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La spada di Pilter
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E-book187 pagine2 ore

La spada di Pilter

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Info su questo ebook

Il cavaliere Pietro è un uomo umile ma profondamente ricco d’animo, che dedica la sua vita al raggiungimento di un ideale, votandosi al senso del dovere, al sacrificio, al coraggio, incarnando tutti quei sacrosanti valori e principi che sottendono l’esistenza di un cavaliere.
Si è trasportati nell’antico Medioevo, sorprendendosi ospiti ai banchetti reali, ritrovandosi increduli spettatori ai duelli di un torneo e a vivere in prima persona sentimenti forti, ad apprezzare i più alti ideali e a riflettere che, ancor oggi, per alcuni uomini, sono segno distintivo della nobiltà d’animo.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2020
ISBN9788835825852
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    Anteprima del libro

    La spada di Pilter - Marco Colenghi

    respiro

    I

    Paura nel buio

    La paura maggiore ci viene da ciò che non conosciamo, quello che non può essere visto, sentito o toccato genera nell’uomo le ansie più profonde. I sentimenti più miseri offuscano i più nobili, l’altruismo è sconfitto dall’egoismo, la generosità dalla parsimonia, la carità dall’avarizia, il coraggio dallo sbigottimento.

    Sono confuso, non ricordo da dove provengo. Ho memoria solo di quell’ultimo scontro. È il dolore che me lo rammenta. Reggo le redini con la mancina, il destro è stato ferito da un fendente energico e preciso. Il panorama attorno a me non muta, anzi, sembra ripetersi. Marciante avanza, come se sapesse dove condurmi. All’improvviso, senza un’apparente motivazione, si fa nervoso, il suo incedere diviene marcato, i suoi muscoli iniziano a contrarsi vigorosamente, a vibrare. Il sentiero che stiamo percorrendo diviene uno slargo. Marciante si arresta bruscamente, facendomi vacillare. Frugo nervosamente tra l’anello di alberi che ci circonda, nulla vedo e nulla sento. Silenziosamente sguaino la spada, cerco di acuire i miei sensi, mi basterebbe un rumore, o una qualsiasi rivelazione che mi facesse capire, devo sottrarmi a questa incertezza.

    Un valoroso cavaliere ha più timore di affrontare il sortilegio di una strega che la spada di cento nemici.

    La distanza che ci divide dall’imbocco del sentiero non è poca, sprono Marciante al piccolo trotto, purtroppo però il rumore degli zoccoli e il tintinnio della mia armatura rompono il silenzio anche a lunga distanza. Il sobbalzare acuisce la mia sofferenza, a ogni battere di sella un colpo mi percuote la parte dolorante, stringo i denti, contraggo i muscoli nell’intento di contenere la sofferenza. L’ansia dentro me continua a crescere, ormai l’unico pensiero è conoscere prima possibile il mio destino, qualunque situazione ne derivi. Mancano pochi passi, il rumore e l’agitazione che sento sono tanto grandi come mai lo furono, alzo la spada verso l’alto, pronto a sferrare un colpo, entriamo nella vegetazione e istintivamente chiudo gli occhi.

    II

    Divina provvidenza

    È calma e silenzio… apro gli occhi curioso e spaventato; non capisco, non è… non sono… non sto montando, non sto brandendo la mia spada, non sento le forti fitte. Sono sdraiato sull’erba, vedo Marciante poco distante che dorme, un fuoco vicino, quasi spento. Cos’è questo, cos’è stato? Qual disordine nella mia mente! Si è trattato solo di un sogno angoscioso, ma così reale da ingannare la mia stessa ragione, le cose che mi apparivano erano vere, gli odori si conficcavano nelle mie nari, i rumori sbattevano con decisione nelle mie orecchie, il dolore stringeva con convinzione le mie carni. Mi sento un poco a disagio, forse per questo motivo, ma soprattutto per aver avuto un riposo movimentato, non mi sento rifocillato a dovere e il desiderio mi suggerirebbe di rimaner disteso ancora qualche istante. Nonostante ciò mi alzo, so infatti che, mossi i primi muscoli, il fastidio svanirà.

