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Appalti pubblici, in house providing e grandi infrastrutture
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E-book197 pagine2 ore

Appalti pubblici, in house providing e grandi infrastrutture

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Appalti pubblici, in house providing, grandi infrastrutture. Tre temi di grande attualità che non possono che essere contestualizzati in una visione d’insieme.
Gli obiettivi sono sempre gli stessi: razionalizzare la spesa, ridurre i cosi di gestione, formare personale specializzato. Gli interventi normativi non sempre all’altezza.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2015
ISBN9788832409864
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    Anteprima del libro

    Appalti pubblici, in house providing e grandi infrastrutture - Maria Agostina Cabiddu

    1. SALVA, CRESCI, SBLOCCA: L’ITALIA E LE MANOVRE ANTICRISI

    Maria Agostina Cabiddu

    1.1 Un continuo rincorrersi di «riforme»

    Gli slogan elettorali non sempre corrispondono a precise linee di azione: sono dichiarazioni di intenti, promesse, sogni. I cittadini lo sanno e, tuttavia, quando il leader dice che «si cambia verso» i più sono disposti a crederci, perché si credono le cose che si sperano. Ancor di più si è portati a dar credito - almeno finché, riversate le parole in atti normativi e gli atti in fatti, non si è in grado di apprezzarne il reale impatto sull’ordinamento e sui rapporti che ne sono disciplinati - agli slogan appellativi di leggi o decreti: «Salva Italia», «Cresci Italia», «Sblocca Italia», in un continuo rincorrersi di «riforme», che inseguono una società in costante e vorticosa trasformazione, dove anche le leggi e financo le costituzioni, come un qualunque prodotto, hanno tempi sempre più brevi di obsolescenza programmata.

    Posto, infatti, che non solo gli studiosi ma anche il mondo degli imprenditori e della politica sono ormai consapevoli del ruolo determinante svolto dalla legge per indirizzare e promuovere lo sviluppo economico e sociale di un Paese, tuttavia solo quando dalla sfera dei proclami si passa a quella dell’effettività delle regole, gli operatori possono misurarne la capacità di rispondere alle attese, fermo restando che, anche in questo ambito, l’informazione e la conoscenza costituiscono valori economicamente valutabili, sicché le (a)simmetrie informative e la (in)certezza del quadro normativo risultano essi stessi elementi determinanti dei fenomeni che si intendono governare.

    E così, il senso di precarietà e di insicurezza - che trova negli attuali sistemi economici e sociali fortemente competitivi un fertile terreno di coltura - risulta drammaticamente accentuato proprio dall’incertezza, intesa come non univocità del diritto e dalla percezione della sua non effettività, che deprime le aspettative favorevoli di chi osserva le regole, facendo allignare in un confortevole habitat fenomeni di malaffare, clientelismo e corruzione.

    Da qui la necessità di guardare - nel quadro più complessivo della competitività del sistema-Paese - anche a questi temi e di valutare in questa prospettiva la qualità e l’efficacia della legislazione, specie di quella dichiaratamente volta a semplificare, accelerare, modernizzare l’ordinamento e, in particolare, quello specifico ordinamento costituito dall’amministrazione come organizzazione.

    1.2 Un diffuso disagio a spese dei cittadini, delle istituzioni e delle imprese

    Naturalmente, l’auspicato passaggio da un’amministrazione astretta dal formalismo legalistico a una responsabile del conseguimento di risultati utili per la collettività non può considerarsi obiettivo agevole né di breve periodo e, tuttavia, a distanza di quasi due decenni dalle prime ondate riformatrici, il bilancio non è ancora positivo ed è appena il caso di dire, in questa sede, che non tutte le colpe sono ascrivibili all’amministrazione. Il legislatore ne condivide il peso: il numero delle leggi e dei tipi di legge, di varia provenienza, continua ad aumentare, mentre le c.d. semplificazioni diventano esse stesse una selva più intricata di quella che avrebbero dovuto abbattere; deleghe omnibus e vagoni di decreti attuativi, pronti a incagliarsi o a deragliare, si accompagnano a leggi monoarticolo, ma con infiniti comma, incrostati di bis, ter ecc.; annullamenti e abrogazioni espresse o tacite fanno stragi (spesso sommarie), senza troppo preoccuparsi della normativa di risulta e delle eventuali lacune; monitoraggi, verifiche e certificazioni soffocano negli standard, nelle tabelle e nelle statistiche la responsabilità personale dei funzionari; deroga, rinvio, proroga e sanatoria (condono o voluntary disclosure) funzionano da stanze di compensazione, ignorando eguaglianza e certezza.

