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La regola dell'eccesso
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La regola dell'eccesso
E-book321 pagine1.173 ore

La regola dell'eccesso

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Info su questo ebook

A quindici anni Renato contrabbanda sigarette sul mare di Napoli, a diciotto percorre l’Atlantico sulle navi cargo, a venticinque precipita con un ultraleggero in un’afosa domenica di luglio. Sopravvive, ma l’anima è incrinata. Fa una montagna di quattrini e si cura con cocaina, eroina e rhum. Quando le “medicine” non funzionano, scappa.

Renato Tormenta, campano, è viaggiatore e narratore. Questo libro è nato dalle esperienze di una vita segnata dalla eccessi.
Susanna De Ciechi è giornalista e ghost writer e vive e lavora a Milano. Ha al suo attivo autobiografie, biografie e memoir.
La regola dell’eccesso è il loro libro d’esordio, la stesura di una seconda storia è già avviata.

LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2015
ISBN9781311003775
La regola dell'eccesso
Autore

Susanna De Ciechi

Susanna De Ciechi, scrittrice e ghost writer (www.iltuoghostwriter.it) con alle spalle un’esperienza di oltre vent’anni come giornalista freelance, si racconta così: “Passo tutto il mio tempo tra i libri, quelli che leggo e quelli che scrivo, con penna, matita e computer sempre a portata di mano. Vivo e lavoro tra Milano e la Valle d’Intelvi, sopra Como, dove trascorro molto tempo in compagnia di Tina, il mio cane fantasia. Scrivere è il mio mestiere. Con il ghostwriting trasformo in un libro le storie che altri mi raccontano. Solo quelle che mi piacciono. Ho al mio attivo autobiografie, biografie, memoir e messaggi nella bottiglia destinati a essere recapitati a persone speciali. Di recente mi è capitato di “svelarmi” e il mio nome è apparso sulle copertina di alcuni libri: La regola dell’eccesso (2015), Tessa e basta (2015), La bambina con il fucile (2016) e Il mio ultimo anno a New York (2017), scritti come ghost writer e basati su storie vere. A questi si aggiunge Il paese dei tarocchi (2016) un romanzo collettivo scritto con il gruppo de Gli Spiumati, di cui faccio parte e alcune raccolte di racconti. Scrivere narrativa è sempre stato tra le mie ambizioni. A un certo punto della mia vita ho sentito che era arrivato il momento giusto per strambare. Ho tirato fuori il progetto che avevo accantonato da troppo tempo e ho cominciato a scrivere storie basate su vicende reali, romanzandole. Sembra facile, detto così. In mezzo c’è stata la presa d’atto che la scrittura giornalistica non fosse sufficiente per scrivere narrativa a livello professionale, quindi ho dovuto imparare il mestiere dello scrittore e inventarmi il mio modo di essere ghost writer. Alcuni miei narratori (le persone che mi raccontano oralmente le storie che scrivo) sostengono che il mio ruolo sia a metà tra quello del confessore e l’altro, dell’analista. Più semplicemente, io sono una ghost writer perché questa attività mi permette di conoscere persone interessanti, di entrare nelle loro vite e di condividere narrazioni straordinarie attraverso la scrittura. Per me è il mestiere più bello del mondo”.

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    Anteprima del libro

    La regola dell'eccesso - Susanna De Ciechi

    Copertina

    Renato Tormenta & Susanna De Ciechi

    La regola dell’eccesso

    Romanzo autobiografico

    Proprietà letteraria riservata

    © 2015 – Renato Tormenta & Susanna De Ciechi

    email: susanna.deciechi@gmail.com

    tormenta.deciechi@gmail.com

    Tutti i diritti di riproduzione, adattamento, rielaborazione del testo in qualsiasi forma sono riservati per tutti i Paesi. Ogni violazione sarà perseguita penalmente ai sensi di legge.