    È una bella mattinata di primavera, dopo aver disfatto il bivacco, sello Marciante, preparo il carico sulla generosa schiena dell’asino e proseguo il mio viaggio. Il paesaggio che vedo mi aggrada: l’aere è terso, senza intorbidamenti; la notte ha lasciato l’odorosa rugiada sul verde, un fresco umido, piacevolmente pungente, che tonifica lo spirito. È questo il panorama che mi circonda, gradevole e anche familiare.

    Ora fiancheggiamo un torrente, limpido di freschezza e gorgogliante di vigore, attratti dall’acqua ci fermiamo, così tutti e tre possiamo calmare la nostra sete.

    Questo paesaggio è un incanto, molte tonalità di verde si susseguono: prati, cespugli, alberi, un intenso azzurro funge da mantello a questo affresco, che un talento potrebbe fissare sulle pareti di un palazzo o di una chiesa; mi sembra di vivere in quei sogni che mia madre ricreava per me, sussurrandomi dolci fiabe prima di consegnarmi a Morfeo. Ampi appezzamenti di un verde liscio si dipartono a destra, a manca cespugli a macchie regolari fanno da avanguardia a un esercito di alberi alti, ben dritti e fieri, che mostrano la loro folta chioma.

    Dopo aver stretto la soma dell’asino e averlo degnato di una gratificante pacca sul muso, riprendiamo il nostro cammino.

    In lontananza si scorge un ponte sul ruscello, ed è lì che dobbiamo andare ma, ancor più in là, si delinea la forma di un cavaliere; è troppo lontano per definirne le sembianze, a ogni passo si avvicina due volte, e io a lui. Inizio ad apprezzarne i contorni, distinguo con certezza il colore del cavallo, è grigio, con bolle bianche. La bestia è bardata con un’armatura leggera, che protegge testa e collo, troppo leggera per affrontare un duro scontro ma sufficiente da esser sopportata per un lungo peregrinare.

    Il cavaliere indossa un’armatura completa, manufatta con abilità, ben proporzionata, anche se con tutti quegli intarsi e cesellature sembra più adatta a far bella foggia di sé in una cerimonia che in battaglia. Ricorda quei tessuti che fanno bella mostra sui muri dei palazzi più nobili, un elmo cela metà del suo volto, la parte più delicata e importante, lasciando scoperti bocca e mento. Legato al destriero e penzolante da un lato, uno scudo con un blasone, che non riesco bene a vedere, rimane defilato.

    È tempo di fermarsi, io non posso avanzare oltre e nemmeno lui. La distanza che ci divide è doppia rispetto a quella dal ponte. Se non fosse per i due destrieri che scuotono lentamente il muso mentre si scrutano, annusando gli odori che si spandono nell’aere, ci sarebbe troppo silenzio.

    Rompo gli indugi: «Cavaliere, io mi presento senza armatura e con il volto pulito, non ho intenzioni ostili nei vostri confronti, sono qui innanzi a voi, non ho timori ma non cerco battaglia. Io sono Pietro di Buren. Chi è il cavaliere che ho davanti e cosa mi devo aspettare?».

    Il mio muto interlocutore resta fermo per qualche secondo, poi alza entrambe le mani e le avvicina al capo, afferra l’elmo e con lentezza lo sfila.

    «Cavaliere Pietro di Buren che vi presentate senza armatura e con il volto pulito, che non avete timori e non cercate battaglia, nemmeno Nator dei Lansach cerca battaglia, anzi, se può la evita. Certo è nobile difendere i cavallereschi principi, ma sopravvivere a sciocche situazioni di orgoglio è sicuramente meglio».

    «Avete una lingua molto affilata cavaliere, è anch’essa un’arma, ma va adoperata con attenzione, potrebbe dimostrarsi fatale per colui che non la sa usare con la dovuta cautela».

    «Non ditemi, cavaliere Pietro, che sono bastate queste mie poche scherzose parole per aver fatto di voi un mio nemico, anziché un estimatore della mia arte oratoria».

    «Voi portate un’armatura, cavalcate un destriero, ma a parer mio non parlate, né vi comportate come un cavaliere, sembrate piuttosto un giullare di corte».

    «Su quali sacri libri sta scritto che un cavaliere non possa favellare in maniera fantasiosa e colorita, come chi allieta le feste nei palazzi o le sere nei bivacchi, o che un giullare non possa tirar di spada e risolvere una tenzone in fil di lama?».