    Né minori perplessità suscitano, a fronte della sempre crescente mole di liti e ricorsi, interventi sul fronte della giustizia, come la necessaria spinta al processo telematico, cui non si accompagna però l’adeguata dotazione di risorse umane e strumentali o il continuo innalzamento del contributo unificato, di cui si comprendono gli intenti deflattivi ma non si possono condividere gli innegabili effetti di compressione di diritti costituzionalmente tutelati, quali l’accesso al giudice e l’eguale diritto di difendersi in giudizio.

    Il moltiplicarsi e il disordinarsi delle fonti, l’insicurezza dei rapporti interprivati e la crescita della litigiosità strumentale, l’indebolimento di diritti fondamentali che si ritenevano pacificamente acquisiti: tutte espressioni di un diffuso disagio e costi che i cittadini, le istituzioni, i lavoratori e le imprese sono chiamati a pagare quotidianamente.

    D’altra parte, la possibilità di inscrivere la propria azione in un quadro di stabilità istituzionale e di relazioni affidabili condiziona la fiducia e cioè la stessa volontà di intraprendere e di scommettere sul futuro.

    Da qui, allora, bisognerebbe ripartire per salvare, far crescere, sbloccare il Paese: ricostruire la fiducia, ridare credibilità alle istituzioni e restituire alla legge la pretesa normativa, la capacità cioè di garantire i cittadini attraverso la prevedibilità dei comportamenti e della loro valutazione.

    1.3 Ricostruire la fiducia nelle istituzioni per rilanciare l'economia del Paese

    Certezza del diritto e fiducia sono insomma le architravi su cui deve poggiare un sistema impegnato a ridurre un gigantesco debito pubblico e nel contempo bisognoso di rilanciare gli investimenti e attrarne dall’estero.

    Quanto detto, aiuta forse a capire perché, nonostante il nostro Paese negli ultimi venti anni sia stato, sul primo fronte, quello più virtuoso in Europa, realizzando avanzi di bilancio in media pari al 2,7 % annui – a fronte dello 0,7 % della Germania e del disavanzo francese – lo sblocco sia di là da venire. Non basta, infatti, ridurre la spesa, come prevalentemente è stato fatto in questi anni in Italia, per mettere a posto i conti[1]; né – tanto meno – si può continuare all’infinito con le operazioni straordinarie: privatizzazioni, cartolarizzazioni di crediti, alienazioni di immobili e di beni pubblici; occorre, di più, come ormai tutti dicono, stimolare la crescita, facendo attenzione che, al procedere dell’armata (governo/parlamento), si faccia seguire – possibilmente senza continuare a sparargli addosso – l’intendenza (amministrativa/giurisdizionale).

    Che senso ha, infatti – per fare solo tre esempi riguardanti temi cruciali per il rilancio dell’economia: energia, appalti pubblici, legalità – dire, che la procedura autorizzatoria per la costruzione di una centrale elettrica dura 180 giorni se poi si moltiplicano e confondono le sedi di decisione politico/amministrativa e basta un nulla per inceppare il procedimento, rendendolo del tutto aleatorio e privo di un orizzonte temporale definito? A che vale riversare in un Codice l’immensa congerie di disposizioni della più diversa origine in materia di appalti e contratti pubblici se poi l’obbligo di gara risulta – si pensi all’incertezza definitoria del vincolo di strumentalità tra appalto (impresa) e attività svolta nei c.d. settori speciali – a geometria variabile e a contenzioso sicuro? A che/i giova, nel momento in cui si dovrebbe far fronte senza indugi agli illeciti (evasione e corruzione) che schiacciano i nostri conti pubblici, introdurre nella delega fiscale – in spregio al più elementare principio di eguaglianza – la modica quantità, non solo per l’evasione ma addirittura per la frode?

    Gli articoli che seguono guarderanno dunque alle novità introdotte con i più recenti provvedimenti, con particolare attenzione ad alcuni dei profili che risultano determinanti per attrarre o viceversa respingere gli investimenti.

    È certo, infatti, che l’Europa non ci chiede (più) di immolarci sull’altare del Fiscal Compact e, anzi, gli stessi Trattati europei prevedono clausole di flessibilità per far fronte a condizioni eccezionali – recessione; bassa inflazione o deflazione; cambiamenti climatici e lotta al dissesto idro-geologico – quali sono quelle che caratterizzano l’attuale congiuntura economica.

    Altrettanto certo è che il Governo fa bene a insistere per una lettura non dogmatica del patto di stabilità e tuttavia, se le parole hanno un senso, cambiare verso non significa tornare alle manovre espansive "ancien régime" ma contemperare le opposte esigenze del rigore e della crescita, affiancando alle riforme strutturali finora messe in campo e a loro volta suscettibili, nel breve periodo, di effetti recessivi, politiche capaci di spingere vigorosamente gli investimenti[2].