    ISBN: 9781311003775

    Cover art: Manuela Paric’

    http://fiumegiallo.blogspot.it/

    Editing e impaginazione: Serena Zonca

    www.autopubblicarsi.it

    Nota

    Questo è un romanzo autobiografico e, in quanto tale, l'idea attorno a cui ruota prende spunto da alcuni fatti realmente accaduti che sono stati tuttavia trasfigurati e romanzati. Pertanto, i personaggi, le loro caratteristiche e le vicende che li coinvolgono sono unicamente frutto della creatività degli autori e ogni riferimento a nomi, persone, luoghi, situazioni eventualmente esistenti è puramente casuale.

    Smashwords Edition

    Alle mie donne

    Aixian  Aixian e  Lejing  Lejing

    R.T.

    Amo ferocemente, disperatamente la vita. E credo che questa ferocia, questa disperazione mi porteranno alla fine. Amo il sole, l’erba, la gioventù. L’amore per la vita è divenuto per me un vizio più micidiale della cocaina. Io divoro la mia esistenza con un appetito insaziabile. Come finirà tutto ciò? Lo ignoro.

    (Pier Paolo Pasolini, Il cinema in forma di poesia, 1979)

    Prologo

    Le corde e i nodi

    «Cedere di nuovo, una ricaduta. Un fallimento definitivo e crudele.»

    «Non accadrà. Non a te.»

    «Vorrebbe dire buttare via quello che ho costruito in questi anni. Via la bambina. Via il lavoro. Via tutto. Via me!»

    «Tu sei forte. Vinci ogni giorno.»

    «Sono stato un marinaio. Le corde e i nodi, ecco cosa mi resterebbe. Ci ho già pensato, una cosa veloce e pulita.»

    «…»

    «Ho sentito di uno che ha ceduto dopo diciassette lunghi anni. Si è annegato nel fiume. Io non potrei. Neanche tagliarmi i polsi o soffocarmi o spararmi. Non ce la farei con niente altro, solo le corde e i nodi.»

    «Non accadrà.»

    «TU NON LO SAI. Nessuno lo può sapere. Neanch’io.»

    «Tu non vuoi che accada.»

    «Io ci penso ogni giorno, combatto ogni giorno. Sono stremato. Passo il tempo a riempire le ore di cose, impegni, pensieri che portano altrove. Lo stesso, arrivo sempre lì.»

    «Ma poi dici no.»

    «Finché riesco a dire no. Non lo so, non so niente. Nessuno sa quando cederà.»

    «Tu non cederai, lo so.»

    «Una volta ci sono stato vicino. Credevo di averle perse, lei e la bambina, a Shanghai. Ho chiamato l’aeroporto, i parenti che le aspettavano, poi il Consolato. Le ho cercate come un pazzo per quattro ore. Un’eternità. Ero qui, solo, e loro là. Chissà dove. Non potevo fare niente se non aspettare. Volevo bere. Ho cercato in giro, inutilmente. Sapevo che la casa era pulita. Credevo di morire. È squillato il telefono. Erano loro. Mi sono calmato, ma non la voglia. Quella è rimasta. Allora ho chiuso tutte le imposte e ho fatto notte. Ho preso un sonnifero e sono andato a dormire. Poi è passata. Quella volta.»

    «Non ci pensare.»

    «Non posso. Se non è accaduto è solo perché ero qui dove non c’è niente, niente.»

    «Avresti potuto uscire, ma non l’hai fatto.»

    «Non l’ho fatto, ma avrei voluto.»

    «Sei rimasto qui, hai scelto di dormire. Una buona scelta.»

    «Anche dormire per sempre. Se non ce la fai.»

    «Lascia stare.»

    «Vivo sempre sul filo. Ogni giorno, anche il più indaffarato, c’è qualcosa o qualcuno che mi ricorda cos’ero e cosa sono.»

    «Ora sei cambiato.»

    «No, è sempre lo stesso. Un’illusione. Non sono cambiato, devo sempre lottare. Sono sfinito.»

    «Non parlare.»

    «TU NON SAI. Nessuno sa cosa mi porto dentro. Vorrei morire, ma più di tutto vorrei vivere.»

    «Lo stai facendo.»

