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Chi gioca con me?
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E-book128 pagine1 ora

Chi gioca con me?

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Info su questo ebook

Questo libro è figlio dell’esperienza genitoriale dell’Autrice: è nato e cresciuto insieme ai suoi due figli che le hanno insegnato a guardare il mondo con occhi vivaci, curiosi e divertenti. La loro saggezza acerba e inconsapevole, le loro improbabili deduzioni e le loro domande semplicemente difficili l’hanno condotta inevitabilmente ad annotare le tappe di questo meraviglioso viaggio.
Ventisei racconti brevi in cui i bambini sono protagonisti assoluti perché anche laddove non sono presenti, aleggia evidente il loro sguardo, il loro punto di vista inconsueto e sorprendente, il loro creativo modo di pensare. I racconti, dietro la loro apparente immediatezza, caratterizzati da uno stile lineare ed elegante, contengono spunti di riflessione per giovani e meno giovani.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2020
ISBN9788832927399
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    Anteprima del libro

    Chi gioca con me? - Beatrice Fonte

    Zibaldone

    Introduzione

    Questo libro è nato e cresciuto insieme ai miei due figli che mi hanno insegnato a guardare il mondo con occhi vivaci, curiosi e divertiti.

    La loro saggezza acerba e inconsapevole, le loro improbabili deduzioni e le loro domande semplicemente difficili mi hanno portata ad annotare le tappe di questo meraviglioso viaggio che si è arricchito con il risveglio di quella Beatrice bambina che abita ancora in me.

    I protagonisti sono i bambini, le loro idee e la loro visione del mondo e delle cose. L’ambientazione è collocata in un presente che potrebbe essere dovunque e che oscilla, come un pendolo, sull’asse del tempo, senza una cronologia precisa. Del resto le idee e i sentimenti dei bambini non hanno storia e non hanno tempo, sono sempre e per sempre, sono per i bambini ma anche per gli adulti.

    Ventisei brevi componimenti che ruotano attorno al grande circuito della vita: fiabe e racconti di quotidiana realtà si alternano in un’altalena di suggestioni che muovono i pensieri, stuzzicano le corde del cuore e attivano la memoria dell’infanzia.

    E anche laddove i bambini non sono presenti, aleggia evidente il loro sguardo, il loro punto di vista inconsueto e sorprendente, il loro creativo modo di pensare.

    Molti sono i dialoghi che realizzano il tipico procedere del pensiero infantile: per piccoli passi, poco a poco, da una domanda all’altra, attraverso un dedalo di viuzze. Il loro modo di parlare non è volutamente riprodotto o imitato. Quello che si cerca di realizzare è il loro punto di vista, mettendosi idealmente accanto a loro, senza sostituirli: chi scrive sono io, un adulto, che non vuole mascherare la propria identità.

    Beatrice Fonte

    Prima Parte

    Vita quotidiana

    Se fossi

    Se fossi un pesce

    nuoterei a pelo d’acqua per vedere il cielo.

    Se fossi un uccello

    mi poserei su un prato per sentire il solletico dell’erba.

    Se fossi un sasso

    aspetterei silenzioso che una mano mi lanci lontano.

    Se fossi un fiore

    appassirei per chinarmi a ringraziare della vita le mie radici.

    Se fossi un suono

    mi metterei a parlare con il silenzio.

    Se fossi un uomo

    vorrei continuare ad avere sei anni.

    Ma sono un bambino:

    voglio crescere,

    voglio giocare,

    voglio sapere,

    voglio conoscere,

    voglio vedere,

    voglio piangere,

    voglio essere felice,

    come il pesce che nuota nel mare,

    come l’uccello che vola nel cielo,

    come il sasso che dorme sulla terra,

    come il fiore che colora il prato,

    come il suono che squarcia il silenzio,

    come l’uomo che rimane bambino.

    Mi sono obbligato

    Ricordo il primo giorno di scuola come la mattinata più triste della mia vita.

    C’era tanta confusione, troppa gente e tutti stavano ammassati nella mia nuova classe: era un’aula che mi sembrava grandissima, con tante finestre e un’enorme porta a vetri di mille colori; alle pareti c’erano tanti disegni con numeri, lettere e animali.

    Mi fissai a guardare una grossa lettera a forma di uovo con accanto il mio animale preferito, una bellissima orca bianca e nera; ero così concentrato che per un attimo mi sembrò che non ci fosse nessuno e mi vidi già in mezzo al mare, a cavallo delle onde.

    Mi avevano messo nell’ultimo banco, proprio in fondo; avevo un bimbo da un lato e una bimba dall’altro, non li avevo mai visti prima.

    Mamma mi aveva accompagnato in classe e lì avevamo trovato un sacco di gente: tanti genitori e tanti nonni e, confuse tra questi, ci dovevano essere anche le mie due nuove maestre.

    Ricordo solo che, seduto nel banchino, vedevo tante teste e tante gambe che non mi interessavano perché io cercavo solo gli occhi bruni della mia mamma; mi sentivo perso, triste, e appena li ritrovavo ero felice finché non mi veniva da pensare che dopo poco sarebbe andata via.