    «In fondo a quanto dite si può trovare un briciolo di saggezza, non mi offende ciò che odo. Ma badate, non chiedete troppo alla mia indulgenza».

    «Ora che ci siamo presentati e apprezzati a vicenda, cosa proponete di fare, a chi spetta di traversare il ponte per primo? Poiché è chiaro che anche voi dobbiate andare dall’altra parte».

    «Non traggo certo danno dal farvi passare per primo, né sono impaziente di darvi le spalle, andate pure voi Nator dei Lansach».

    «Ubi maior, minor cessat, Pietro di Buren, senza paura».

    «Devo dunque desumere che non abbiate passato la vostra giovinezza a cantare storielle irritanti e strimpellare le corde, avete avuto un’istruzione appropriata che si confà alla condizione di nobile o di cavaliere. Accetterò il vostro invito, ma, come avete voluto sottolineare voi, se mi ritenete il maggiore, tanto da farmi passare per primo, seguite anche voi il vostro consiglio e indietreggiate, tanto da farmi attraversare il ponte senza dover tender l’orecchio a sorvegliare i vostri movimenti».

    Così attraversiamo il ponte prima io e dopo il cavaliere dei Lansach.

    Mi chiedo per quale motivo viaggi bardato da battaglia e non abbia al seguito il suo mulo sulla cui soma appendere l’armatura.

    «Ditemi Nator, che fine ha fatto il vostro asino?».

    «Potrei raccontarvi le più fantasiose storie per giustificare il mio avanzare in armatura, mi limiterò a esporvi i fatti come accaddero.

    Sul calpestato giacevo assopito,

    poiché Morfeo mi aveva colpito,

    sognando corteggiar dame con linguaggio forbito,

    un verso mi destava stordito,

    la mia bestia rubar con gesto ardito

    tentava un birbante impazzito,

    l’incosciente non era ancora fuggito,

    non sembrava per nulla pentito,

    come una furia mi levai stizzito,

    ma ahimè inciampai nel vestito

    e non mi rimase che guardare avvilito

    il mio mulo ormai sparito».

    «Non potevo certo aspettarmi favellamenti diversi da parte vostra. Vi siete dunque fatto sorprendere nel sonno, non lo sapete che si deve dormire lasciando un occhio o un orecchio di sentinella?».

    «Insonne Pietro, non so come facciate voi a rimanere comunque in guardia, quando le vostre membra chiedono di poter scaldare un giaciglio, quando coricarvi vi procura piacere, quando rilasciare i muscoli vi bea l’espressione del volto, sino a essere condotto tra le braccia ammaliatrici e soporifere della notte, nelle quali abbandonarsi per godere del rimanere immobili, del non preoccuparsi di cose da vedere, da dire, da fare».

    «Avete ragione Nator, non lo sapete».

    «Eloquente Pietro, si può certo affermare che non siete uomo di molte parole, senza aver timore di essere smentiti da alcuno. Come pensate che si possa affrontare questo nostro viaggio, se non riuscite a comporre pensieri più lunghi di un respiro?».

    «Percorrere la stessa via nel medesimo lasso di tempo non corrisponde necessariamente a viaggiare assieme, per giunta, voi parlate a sufficienza per entrambi».

    «Mi interesserebbe conoscere qualche fatto sulla vita del cavaliere che ho appena incontrato, ma temo che udirei poche parole pronunciate con tono fermo e voce forte, che potrebbero definire un qualsiasi altro cavaliere, e quindi nessuno. Mi vedo costretto dagli eventi a contarvi delle mie molte avventurose vicende».

    «Nessuno vi costringe a farlo, anzi, vorrei rimaner assorto nei miei ripensamenti».

    «Solitario Pietro, credo che vi giovi altroché il poter udire parole pronunziate da anima viva, piuttosto che ascoltare il muto silenzio».

    Ripensandoci, forse non sarà così terribile averlo accanto e poter scambiare qualche ragionamento sensato. Sono già alcune ore che cavalchiamo, incomincio a sentire il richiamo del ventre che brama del buon cibo, magari una lepre o un fagiano arrostiti su uno scoppiettante focherello. Non voglio certo essere il primo a dimostrare debolezza avanzando la proposta di una sosta per rifocillarci. Ma… che accade? Sento uno strano rumore. Sì, pare proprio un lamento, non capisco però che bestia sia, non piccola, il suono è troppo grave, ma nemmeno grossa, il verso non è potente.