    «Forse. Non so se ci sto riuscendo davvero.»

    «Sì, sì! Ce la fai e ce la farai.»

    «Anche adesso ci penso. Più ne parlo e più ci penso.»

    «Taci. Non pensare.»

    «Non posso. Quando arriva il momento, il desiderio ti prende. È forte, quasi più di me.»

    «Tu non cedi.»

    «Fino a quando?»

    «Tu non cedi.»

    «Io ci provo, non lo so. È un’onda che ti spazza tutto dentro. Resti vuoto, un vuoto da riempire.»

    «Mettici altre cose.»

    «La bambina.»

    «Sì. Lei ti basta.»

    «Sì. Per lei devo resistere, ancora una volta.»

    «Ti sei quietato?»

    «Sta calando. La bestia si sta assopendo.»

    «Bene. Vai a dormire.»

    «Sì. Farò così. Passami le corde, le terrò sotto il cuscino.»

    1

    Renato, ’o scugnizzo

    Torre del Greco, 1972.

    La cinghia di pelle sferzò per la terza volta la schiena del ragazzino che, mezzo nudo e incurvato, teneva le mani ad artiglio sulla spalliera del divano marrone. Renato stringeva i denti per non gridare, in attesa che la punizione finisse. Lo stesso, non riuscì a trattenere un grugnito, per il padre l’indizio di una resa, che non bastò a placare la sua rabbia. Di lì a un secondo arrivarono un’altra curriata e poi un’altra ancora e poi basta.

    Cinque, me ne ha tirate cinque. Era la prima volta che suo padre lo picchiava con la cinghia.

    Girò appena la testa per guardare nello specchio alle sue spalle, sopra la credenza. Incontrò lo sguardo del papà, rabbioso e amareggiato. Poi vide la propria schiena. Pareva la cartina geografica del tracciato delle Ferrovie dello Stato completa di incroci e di scambi. Alzò gli occhi per cercare di nuovo quelli del padre, ma lui se n’era andato.

    Nunzio era sfinito quanto il ragazzino. Non gli piaceva alzare le mani sui figli; fino a quel giorno aveva dato solo qualche schiaffo ogni tanto, quando serviva. Prima di uscire di casa si affacciò all’uscio della cucina dove si era ritirata sua moglie per non sentire i lamenti del figlio piccolo, quello che amava di più.

    «Grazia, va a vede comm sta.»

    Nunzio andò fuori senza aggiungere altro.

    Sostò un momento nella piazza, accese una sigaretta guardando il mare poi imboccò il vicolo a destra ad andatura lenta. Forse rifletteva su come fare con questo figlio, il più irrequieto dei cinque. Giovanni, il maggiore, diciassette anni, sei più di Renato, era generoso, quadrato; Costanza, di un anno minore di Giovanni, era una brava figlia, studiava da maestra ed era già fidanzata; perfino Domenico e Vincenzo, che a quindici e tredici anni stavano nell’età in cui è normale essere un po’ ribelli, non erano niente al confronto di Renato, o‘ principino, undici anni e già un teppistello.

    Questa volta c’era stata la storia del furto di biciclette, legata al sospetto che il ragazzino e i suoi compari fossero implicati nella sparizione dei soldi del colpo alla villa in collina di cui avevano parlato perfino i giornali.

    I Carabinieri avevano chiesto a Nunzio di presentarsi in caserma con suo figlio per un colloquio. Lui s’era sentito morire per la vergogna e aveva deciso che doveva fare qualcosa, anche se poi Renato non c’entrava nella storia del furto in collina.

    E così, giù con le cinghiate.

    Nunzio girò a destra in via Roma e raggiunse la bottega che gestiva con il fratello Gaetano. Prima era stata del padre, prima ancora del nonno, un vero maestro nella lavorazione del corallo.

    Dalla porta aperta uscivano le note di Tu si ’na cosa grande.

    «Gaetà, sto accà» disse.

    L’altro sollevò la mano in segno di risposta e continuò a lavorare accompagnando la voce di Domenico Modugno.