    Guardavo mamma e lei guardava me, e mi sorrideva e allora mi veniva quasi da piangere ma cercavo di resistere… ormai ero grande e piangere era una cosa da femminucce… non potevo ma ne avrei avuta tanta voglia.

    Mi obbligai a non piangere. Sono molto bravo a darmi ordini severi e decisi; sono più obbediente con me stesso che con mamma e papà.

    Mi sentivo come in una nuvola, solo in mezzo a tanta gente: non capivo nulla, non vedevo nulla, c’era solo mamma che mi stava salutando.

    Il bacio che mi soffiò forte lo sento ancora: caldo e morbido mi arrivò dritto sulla guancia e mi dette coraggio per tutta la giornata.

    Ecco, adesso tutti erano andati via, tutti i grandi dico, tranne le maestre.

    Finalmente potevo osservare i miei compagni, vecchi e nuovi; potevo guardare l’aula, la luce, sentire le voci e… continuare a pensare a mamma.

    La mattinata passò veloce; disegnavamo e ricopiavamo dalla lavagna… tutto facile, tutto divertente… abbastanza.

    Forse perché era il primo giorno, ma io la scuola me la immaginavo più noiosa. A un certo punto la mia compagna di banco, con due occhioni dolci, si girò verso di me e mi disse: Sono rimasta indietro. Mi fai copiare?

    Non sapevo cosa rispondere… mamma mi aveva sempre detto di non copiare, di fare da solo anche a costo di sbagliare. Chissà se la regola valeva anche in questo caso, proprio il primo giorno di scuola? Prima che riuscissi a decidermi la bimba continuò: Se mi fai copiare ti do il cioccolato…

    Beh, adesso le cose cambiavano: copiare diventava una cosa buona da mangiare, e forse anche da far fare; quindi, obbediente come sempre, mi obbligai a questo dolce ordine.

    Peccato che il premio non arrivò mai, né quel giorno né i giorni seguenti; eppure io ero stato perfetto e lei aveva copiato tutta la mattina, finché la maestra, un po’ arrabbiata, non l’aveva spostata al muro. Tra me e lei rimase un banco vuoto… e una promessa vera come le bugie di Pinocchio. Ma Martina, si chiamava così, era molto elastica e si allungava come un gommino per continuare a sbirciare.

    Fu allora che ebbi la prima lezione della mia vita: le femmine sono sempre e comunque più furbe dei maschi; quindi è bene non fidarsi; stai attento! quando ti obblighi a fare una cosa: l’obbedienza va bene ma non deve essere cieca… e se non profuma di cioccolato è meglio.

    All’uscita il sorriso di mamma e papà mi fece sentire forte e sicuro; ero contento di avercela fatta senza nemmeno una lacrima.

    Mamma era molto curiosa e mi chiese subito: Allora, cosa ha combinato oggi il mio ometto?

    Mi concentrai un attimo per riunire le idee; era difficile dire qualcosa su quella mattinata così piena di novità e di emozioni: Abbiamo disegnato, abbiamo colorato, poi ho pensato forte forte a te, abbiamo fatto merenda e siamo usciti.

    Mia madre mi guardò con due occhi che non scorderò mai, lucidi, profondi, mi sembrò di caderci dentro; poi mi abbracciò e mi sussurrò: Sei unico!

    Il cioccolato che mangiai insieme a lei aveva il sapore di un premio sincero, che niente chiede e tutto dà.

    Da grande

    Un giorno mio figlio mi disse: Da grande farò il calciatore!

    Questa lapidaria affermazione mi cadde sulla testa come una tegola. No! Non potevo accettare che anche lui fosse legato, come la quasi totalità dei bambini di sesso maschile, a questo trito e ritrito luogo comune; mi dava l’orticaria pensare che i suoi sogni fossero già bene impacchettati e gli proposi immediatamente una soluzione alternativa: Beh, dai Fabio, ma non è meglio che tu faccia l’insegnante di karate?

    La risposta fu immediata, secca e risoluta; la tegola di prima si trasformò in un sacco di cemento: Lo farò quando vado in pensione, disse convinto.

    Ma quando andrai in pensione sarai troppo vecchio, non sarai più capace di muoverti con agilità e scioltezza.

    Giocai così la mia ultima carta in questo corpo a corpo in cui già mi vedevo sconfitta.

    No, perché a quarant’anni mi pensiono dal calcio e vado a fare l’insegnante di karate. Tu hai quarant’anni mamma e sei ancora agile, no?

    Ecco il kappaò finale che già avevo presentito, la saggezza di un genitore dovrebbe essere quella di tacere, tacere sempre ma io non lo imparerò mai.

    Quando ti infili nelle viuzze dei discorsi dei bambini finisci sempre per perdere l’orientamento ed è tuo figlio che ti fa ritrovare la strada… ma è mai possibile?!

    Che genio, risposi fingendo un’espressione di superiore autorità, trovi sempre una soluzione tu! Bravo, hai le idee molto chiare!

    Poi cercai astutamente di cambiare argomento visto che, sul precedente, non avevo

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