espressione seria. Alzò il dorso della mano e le toccò il collo. Rose rimase immobile.

    La mano scese piano lungo il colletto della vestaglia da notte, tra i seni umidi di sudore; quel contatto la fece rabbrividire.

    Quando la mano del soldato le giunse sotto lo sterno, ci fu un movimento deciso. Rose sentì la punta delle dita conficcarsi in profondità, con forza, provocandole un conato di vomito.

    Si aggrappò con entrambe le mani allo schienale della poltrona, artigliandolo con le unghie. D’improvviso si sentì soffocare, iniziò a boccheggiare e stralunò gli occhi.

    Cadde di nuovo, incapace di reagire e rimase immobile.

    Il militare torreggiò su di lei e la osservò.

    «Sono un tipo pratico, per questo mi assegnano missioni non convenzionali. Non hai scelte da fare, la tua condizione non lo prevede, puoi solo rispondere alla mia domanda, oppure attendere.»

    «Attendere… cosa?» chiese in un sussurro, rannicchiata.

    «L’odore di plastica bruciata. Il legno che sfrigola, i vetri che scricchiolano, il bruciore agli occhi, i polmoni che collassano. La rassegnazione all’abbandono, l’inevitabilità di una fine ingloriosa e lenta. Molto lenta... Mentre la tua casa va a fuoco.»

    Il militare le posò la bocca dell’arma sulla fronte; il tocco del metallo freddo la fece sussultare.

    Alzò gli occhi incontrando quelli del suo aguzzino e ne sostenne lo sguardo, imponendosi di non avere paura. Impassibile, lui portò il dito al grilletto.

    Rose alzò piano le mani, le serrò sulla canna del fucile e se la premette sulla fronte. «Coraggio, fallo!»

    L’uomo ghignò, nei suoi occhi balenò una luce di eccitazione e un fremito di sadico piacere.

    «No, fermo!» urlò Ann, uscendo dalla porta dietro la libreria. «Non farle del male…»

    Con le lacrime agli occhi, la giovane corse verso di lei e si inginocchiò ad abbracciarla.

    Di colpo, le poche forze di Rose l’abbandonarono. «Perché non sei rimasta nascosta?» sussurrò.

    «Funziona sempre» disse il militare con aria compiaciuta, ritraendo il fucile. «Forza, caricatela sul blindato. Arrivo tra un attimo.»

    Due uomini afferrarono le braccia di Ann e la staccarono dalla madre. La ragazza scalciò e inveì con rabbia mentre la trascinavano all’esterno lungo il corridoio. Qualcosa dentro Rose andò in pezzi. Provò ad allungare la mano, ma avvertì delle fitte lancinanti; allora chiuse gli occhi e si concentrò.

    Mentre la trascinavano, Ann guardò un’ultima volta verso sua madre, prostrata e con la fronte contratta. Muoveva le labbra. Non udì la voce, ma sentì le parole nella propria testa, con una tale nitidezza da disorientarla.

    «Sii forte, figlia mia. Il mio destino è segnato, ma il tuo deve ancora compiersi. Ti voglio bene.»

    La madre sparì dalla sua vista.

    Ann urlò e si divincolò per tutto il tratto attorno alla casa, ma le mani guantate che la stringevano per le braccia non mollarono la presa.

    La buttarono sul mezzo, proprio mentre uno sparo dissolse la poca speranza a cui era ancora aggrappata. Gli occhi di Ann si velarono, le energie l’abbandonarono mentre tremori involontari le si diffusero in tutto il corpo. Si accasciò a terra come un cencio, incapace di reagire. Il solo girare gli occhi le provocava fitte atroci, sentiva la faccia contrarsi in grottesche convulsioni. La testa le pulsava all’impazzata.

    Quando il calcio di un fucile la colpì in fronte, svenne.

    Il militare si sedette di fianco al suo corpo inerme, si accese una sigaretta e disse: «Meglio non rischiare.»

    «Spero tu non l’abbia colpita troppo forte,» rispose il commilitone seduto davanti a lui, «gli ordini sono di riportarla indietro viva.»

    «Ha la testa dura. Si riprenderà» disse, esalando un anello di fumo dalla bocca.