    Come, posto che i vincoli di bilancio non consentono troppa libertà di movimento per la spesa pubblica? Ricorrendo al partenariato, si dice, cioè andando a prendere i soldi dove sono: fondi di investimento istituzionali, private equity, project bond ecc.

    Il che mette ulteriormente l’accento sulla qualità o bancabilità dei progetti su cui investire e sulle condizioni di attrattività del contesto, dando per scontato che il pubblico possa anche, keinesianamente fare un buco, riempire un buco per ragioni politiche, laddove il privato investe solo se ne ha convenienza. Il che, si badi, anche ammesso sia vero che la decisione politica possa prescindere dalle considerazioni economiche e che le scelte del privato siano sempre e solo economicamente motivate, non esclude – sempre che il pubblico sappia fare la sua parte – risvolti positivi nell’interesse generale, anche al di là del semplice reperimento delle risorse necessarie.

    Innanzitutto, perché il pungolo dell’interesse particolare dovrebbe aiutare a meglio individuare le infrastrutture, materiali e/o immateriali (come innovazione e ricerca scientifica), suscettibili di produrre nuova ricchezza; in secondo luogo, perché, la necessità di attrarre investimenti o, quantomeno di impedirne la fuga, dovrebbe spingere ad abbassare il rischio Paese, iniziando proprio da quelle variabili che hanno a che fare, per quanto riguarda il nostro, con legalità, equità fiscale e certezza del diritto; in terzo luogo (ed è profilo, dal punto di vista teorico, non meno importante) perché l’interesse personale e l’interesse generale possono farsi convergere, non essendo, in via di principio, l’economia slegata dall’etica[3] e, sembra, neanche dall’estetica.


    [1] Su queste dinamiche, v. amplius, F. Bassanini, La riduzione del debito pubblico e il rilancio degli investimenti: il caso italiano, in www.astrid-online.it.

    [2] V., per tutti, A. Quadrio Curzio, Economia oltre la crisi, Brescia, 2012, uno dei principali, e purtroppo a lungo inascoltato, fautori della necessità di misure per la crescita e lo sviluppo.

    [3] Proprio nella Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, il padre riconosciuto dell’economia liberale, il premio Nobel per l’economia Amartya Sen rintraccia, insieme all’analisi della natura degli scambi reciprocamente vantaggiosi anche le radici stoiche della concezione smithiana, tali per cui la prudenza e l’interesse personale non possono andare disgiunti dalla necessità della simpatia, intesa come umanità, giustizia, generosità e spirito pubblico, ovvero, per usare, un termine caro alla nostra Costituzione: solidarietà (A. Sen, Etica ed economia, trad. it., Roma-Bari, 2000, 30 ss.).

    1.4 Il sottile equilibrio tra tutela e valorizzazione del territorio

    Infatti, se l’etica conta per l’economia, oltre che – ça va sans dire – per il diritto, conta (rectius: dovrebbe contare) anche l’estetica, se è vero che paesaggio e ambiente condizionano la qualità della vita delle persone e che il «modello Italia» di tutela del patrimonio culturale e del paesaggio si fonda su un legame forte con il territorio, che affonda le radici nella cultura e nella storia, tanto che in un antico documento «comunale» si impone a chi governa di curare massimamente la bellezza della città, per cagione di diletto e allegrezza ai forestieri, per onore, prosperità e accrescimento della città e dei cittadini (Costituto senese del 1309).

    Dunque, nella Siena del ‘300 – che, trent’anni dopo, Ambrogio Lorenzetti avrebbe rappresentato nel ciclo allegorico del «buon governo» - si aveva piena consapevolezza del fatto che l’arte e la bellezza sono fattori di sviluppo civile e di crescita economica, oltre che motivo di piacere.

    Com’è noto, vi è chi, più di recente, ha teorizzato il contrario e le pratiche diffuse di governo del territorio e di (mala)gestione del patrimonio storico e artistico, troppo spesso immemori della tradizione, sembrano confermare la teoria; in questo contesto, un provvedimento come la L. 11 novembre 2014, n. 164, di conversione, con modificazioni, del D.L. 11 settembre 2014, n. 133, incentrato sulle Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l'emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive potrebbe allora far pensare che, al di là degli slogan, anche stavolta il legislatore, per provare a far ripartire l’economia, si sia affidato alla più classica delle ricette, il mattone, senza troppo preoccuparsi di altri interessi – sostanziali e procedurali[1] - meritevoli di tutela.

    Con il che non si vuole, in alcun modo, stigmatizzare interi

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