    Sono sorpreso, il mio compagno di viaggio ha lentamente afferrato il manico della sua spada, segno che ha percepito anche lui, giudicando prudente prepararsi alla difesa. Che possa essere il cibo che stavo sognando per placare il mio ventre? Dio non voglia che si tratti di un branco di belve che vuole cibarsi con le nostre mortali carni.

    «Pietro, siete molto affezionato al vostro asino?».

    «Perché mi ponete questa domanda?».

    «Certo mio coraggioso e indomito, voi siete certamente in grado di affrontare qualunque pericolo, io però non dimenticherei la differenza che passa tra un animale da soma e un cavaliere».

    «Venite al dunque, persino in tal situazione cercate lunghi raggiri del verbo, potremmo non avere tutto questo tempo da perdere per interpretare i vostri contorti pensieri».

    «Mi dispiace, ma io sono fatto così, e le situazioni di pericolo non giovano alla mia schiettezza. Comunque tentavo di dirvi che potremmo essere costretti a sacrificare il vostro onesto e umile mulo, mentre noi ci allontaniamo al galoppo».

    «Non un branco di animali dalle fauci sanguinolente, non un esercito di nemici ben armati, non un’orda di briganti pronti a tutto potrà mai fiaccare il coraggio di un cavaliere, facendogli assumere comportamenti vigliacchi. Avanziamo!».

    «Sarà certamente come dite voi, a ogni buona maniera io mi tengo pronto a lanciare il mio destriero al galoppo».

    Il rumore si avvicina, nonostante ciò, non comprendo cosa sia.

    «Vedete anche voi?».

    «Sì, come potrei non vedere. Dimenticate le vostre paure, dovrete attendere un’altra occasione, per mostrarmi la vostra abilità nel condurre al galoppo il vostro animale».

    «Sempre pronto a mostrare le mie abilità equestri, per deliziare gli occhi dei presenti».

    Si vedono le foglie di un albero, in lontananza, scuotersi in modo disordinato. Non può trattarsi di vili briganti pronti per un’imboscata, se così fosse, si svelerebbero molto sprovveduti poiché fanno più chiasso di un cinghiale inferocito. Si tratta sicuramente di un animale che è caduto in qualche trappola di cacciatori. Ci dirigiamo là, dove lo sguardo ci indica, si iniziano a scorgere dei colori che nulla hanno a che spartire con il fogliame, pare proprio uno strana fiera.

    «Mooouuuooo…, hoourrff».

    «Avete mai udito versi tanto selvaggi? Dipingono nella mia mente le sembianze di animali mai visti, raccontati con astuzia nelle fiabe serali ai pì e alle pine, per convincerli a dormire».

    «Nator, a voi dico che in certe notti, affamato, assetato e stanco, non ho disdegnato di accettare, mio malgrado, l’ospitalità di qualche contadino, abile nel preparare dell’odoroso vino, né ho trascurato il richiamo di buon sidro di certe locande».

    «Dunque cosa dovrei capire da questo vostro ossuto racconto?».

    «Se non aveste tutta questa fretta, lasciandomi continuare, capireste cosa intendo che vi entri nelle orecchie».

    «Ebbene, nelle occasioni che vi narro, è capitato che alcuni uomini non conoscendo il vecchio adagio in vino veritas, esagerassero nel concedersi ai piaceri di Bacco, diventando euforici e ridanciani, raccontando avventure spesso frutto della loro fantasia, oppure segreti che avrebbero fatto meglio a custodire così come avevano promesso. Quelli che esageravano troppo dovevano correre a cercare un secchio per non vomitarsi sui calzari, e le loro urla erano simili a quelle che odo provenire da quell’albero».

    Ora che siamo a pochi passi dalla curiosa creatura che si dimena, scorgiamo che una rete di robuste corde la trattiene sollevata da terra, can de diceri è un uomo che tenta di divincolarsi. Ci fermiamo proprio accanto a questo sacco dondolante, osservandolo increduli e incuriositi. Non esitiamo oltre.

    «Ehi voi, chi siete, come avete fatto a finire nel posto in cui deve stare un animale?».

    Quest’uomo non profferisce parola, né rantola altri

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