    Un terzo soldato sbatté il portellone e diede due colpi con il palmo alla blindatura.

    Il conducente accese il motore e si grattò un polpaccio con insistenza. Il blindato si avviò verso il centro città, il ruggito del motore rimbombò sui muri delle case per perdersi in lontananza come un sussurro portato dal vento.

    2

    Pochi minuti dopo tornò la quiete e le porte delle case adiacenti si aprirono. Alcuni vicini in abiti da lavoro, indossati in fretta e furia, scesero in strada e si diressero cauti verso l’abitazione.

    «Cos’è successo?» chiese Ric, il capo distretto, avvicinandosi a grandi passi alla porta d’ingresso della villetta.

    Dal giardino, Jame, uno dei vicini scrollò le spalle infilandosi la camicia nei pantaloni. «Non ne ho idea… ho visto trascinare Ann su un blindato e poi ho sentito lo sparo. Maledetti militari.»

    «Sembra che se ne siano andati. Controlliamo se Rose sta bene.»

    I due uomini entrarono nella casa, mentre in strada altre persone avanzavano facendosi coraggio. Poco oltre l’ingresso aleggiava ancora l’odore di polvere da sparo. Percorsero il corridoio principale ed entrarono in soggiorno. Il corpo della donna giaceva in una pozza di sangue, assorbito alle estremità dalla vestaglia bianca.

    «Cosa significa?» urlò uno dei due uomini, avvicinandosi inorridito.

    «Non ha senso,» commentò l’altro, «perché uccidere una donna indifesa? E guarda qui, hanno usato un’arma fuori ordinanza.»

    «Perché hanno rapito quella ragazza in pieno giorno, e senza preoccuparsi di nascondere le tracce. È una chiara provocazione.»

    Un terzo uomo, alto distinto e pallido in viso, fece capolino dal corridoio. Si avvicinò al cadavere facendo attenzione a non sporcarsi le scarpe. Lo osservò dall’alto seguendone i contorni. Arretrò di un passo e si chinò, gli occhi fissi sulla ferita al cuore.

    «Ci mancava giusto un assassinio nel mio distretto per rovinarmi la giornata», borbottò con distacco. Gli altri due gli lanciarono un’occhiataccia.

    «Davvero delicato, signor Console. Siamo davvero dispiaciuti per il contrattempo ma una donna è stata uccisa» rispose Ric. «Avete intenzione di indagare su questo omicidio, o tollerate che l’esercito venga nel nostro distretto a mietere vittime indifese senza alcuna ragione?»

    «Noi Consoli serviamo a questo, no? Siamo il tramite tra il distretto e la Confederazione. Sarà mia premura chiarire il motivo di questo atto sconsiderato. Ma fino ad allora manteniamo la calma, non sappiamo di quale colpa possano essersi macchiate.»

    «Una donna disarmata e una ragazzina? Cosa potrebbero aver fatto, venduto ortaggi non freschi?»

    «Capisco il disappunto, ma ripeto: non traiamo conclusioni affrettate.»

    «Conclusioni affrettate? Io abito nella casa qui di fianco, ho moglie e due figli. Non voglio svegliarmi al mattino con il loro sangue che ricopre il pavimento. Noi vogliamo risposte. Vogliamo protezione. L’esercito è chiaramente fuori controllo.»

    «Concordo con Ric» disse Jame, in tono preoccupato.

    «Andrò oggi stesso a parlare con la Confederazione» disse il Console. «Per ora sediamo gli animi e non aggiungiamo altri problemi a quelli che già ci sono. Che nessuno entri in questa casa. Farò rimuovere il corpo e sigillare gli infissi, finché non avremo delle risposte.»

    Ric sbuffò. «Che queste risposte arrivino alla svelta. Se le nostre case e i nostri cari sono in pericolo, non sarà difficile procurarci armi al mercato nero.»

    Il Console fissò l’uomo dritto negli occhi e gli si avvicinò. «Voi non farete niente di tutto ciò! Il possesso di armi è punito con la morte, sarebbe la fine della nostra comunità. Volete che ci annientino? Ho detto che indagherò sull’accaduto, datemi il tempo di farlo. Sono stato chiaro, Ric?»