    Nunzio s’accomodò al banco e prese a incidere un grosso cammeo, già in gran parte abbozzato, destinato a diventare un medaglione. Il lavoro era a buon punto. Scelse i bulini a punta stretta per definire i dettagli della figura. Lavorava concentrato, la mente vuota da altri problemi finché, lasciati cadere i bulini più sottili, adatti alla rifinitura, intuì nel profilo che aveva disegnato quello del figlio Renato.

    A undici anni non sono più u bell’e mammà pensava Renato mentre Grazia, sua madre, lavate le ferite gli passava una pomata sulla schiena. Ogni tanto, per consolarlo, lo baciava sulla nuca, alla base dei capelli.

    «Poveriello Renato mio, cumm t’a cumbinat!»

    «Nun me importa. Nun sento niente.»

    «Ma ca dice anema mia, statte tranquillo. Saje comm’è papà. Tu sempe int’e guai. Nu fa cussì.»

    Coccolava il bambino quasi con timidezza, temendo che il ragazzo che era già in lui si sottraesse alle sue tenerezze. Si vedeva che l’ansia per quel figlio arrivato a sorpresa la consumava. Sapeva che era diverso dagli altri. Il sentimento che provava per tutti i suoi figli era luminoso e tranquillo. Allo stesso modo amava Renato, ma lo temeva. Nei suoi sogni agitati ce n’era uno ricorrente, che lei raccontava spesso e che la lasciava stremata: il bambino correva sprofondando le scarpe in un fango bruciato. Lei lo inseguiva e, da lontano, lo vedeva immobile, in bilico sull’orlo della bocca del vulcano. Qui si svegliava.

    «Ma pecché nu’ metti ’a capa a posto?» Grazia sussurrò la preghiera forse più a se stessa che a Renato. Intanto lui si lasciava fare, offeso dall’inaudito sfogo paterno. Ricacciava indietro le lacrime e taceva.

    Sul a me ’e curriate e maje a’ frati mie, loro so perfetti. Song meglio ’e cumpagn miei ca nun me votano ’a faccia e già pensava all’appuntamento preso per la serata con quelli della cumpagnia. Nonostante i divieti, non sarebbe mancato.

    Renato aveva aperto gli occhi in un paese campano incassato tra il Vesuvio e il Golfo di Napoli che, negli anni Settanta, si era guadagnato il soprannome di Piccola Amsterdam in ragione dello spaccio di droga per cui già allora era famoso. La modernità era fatta di un reticolo di strade larghe e diritte che univano la parte antica, il passato, la storia, con il nuovo, fitto di case e palazzoni ammassati.

    Qui Renato viveva da scugnizzo felice, un po’ ingenuo e già un po’ disilluso, in cerca dei primi guai. Faceva compagnia e sconquassi con altri pari suoi e vantava l’amicizia di qualche ragazzo più grande e sgamato. Così entrò nell’adolescenza con incoscienza e presunzione, dividendo il tempo tra i vicoli e la marina.

    La scuola non gli piaceva e lui non piaceva alla scuola, per questo il suo percorso di studi fu lungo e accidentato.

    Non ci furono repliche alle cinghiate, non perché dopo quella volta non le avesse più meritate, piuttosto il padre non ebbe più cuore di infierire in modo così violento. Ma lo teneva d’occhio.

    «Grazia, passavo in piazza, ho visto Renato. Stava perdend tiemp cu chelli fetent comparielli.» Nunzio fumava camminando avanti e indietro, in attesa della cena. Non sapeva che Renato era nascosto dietro la porta, in ascolto.

    «Ma Nunzio, ca vai a pensare. Sono i soliti amici, bravi guaglioni.»

    «Lo dobbiamo raddrizzare. Basta azzuppà ’o ppane.»

    «Renato è u bravo guaglione» insisteva la mamma.

    «È un fetente, sempre dentro le imprese sbagliate.»

    «Ci vuole bene e anche ai fratelli.»

    «Quelli lì, i suoi compari, sono nel giro delle auto rubate, dei furti e degli scippi.»

