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La vita è sogno
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E-book78 pagine1 ora

La vita è sogno

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La vita è sogno è uno dei capolavori assoluti del teatro barocco. Scritta nel 1635 da Calderón de la Barca, è una metafora della natura effimera e passeggera della vita, nonché una testimonianza della capacità dell’uomo di essere l’artefice del proprio destino.
Ambientata in un ipotetico regno di Polonia, rappresenta la storia di Sigismondo, la cui madre è morta dandolo alla luce. Il padre, turbato da una profezia che indica nel figlio l’origine di future sciagure, lo fa rinchiudere in una torre isolandolo dal mondo. Molto tempo dopo, però, decide di metterlo alla prova, liberandolo, ma Sigismondo, rabbioso per gli anni di prigionia vissuti, mostra un atteggiamento vendicativo e violento. Convintosi della veridicità della profezia, il padre gli fa allora somministrare un sedativo e lo fa ricondurre di nuovo nella torre, dove il sorvegliante racconta a Sigismondo che quanto ha vissuto era in realtà un sogno. Quando poi, a seguito di una rivolta popolare, Sigismondo esce nuovamente dalla torre, il timore che tutto possa di nuovo rivelarsi solo un sogno, con la consapevolezza della vanità delle cose che ne deriva, lo induce a cambiare completamente trasformando in un sovrano saggio.
LinguaItaliano
Data di uscita16 ott 2020
ISBN9791220208314
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    Anteprima del libro

    La vita è sogno - Pedro Calderón de la Barca

    Personaggi

    SIGISMONDO, principe

    BASILIO, re di Polonia

    ROSAURA, dama

    CLOTALDO, vecchio

    CLARINO, grazioso

    ASTOLFO, duca di Moscovia

    STELLA, infanta

    Soldati

    Guardie

    Musici

    Accompagnamento

    Atto I

    Nell'alto di un monte esce Rosaura vestita da uomo, in abito da viaggio,

    e scende cominciando a dire:

    ROSAURA: Violento Ippogrifo, che camminasti pari con il vento, sbocca, strascinati e precipitati da queste nude rupi, e rimanti nel confuso labirinto di questo monte, acciò i bruti abbiano il suo Fetonte; che io, senz'altra guida che quella che mi dà la legge del destino, cieca e disperata discenderò l'intricata asprezza di quest'erto monte. Male ricevi, o Polonia, uno straniero, allorché scrivi col sangue il suo ingresso nelle tue arene, quando giunge appena. Ben lo dice la mia sorte. Ma dove trovò pietà un infelice?

    Scende Clarino dalla stessa parte, e detta.

    CLARINO: Di' pur due, e non mi dimenticare quando ti lamenti; che se due fummo che uscimmo dalla nostra patria in cerca di avventure, e due quei che fra miserie e pazzie qui arrivammo, e due quei che abbiamo rotolato, non è ragionevole ch'io mi senta ammettere nel dispiacere, e non già nel conto.

    ROSAURA: Non voglio metterti a parte de' miei lamenti, Clarino, per non toglierti, piangendo il tuo zelo, il diritto che hai ad essere consolato; imperocché un filosofo amava tanto di lamentarsi, che diceva abbisognasse cercar disgrazie per lamentarsi.

    CLARINO: Il filosofo era un ubbriaco barbone. Oh, chi gli avesse dato più di mille schiaffi, perché se ne lamentasse dopo di averglieli ben dati! Ma che faremo noi, signora, a piedi, soli, smarriti e a quest'ora, in un monte deserto, quando il sole si parte per un altro orizzonte?

    ROSAURA: Chi vide mai successi così strani! Ma se l'occhio non m'inganna, mi sembra di vedere un edifizio.

    CLARINO: O mente il mio desiderio, o ne determino i segni.

    ROSAURA: Nasce rustico fra le nude rocce un palazzo sì picciolo, che appena azzarda di mostrarsi al sole; l'architettura del suo edifizio è di così rustico artificio, che somiglia alle piante di tante rocce e rupi tante, che del sole toccano il fuoco, sembra un sasso che sia rotolato dalla cima.

    CLARINO: Avviciniamoci, signora, che questo è troppo mirare, quando è meglio che le persone che colà abitano, generosamente ci accolgano.

    ROSAURA: La porta (o meglio dirò la bocca) è aperta, e dal suo centro ne nasce la notte.

    (Si ode romor di catene)

    CLARINO: Cosa ascolto? cielo!

    ROSAURA: Immobile io rimango, sono di fuoco e gelo.

    CLARINO: Vi son catenelle che suonano? Mi uccidano se non è un galeotto in castigo; il mio timor ben me l'insegna.

    Sigismondo di dentro, e detti.

    SIGISMONDO: Ahi, misero me! me infelice!

    ROSAURA: Qual trista voce ascolto! Lotto con nuove pene e tormenti.

    CLARINO: Ed io con nuovi timori.

    ROSAURA: Clarino?

    CLARINO: Signora.

    ROSAURA: Fuggiamo i rigori di questa incantata torre.

    CLARINO: Non ho nemmen più l'animo da poter fuggire.

    ROSAURA: Non è piccola luce quella caduca esalazione; pallida stella, che con tremoli deliqui pulsando ardori e palpitando raggi, rende più tenebrosa l'oscura abitazione con luce dubbiosa? Sì, ai suoi riflessi posso determinare (quantunque di lontano) un oscuro carcere, ch'è d'un vivo cadavere la sepoltura; e perché più mi spaventi, addobbato a fiera vi giace un uomo, carico di ferri e soltanto accompagnato da un debole lume. Fuggir non possiamo; ascoltiamo dunque di qua le sue sventure, sappiamo ciò che dice.

    Esce Sigismondo con una catena e lume, vestito di pelli.

    SIGISMONDO: Ah, misero me! me infelice! pretendo impietosire i cieli; giacché così mi trattate, qual delitto ho commesso, nascendo, contro di voi? Conosco che se son nato, ho commesso un delitto, e che sufficiente cagione ebbe la vostra giustizia e rigore, imperocché il più grande delitto dell'uomo è d'esser nato. Solo vorrei sapere per esaurire le mie voglie (lasciando a parte, cieli, il delitto di nascere). Che vi poté più offendere, per castigarmi di più? Non nacquero gli altri? Dunque, se nacquero gli altri, qual privilegio ebbero, che io non ho mai goduto? Nasce l'augel, e con la somma bellezza che gli danno le sue piume, appena gli spuntano, che con velocità taglia subito le eteree sale, negandosi alla pietà del nido che abbandona con calma. Ed io, che ho più anima, ho meno libertà? Nasce il bruto colla pelle disegnata da belle macchie (grazie al dotto pennello), ed appena segno è delle stelle, che ardito e crudele, l'umana necessità gl'insegna ad essere feroce e mostro del suo labirinto. Ed io, con maggior istinto, ho meno libertà? Nasce il pesce, che non respira, aborto di alghe e limo, e appena si vede sopra le onde vascello di squame, che subito da tutte le parti si gira, misurando l'immensità di tanta capacità datagli dal freddo centro. Ed io, con più libero arbitrio, sono meno libero? Nasce il ruscello, e serpeggiando fra i fiori, qual serpe d'argento si rompe fra essi, quando il musico celebra de' fiori la pietà che gli dà la maestà il campo aperto alla fuga. Ed avendo io più vita, ho meno libertà? Arrivando a questa passione, sentomi fatto un vulcano, un'Etna; vorrei arrancarmi dal petto il cuore a pezzi. Qual legge, giustizia o ragione

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