    «Chiarissimo. Ma se l’esercito è libero di ammazzare impunemente, ci saranno delle conseguenze. Sarete anche il Console, ma come capo di questa comunità pretendo che questo omicidio venga punito.»

    «E lo sarà» rispose il Console, digitando un numero sul telefono. «Pronto? Serve una squadra di contenimento nella mia locazione. Ci sono prove da congelare e un corpo da rimuovere, e voglio anche la scansione dell’abitazione per stoccare ogni campione di DNA rinvenuto. Subito.» Chiuse la comunicazione e si rivolse a Ric: «Finché non avrò parlato con la Confederazione, questo è il massimo che posso fare.»

    Ric staccò gli occhi a fatica da Rose. «Attendo notizie a breve, Console. Non sono un tipo paziente.»

    Percorse stizzito il corridoio. Fuori dall’abitazione si era ormai radunata una discreta folla.

    A centinaia mormoravano nella via principale del distretto quarantacinque: gremivano la strada bloccando il traffico. Volti increduli si allungavano anche dai vialetti, tra le vecchie case dalle architetture desuete, non ottimizzate allo sproporzionato incremento demografico. Altri ancora si affacciavano dalle finestre dei caseggiati, scambiandosi notizie da un piano all’altro.

    Ric strinse le labbra.

    La sua era una comunità unita, restia al cambiamento, con uno stile di vita improntato al sudore, alla terra e ai valori concreti. Avevano facce dure, scolpite nella pietra, sguardi scavati, lineamenti contratti.

    L’espressione di Ric non lasciava intendere o sperare nulla di buono e del resto non fece altro che confermare quello che già sapevano.

    «Rose è stata uccisa e Ann rapita, questi sono i fatti. Tornate alle vostre case. Avremo presto delle risposte su quanto accaduto.»

    Una marea di proteste si levò. Una voce più forte delle altre esclamò: «Vogliamo dormire al sicuro nelle nostre case, bastardi assassini!»

    Ric si arrampicò sul muretto che delimitava il cortile, così che tutti potessero vederlo. Osservò di nuovo i visi di quelle persone che conosceva molto bene. Comprendeva le loro preoccupazioni perché erano anche le sue e non era semplice trovare le parole adatte alla circostanza.

    «Quanto successo oggi è inammissibile. Il mese scorso hanno arrestato il responsabile dello stoccaggio, e oggi questo! Il Console ha garantito che se ne occuperà. Conoscete la mia schiettezza, è il motivo per cui mi avete scelto come capo di questo distretto, quindi non vi racconterò balle…»

    Ric prese fiato e soppesò le parole successive. Il mormorio della folla calò ma tutti gli sguardi rimasero incollati su di lui.

    «Sarò sincero, non nutro grande fiducia sul fatto che si venga a capo di questa vicenda. Con gli attriti politici in corso, quelli della Confederazione sembrano disinteressarsi di noi comunità rurali. Ma questo non significa che permetteremo altri episodi come quello accaduto oggi! Cercheremo di fare chiarezza. Vi invito quindi a rimandare le domande a quando avrò argomenti con cui rispondervi. Per ora, attendiamo l’intermediazione del Console.»

    Molte facce non erano convinte, ma la gente iniziò pian piano a disperdersi. Alcuni gesticolavano nervosi, nel brusio generale. Solo un uomo rimase immobile in mezzo alla folla, a fissarlo. La falda del cappello ne nascondeva la fronte e i lineamenti ma il suo abbigliamento era del tutto fuori contesto: indossava un cappotto lungo e abiti neri aderenti, di foggia ottocentesca, con placche di rinforzo su gomiti e ginocchia. Ric si sporse dal muretto per osservarlo meglio: tra le gambe della folla, gli parve di scorgere anche un paio di anfibi militari.

    E quel tipo da dove salta fuori? Pensò. Potrebbe essere uno dei criminali che ha ammazzato Rose, ma perché vestirsi in quel modo assurdo, mescolando abiti d’epoca e accessori tattici moderni?

    Per un motivo che non riusciva a comprendere, la vista di quell’uomo gli provocò un certo disgusto. Trattenne a stento un conato mentre un forte ronzio lo fece voltare: due droni della scientifica stavano atterrando sul retro della casa di Rose.