    «Fa’ ’e nu pilo ’na trava.»

    «No, chillo fernesce dentro prima o poi. Dobbiamo toglierlo dalla strada. ’O mando ppe mare.»

    Così nel 1976, a quindici anni, Renato incontrò il suo destino.

    Allora quello del marinaio era il mestiere migliore per qualsiasi ragazzo di lì, dove tutto girava intorno al porto, ai cantieri navali e non c’era molto altro di regolare su cui contare. Per un paio d’anni navigò nel Mediterraneo mettendo insieme esperienze e nuovi Paesi, tra la pesca del corallo e le navi da crociera.

    Ma il mare non bastava a Renato. Quando tornava a terra era ancora più irrequieto e spaccone e curioso e mai sazio di ciò che ancora non poteva vivere dentro confini per lui troppo stretti.

    Guardava le belle auto e le ragazze e gli piaceva recitare la parte dello scafato.

    Iniziò a cercare altre avventure.

    Allora andava forte il contrabbando di sigarette. Entrare nel giro fu facile. Si fece reclutare come scaricatore ed ebbe il primo appuntamento a mezzanotte a un punto d’imbarco privato.

    Per l’occasione non esitò a ingannare i genitori e la sera fissata, era di giugno, uscì in fretta. Come sempre.

    «Ciao papà, ciao mammà, faccio ’o solito giro.» Accompagnò il saluto con un sorriso tirato, illuminato da occhi più brillanti del solito per l’eccitazione della prova imminente. Dietro la schiena nascondeva una cerata.

    Raggiunse il luogo d’imbarco in anticipo. Ad attenderlo c’erano alcuni ragazzi poco più grandi di lui, le presentazioni furono limitate ai soli nomi. Restarono lì, fumando e tirando calci ai ciottoli levigati dall’acqua, ciascuno avviluppato nel proprio giubbino, il cappuccio ben tirato sopra la fronte, i sensi all’erta.

    Dopo una mezz’ora iniziarono a intravedere alcune sagome che avanzavano lungo la spiaggia. Giunse per primo un uomo basso, tarchiato, vestito di nero. Si piantò davanti al gruppo a braccia conserte, le gambe leggermente divaricate. Squadrò i guaglioni uno a uno senza fretta, poi abbaiò poche parole.

    «Tu, tu e tu cu me.»

    Renato e altri due, Totò e Salvo, lo seguirono sul pontile e saltarono dietro a lui nel motoscafo più vicino, blu scuro come gli altri ormeggiati lì accanto, quasi invisibili nel mare buio senza stelle né luna.

    Salparono e subito lo scafista diede gas. La barca planava sopra l’acqua a forte velocità, poteva arrivare a cinquanta nodi, e non ci mise molto a raggiungere il limite delle acque territoriali, dove stazionava la nave madre. Dopo un veloce scambio di segnali, il motoscafo accostò e i quattro iniziarono a recuperare le casse di sigarette. Lavoravano tutti di buona lena per fare in fretta. Ogni tanto una battuta e una risata aiutavano ad allentare la tensione. Il mare intorno a loro, calmo e nero, era deserto.

    «Sistem cà e llà, amma bilancià ’o carico.» Lo scafista usava mani e braccia come pali segnaletici e, a intervalli, parlava a quelli sulla nave per rallentare o sveltire il lavoro. Una volta tornati a terra, le casse furono trasferite sulla spiaggia e poi sulle auto in attesa.

    Quella prima volta, i tre ragazzi e lo scafista non scambiarono più di dieci parole. Renato ebbe un buon guadagno, cinquecento lire a cassa. Ne aveva trasportate quasi quaranta.

    «Quanti soldi! Volete una sigaretta?» allungò il pacchetto di Marlboro a Totò e Salvo. «È stato facile.»

    La spiaggia era di nuovo vuota, il rumore della risacca favoriva la quiete dopo la concitazione delle ultime ore.