    Quando riportò lo sguardo sulla strada, l’uomo era scomparso.

    3

    Palazzo della Confederazione, ufficio consolare del distretto quarantacinque.

    «Dannazione, proprio a me doveva capitare questo casino!» Il Console picchiò un pugno sul cristallo della scrivania e si passò le mani tra i capelli, fissando il pavimento sotto il ripiano.

    La porta dello studio si spalancò, il Console scattò in piedi di soprassalto.

    Un ometto basso e pelato lo squadrò. «Datevi una pettinata! Lo stato maggiore vi riceve tra cinque minuti, che non vuol dire tra quattro o sei, vuol dire esattamente tra cinque minuti.»

    L’ometto fece una perfetta giravolta sui tacchi e se ne andò, il vestito nero, aderente e impeccabile quasi non si mosse.

    Andrej prese fiato, recuperò un paio di fogli dalla borsa e ripassò il discorso che si era preparato.

    Uscì dall’ufficio. Le sue scarpe ticchettarono sul pavimento di quarzo rosa, producendo un lieve rimbombo nel silenzio spettrale del corridoio che conduceva alla stanza dei colloqui.

    Avanzava spedito. Aveva un minuto esatto per presentarsi allo stato maggiore, e fare tardi non era un’opzione.

    Le narici gli prudevano: se le sfregò con il polso, ma continuarono a dargli fastidio. Il pungente odore di disinfettante di quel luogo gli provocava sempre una fastidiosa reazione allergica.

    Giunse infine alla stanza dell’incontro; l’ometto calvo aprì la porta e annunciò con voce stridula: «Andrej Karpo, Console del quarantacinquesimo distretto.»

    L’uomo entrò, cercando di ignorare l’insistente prurito al naso. Cinque persone ben vestite erano sedute dietro un lungo tavolo semicircolare, di un metro più in alto rispetto alla sua posizione.

    I volti cadaverici, dalla pelle avvizzita e gialla come un deserto millenario, erano solcati da rughe profonde. Cinque paia di occhi cerulei lo fissavano, velati da uno strato trasparente che ne occultava il colore.

    «Cosa la porta al nostro cospetto?» chiese l’uomo al centro. Benché il Console non ne fosse sicuro, non gli parve che il membro del consiglio avesse aperto bocca, la sua impressione fu quella che la voce provenisse dal ventre dell’uomo.

    Il Console arretrò di un passo. Era stato altre volte in quella stanza, e ogni volta gli trasmetteva un senso di disagio e inquietudine che gli bloccava lo stomaco. Si fece forza, fece un inchino e pronunciò il suo discorso, cercando di non fermarsi e di non perdere il filo: «Membri del consiglio, sarete di sicuro a conoscenza di quanto accaduto nel distretto quarantacinque. Mi trovo a gestire una situazione difficile. Il malessere popolare cresce, e non so per quanto ancora riuscirò a sedare gli animi. Questa mattina l’esercito ha ucciso una donna e della figlia non sappiamo più nulla. In qualità di Console e responsabile del distretto, devo chiedervi una spiegazione, e auspicare che i colpevoli vengano puniti.»

    Le cinque figure si scambiarono un’occhiata, che non sfuggì ad Andrej.

    «L’esercito è saldamente sotto controllo.» La voce del vecchio era ferma e decisa, quasi minacciosa. «Quanto successo stamattina, seppur sgradevole, va considerato come un provvedimento necessario alla sopravvivenza di noi tutti. Nella Città Stato, inclusi i distretti, vivono cinquanta milioni di abitanti e faremo tutto quanto necessario per salvaguardare il loro bene.»

    Andrej fece appello a tutto il proprio sangue freddo e si schiarì la voce.

    «Capisco. Tuttavia, non sarà facile convincere la popolazione che due donne indifese costituissero un pericolo per il bene comune. Quali che siano le vostre ragioni, temo che l’accaduto apparirà come un omicidio a sangue freddo. Converrete che non posso tornare senza una giustificazione o un colpevole.»

    Le sue parole caddero in un silenzio ermetico; i membri dell’assemblea rimasero immobili a fissarlo.

    «Saremo anche un piccolo distretto,» aggiunse il Console, «ma mi sono giunte voci di episodi simili nei distretti quarantuno e quarantaquattro. Non voglio mettere in discussione le vostre azioni, ma i roghi partono da un fiammifero. Dobbiamo evitare che quel fiammifero venga acceso, o la Confederazione potrebbe ritrovarsi con un problema ben più grande da gestire.»

    La cariatide al centro del tavolo scattò in piedi con agilità inaspettata. Il Console si vide fissare con occhi che sembravano voler balzare fuori dalla loro sede.

    «Ci state forse minacciando, Console?»

    «Io… Al contrario, sto implorando il vostro aiuto.» Abbassò la fronte in segno di rispetto, ma senza distogliere lo sguardo. «I miei poteri sono molto limitati. Se vogliamo mantenere un controllo, mi serve un colpevole o una spiegazione plausibile.»

    I cinque anziani si alzarono e si avvicinarono tra loro. Si consultarono a bassa voce, ignorando il loro interlocutore. I loro bisbigli erano incomprensibili e intervallati dall’ansimare dei respiri affaticati.

    Il Console si guardò intorno, in imbarazzo. Quella stanza lo angosciava: avrebbe voluto scappare. Ma doveva portare a termine il suo compito, non poteva ripresentarsi al distretto a mani vuote. Se non altro, il prurito al naso e l’odore di candeggina erano quasi spariti, sostituiti da un olezzo di stantio e muffa al quale prima non aveva fatto caso. Fissò il lampadario, cercando di combattere il fastidio crescente, ma la luce riflessa dai cristalli gli faceva girare la testa.

    Ogni cosa in quella stanza lo inquietava, e tutti i tentativi per arginare il disturbo non facevano che peggiorare la situazione.

    Chiuse gli occhi per qualche attimo, concentrandosi sul respiro e cercando di riacquistare il controllo, di vincere la pulsione a fuggire. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di trovarsi altrove, ma prendeva con serietà il suo incarico. Strinse i pugni e attese.

    I bisbigli, misti a rantoli e colpi di tosse, proseguirono per quindici minuti abbondanti, o almeno questo indicò il suo orologio ma a lui sembrò di essere lì da una vita. Iniziava a non poterne più. Quando le cinque figure sciolsero il capannello e si risistemarono sulle loro sedie, Andrej raddrizzò le spalle e incrociò le mani dietro la schiena.

    «Se le nostre ragioni fossero divulgate,» spiegò il portavoce dell’assemblea, «creerebbero scompiglio in tutta la comunità. Perciò, pur capendo le sue preoccupazioni, ci vediamo costretti a scegliere il male minore. Non sempre la popolazione è pronta per la verità.»

    «E questo cosa significa?»

    «Lei è un uomo pragmatico, non credo ci sia bisogno di ulteriori spiegazioni.»

    «Mi state dicendo che tornerò al quarantacinquesimo distretto senza nulla di concreto? Spero vi rendiate conto di cosa questo comporterà.»

    «Ci rendiamo conto che lei è un uomo dalle molteplici risorse, e che il vero cardine delle sue mansioni è salvaguardare il consenso della popolazione verso la Confederazione. Confidiamo che si dimostrerà all’altezza della situazione.»

    Non fu tanto il tono mellifluo di quella frase, a infastidire il Console, quanto la sufficienza con cui venne pronunciata. Anzi, era anche peggio: quel ghigno contornato di rughe lo stava schernendo. Per quella gente lui non contava niente. Era una pedina che potevano rimuovere in qualunque momento, e che avrebbero sacrificato senza esitazione, se fosse tornato utile. A loro non importava nulla di come avrebbe risolto la questione.

    Doveva cavarsi d’impiccio da solo.

    Con un cenno della mano, lo invitarono a uscire: «Il tempo a sua disposizione è terminato. Buon rientro al distretto.»

    Lo sbigottimento di Andrej gli bloccò ogni tentativo di obiezione. Gli sudavano le mani. Non era un buon segno: era stata la sua calma proverbiale ad avergli permesso di raggiungere quel posto tanto ambito, con una paga da sogno e l’orario di lavoro flessibile.