    «Sì, perché è andato tutto ok, ma se arrivava ’a Finanza...» Totò si lasciò cadere a terra con le gambe incrociate, la sigaretta pendula all’angolo della bocca.

    Mancava poco all’alba, faceva freddo e i loro abiti erano umidi, ma nessuno dei tre aveva voglia di tornare a casa.

    Anche Salvo si accomodò e lanciò indietro le Marlboro.

    «Tieni le tue sigarette. Assettate. Ti offro io il fumo giusto.» Tirò fuori uno spinello, l’accese, tirò una boccata lunga e profonda e lo passò a Renato che fece altrettanto e poi rivolse lo sguardo a Totò.

    «No, chella schifezz nun a voglia, me fa venire mal ’e capa.»

    Salvo scoppiò in una risata roca e catarrosa. «Non ci fare caso, lui schifa l’erba, gli piace altra robba. Ma tu volevi sapere cosa succede se arriva ’a Finanza? A noi non un granché. Siamo tutti minorenni, di solito ci riempiono di botte e ci lasciano andare. Nessuna denuncia.»

    «Mazzate assai?» domandò Renato.

    «Dipende» intervenne Totò sogghignando. «Quant song n’incazzati e si ’a mogliera c’ha rata, si pò sopportà.»

    «Sanno pure loro ca c’amm arrangià» aggiunse Salvo. «Ca cà nun ce sta fatica e ’e sigarett song ’o meno dei mali. Amm ’a mangià tutti quanti. Ca nisciun è figli’e papà.»

    «È ’a legge in mezza ’a via. Saje cosa dice?» Totò, serio.

    «Ca dice?» chiese Renato

    Totò si alzò da terra e per un momento fissò l’amico in silenzio, con aria solenne. Poi, come volesse impartire un comandamento, sibilò: «O isso, o io».

    Il contrabbando di sigarette non piaceva granché a Renato perché era faticoso e lui per vocazione era uno sfaticato, però ci fu dentro parecchie altre volte. Capitò che gli chiedessero di guidare l’auto fino al punto d’incontro per lo smistamento del carico. Non si tirò indietro, né avrebbe potuto farlo. Si trattava di un extra ben remunerato, ma non privo di pericoli. Se ti imbattevi nella Guardia di Finanza, non rischiavi il conflitto a fuoco, allora non usava, ma magari ti costringevano dentro un percorso obbligato o ti sbarravano la strada e rischiavi di sbattere con l’auto e di farti anche male. E in questo caso arrivava pure la denuncia.

    Questa fu la cornice dei giochi di Renato fino alla Festa dei quattro altari del 1979. Intorno a lui crescevano la miseria, la violenza e la corruzione, Napoli pareva sprofondare.

    Nello stesso periodo, la bottega di Nunzio e Gaetano fu oggetto di una rapina organizzata da una banda di balordi. Lo zio di Renato restò gravemente ferito. Le vendite erano già in crisi e tirava una brutta aria.

    Dopo tanti anni di attività, Nunzio decise che per tutti loro era tempo di cambiare.

    Giovanni, il figlio più grande, aveva assunto l’incarico di ufficiale di macchina su un mercantile in partenza alla fine di ottobre da Brest, in Bretagna.

    Fu deciso che Renato sarebbe partito con lui.

    Aveva diciotto anni.

    2

    Sulle rotaie

    Roma, ottobre 1979.

    Pioveva. La stazione Termini era un mondo colorato avvolto da un velo di umidità.

    Renato teneva dietro al fratello che quasi correva verso la biglietteria per conquistare un posto nella fila già lunga. Giovanni gli affidò la sua sacca e gli fece cenno di aspettare lì accanto.

    ’Ma pesa ’sta sacca, è cchiù grossa da’ mia! Renato confrontava i bagagli, il suo e quello del fratello, preparati per la stessa destinazione, per un viaggio che sarebbe durato sei mesi. Ho lasciato indietro un mucchio di cose. Dovevo dare retta alla mamma.