    Ma ora sentiva divampare in lui solo rabbia. Lo consumava dall’interno, come un vulcano prossimo all’eruzione. Una sensazione che l’aveva messo nei guai più volte, da giovane. Guardò quegli uomini: rachitici e immobili, aspettavano che lui uscisse con un tale compatimento dipinto in volto, con una tale sufficienza...

    Strinse i pugni lungo il corpo e sbottò con voce rotta dall’affanno: «No signori, non questa volta! Non mi liquiderete con i vostri risolini e le vostre occhiate di commiserazione. Voi non siete al di sopra della legge, e io conosco i miei diritti: esigo una risposta sui fatti di stamattina, e non me ne andrò finché non mi sarà stata data!»

    Lo urlò tutto d’un fiato, sfogando la collera repressa e il nervosismo troppo a lungo dominato.

    Nel lungo silenzio che seguì, ansimò per riacquistare lucidità. Mentre incrociava lo sguardo dei membri dell’alto consiglio, iniziò a rendersi conto del guaio in cui si era cacciato.

    La palpebra di uno dei cinque si contraeva in un tic nervoso, le dita di un altro tamburellavano sul piano di legno massello, le rughe profonde si agitavano come onde in mare aperto. I loro volti erano deformati dagli spasmi.

    Sono fottuto! Pensò Andrej, arretrando verso la porta. La voce che udì poco dopo gli gelò il sangue nelle vene: un coro di cinque timbri all’unisono riverberò in un’eco distorta che si propagava in ogni angolo dell’enorme stanza. Sembrava provenire da ogni punto, fin da sotto il pavimento e da oltre il soffitto. Per quanto il suono udito gli risultasse terrificante il tono era pacato e beffardo.

    «È davvero imbarazzante che un piccolo omuncolo irrispettoso abbia raggiunto una posizione come la tua. La nuova dimora che ti assegneremo sarà meno privilegiata, puoi starne certo. Buon divertimento, Console.» Ora i membri erano tutti in piedi e lo osservavano compiaciuti.

    Andrej era agghiacciato, incapace di qualsiasi movimento. Quelle voci sembravano esplodergli in testa, non tanto per le parole quanto per il suono che gli penetrava nel cervello.

    Un ultimo inumano sforzo gli diede la forza di replicare provocandogli una fitta lancinante alla base del cranio. A stento si resse in piedi e fece appello alle poche energie che gli rimanevano, conscio che sarebbero state le ultime parole che avrebbe pronunciato.

    «Bastardi maledetti! Imprigionatemi pure, ma ricordate che la vostra forza non sta nell’uccidere un Console... Avreste potuto vendermi una scusa puerile, inventandovi qualsiasi stupidaggine! Il vostro sfogo non è che l’esternazione della vostra paura. Non so in che modo una ragazzina possa intimorirvi tanto, e probabilmente non sarò io a scoprirlo ma è chiaro quanto la temiate, al punto da ucciderle la madre e rinchiuderla chissà dove. Non sarò più il vostro burattino, maledetti.»

    «Se avete finito, caro Console, il vostro nuovo domicilio vi attende, non dimenticate di mandarci una cartolina» rispose serafico un membro del consiglio.

    Due guardie, che in altezza sfioravano lo stipite della porta, trascinarono fuori dalla stanza un corpo passivo, incapace di contrastare le presa che gli immobilizzava le braccia. Un uomo ferito nella sua integrità, nelle credenze che il suo ruolo gli imponeva di accettare senza discutere. Asservito a un potere marcio e logoro, solo ora vedeva il cancro che per anni si era esteso in un tessuto sdrucito e che si era sforzato di giustificare. Maledì la propria ottusa cecità mentre lo strattonavano sull’ascensore e premevano il tasto meno otto.

    4

    I mattoni grondavano umidità alla luce flebile delle vecchie lampade, arrugginite dal clima malsano. Le volte a crociera ormai senza intonaco sovrastavano le sale più ampie. I cammini angusti, che si diramavano senza fine nelle quattro direzioni, risalivano a un’epoca dimenticata e a lui sconosciuta.