    Il ricordo della madre gli srotolò nella testa una sfilata di facce: il padre, Costanza con il fidanzato Salvatore, i fratelli, pure Domenico con cui non era mai riuscito ad andare d’accordo. E ancora gli amici del paese, qualcuno era andato a salutarlo alla stazione.

    Ripercorse le vicende famigliari che lo avevano condotto fin lì con un senso di sorpresa. Non c’entravano con lui, eppure gli era toccato cambiare rotta.

    Era successo tutto in fretta. Solo quella mattina stava ancora a casa, seduto in cucina a bere il latte mentre sua madre gli infilava le dita tra i capelli in una carezza già carica di nostalgia, e adesso si trovava a Roma, appena sceso dal diretto in arrivo da Napoli, dopo una breve tratta sul treno locale che dal suo paese l’aveva portato fin lì. Tra poco, lui e Giovanni sarebbero saliti sul Palatino con destinazione Parigi, la Gare de Lyon. Ma quella era solo una tappa intermedia, la meta finale era il Nord Atlantico.

    Giovanni uscì dal tornello e gli fece cenno di raggiungerlo, sventolava i biglietti di sola andata stretti in mano. Renato caricò in spalla le sacche, una per parte, e si mosse verso il fratello. Sbadato, incocciò in una donna. Bella, con gli occhi grandi truccati, sopra un abito corto portava il soprabito slacciato, indossava stivali e aveva la borsa a tracolla con un foulard svolazzante. Non fece in tempo a scusarsi che lei era sparita, ma gli restò a lungo dentro il naso e nella gola il suo profumo. Qualcosa che non aveva mai sentito.

    «Cammina!» Giovanni lo osservava scuotendo la testa. Di certo pensava: È sempe ’o principin.

    Renato intanto fendeva la folla, negli occhi la visione della bella signora. Scansò all’ultimo una coppia di agenti di pattuglia in tenuta antisommossa. Il cane poliziotto strusciò il naso sui suoi pantaloni.

    «Scetate. È tardi!»

    «Come sei incazzoso.» Renato cercava di tenere testa al fratello, ma in realtà un po’ lo temeva. Tra loro c’era poca confidenza. Giovanni, più grande di lui e sempre per mare, conosceva il più piccolo della famiglia sulla base dei guai che aveva combinato. Ed erano tanti.

    Passarono dalle scale mobili alla piattaforma dei treni tra facchini, accattoni, uomini d’affari, gente comune, turisti spaesati, prostitute, tossici e finalmente furono sulla banchina, in tempo per l’annuncio. È in partenza alle 17.43, binario 7, il treno Palatino. Sosta a Torino Porta Nuova dalle 0.29 alle 0.39, arrivo a Parigi previsto per le 9.24 di domani. In tutto una quindicina d’ore.

    C’era ancora qualche minuto da aspettare. Renato volle misurare a passi lunghi il convoglio fino alla motrice. La banchina era popolata di colombi, i gabbiani delle stazioni. Le fasce arancioni e viola dei vagoni si ripetevano come le onde del mare, il tetto grigio ardesia era un cielo che prometteva burrasca e i binari bagnati dalla pioggia erano due strisce infinite che l’avrebbero portato non si sa dove.

    «Dai, vieni su. Mi sono già sistemato.»

    Renato alzò la testa, guardò il fratello che lo chiamava. Aveva spalle forti da marinaio, la faccia larga, gli zigomi pronunciati e gli occhi seri. Obbedì.

    Nel vagone, Giovanni gli aveva riservato il posto migliore, vicino al finestrino, nel senso di marcia del treno che di lì a poco si mosse.

    «Cerca di dormire stanotte. Domani la giornata sarà dura e ti sembrerà non finire mai.»

    Il ragazzo non rispose. Si mise comodo, osservò distratto i compagni di viaggio: uomini dell’età di suo padre che parevano non conoscersi tra loro. Uno leggeva il giornale, l’altro perfino un libro. Forse era un prete, ne aveva l’aspetto se non l’abito, l’ultimo non si capiva, portava gli occhiali da sole di sera, un posto restò vuoto.

    Decise di

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