    Il tempo di abituare gli occhi alla semioscurità e il Console cercò di riprendersi studiando l’ambiente. Le guardie lo stavano trascinando di peso, facendogli strusciare i piedi sulla terra battuta. L’imboccatura di un corridoio si avvicinava inesorabile e l’olezzo, sempre più intenso, non lo rassicurava per niente. Una delle due guardie lo cinse con un braccio. L’altra rimase fuori dal corridoio, in attesa: non ci sarebbero mai entrati appaiati e con un prigioniero a peso morto. Una volta nello stretto cunicolo, il tanfo lo stordì. Era una preda nella tana del lupo. Porte di legno spesse un palmo sfilavano sulla sua destra, alcune chiuse con chiavistelli, altre spalancate. A tratti udiva gemiti provenire dall’interno senza poter dar loro né un volto né un significato, ma fu quando percepì il lamento di una giovane donna che la sua testa si voltò verso l’apertura. L’orrore gli diede nuova forza. Senza rendersene conto serrò il braccio che lo cingeva e, con una torsione del busto, riuscì a liberarsi portando l’arto della guardia in leva. L’energumeno si inginocchiò per il dolore e nello stesso istante il Console gli sferrò un poderoso calcio sul gomito. L’osso gli uscì dalla carne. L’urlo riecheggiò in ogni anfratto delle segrete ma un altro calcio alla gola lo spense definitivamente. Il Console non era in sé. Come posseduto, reagiva e si muoveva d’istinto, in preda a qualcosa che non riusciva a spiegarsi. Il suo sguardo tornò alla cella aperta e un odio che non gli apparteneva gli invase la mente. Entrò chiudendosi la porta alle spalle e il bestione dinanzi a lui si ritirò su i pantaloni in fretta e furia. Riconobbe Ann, in un angolo della cella che stava per essere stuprata da quel laido essere in divisa logora. Scattò in piedi, con uno strattone il Console gli strappò i pantaloni e lo tirò per il bavero facendogli perdere l’equilibrio. Quando fu a terra gli sferrò un calcio nei coglioni e prima che se ne rendesse conto gli sfracassò uno sgabello di legno massello in testa. Continuò a colpire finché il cranio non si ridusse in una poltiglia gelatinosa. Appoggiò l’utensile a terra e vi si sedette sopra come ipnotizzato. D’improvviso le forze lo abbandonarono, si sentì svuotato di ogni capacità motoria. Fissava quell’ammasso informe senza realizzare cosa fosse successo, come se si fosse appena risvegliato da un sogno. Alzò lo sguardo verso Ann ancora priva di conoscenza, aveva il viso tumefatto e diversi lividi violacei le ricoprivano cosce e braccia. Cercò di alzarsi ma le gambe non lo reggevano. Decise di prendersi un attimo mentre, all’esterno, il suo udito captava concitazione e urla frenetiche che invadevano il corridoio. Il Console era inebetito, il suo respiro affannato tardava a regolarizzarsi e le braccia gli formicolavano. La testa gli doleva come se gli fossero passati sopra con un camion, non metteva a fuoco le cose più vicine e non riusciva a stringere i pugni. La stanza iniziò a girargli tutta intorno e il freddo del pavimento fu l’ultima cosa che percepì.

    Il suono di una campana, bimbi in festa che correvano per il paese, banchi di frutta, formaggi, dolci caserecci. Donne affaccendate in quello che doveva essere un giorno di gioia, forse una domenica o una festa patronale. Gonne larghe, lunghe fino ai piedi e casti copricapi a raccogliere i capelli. Il profumo dell’erba appena tagliata, i gelsomini in fiore. La carne sulla brace con il grasso che sfrigolava a contatto con il calore, rilasciando volute di fumo dolciastre e speziate. Una brace rosso acceso, tenuta viva dai mantici a pedale sui quali le donne premevano ritmicamente. Una brace sempre più rossa, sempre più calda, sempre più intensa, con fiamme sempre più alte... fino ad arrivare al cielo.Si contorcevano innalzandosi in una danza macabra tra grida e imprecazioni. La pira bruciava senza sosta e ora la gente rideva, sputava e malediva ballando attorno al rogo. Tra le lingue di fuoco nauseabonde una figura ormai deforme si dibatteva

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