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Il Futuro del lavoro
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E-book429 pagine6 ore

Il Futuro del lavoro

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Info su questo ebook

Richard Donkin è considerato uno dei più autorevoli pensatori mondiali sulle tematiche del lavoro e dell'occupazione
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2011
ISBN9788863452976
Il Futuro del lavoro

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    Anteprima del libro

    Il Futuro del lavoro - Richard Donkin

    1. Uno spartiacque nella vita e nel lavoro

    Il cambiamento è una legge della vita e coloro che si ostinano

    a guardare sempre solo al passato o si concentrano unicamente

    sul presente sono certi di perdersi il futuro.

    John f. Kennedy (1917-1963)

    È una giornata soleggiata di fine febbraio 2009 e io sto rimirando il giardino che circonda la mia casa in una periferia urbana del Surrey. Qua e là fanno capolino bucaneve e crochi, l’erica è in fiore e dalla terra cominciano a spuntare i germogli dei tulipani. Come ogni anno a quest’epoca, una cincia azzurra sta svolazzando attorno alla casetta nido che noi abbiamo predisposto.

    La regolarità del ciclo delle stagioni ci dà un senso di rassicurante stabilità: è un preannuncio di cambiamento e allo stesso tempo rappresenta una sequenza familiare nel procedere della vita. Sappiamo con ragionevole approssimazione che cosa sta per arrivare e come gestire i temporali, le bufere e le nevicate o sfruttare nel modo migliore le belle giornate. Ma, a quanto pare, non siamo altrettanto bravi a gestire la nostra vita.

    È come se l’intera umanità si lasciasse trascinare dagli eventi perché il moltiplicarsi dei fattori che richiedono la nostra attenzione non lascia più spazio alla riflessione. Prima di rendercene conto gli anni passano, diventano decenni, e noi ci ritroviamo a guardare indietro con nostalgia, mentre il futuro sembra ispirarci null’altro che timori e senso d’insicurezza.

    Eppure sono i mutati atteggiamenti e consapevolezze di oggi e dell’immediato futuro che, intrecciati con gli eventi, sono destinati a condizionare non soltanto la qualità della vita delle future generazioni, ma la vita stessa del nostro pianeta. Le teorie di James lovelock, autore dell’ipotesi di Gaia, indicano che sarà la vita planetaria a prevalere, con o senza la specie umana, ma noi non possiamo abbandonare al capriccio del caso il futuro del nostro ambiente se vogliamo continuare a farne parte e non diventare gli artefici della nostra stessa distruzione.

    Questo libro parla del lavoro e della direzione che la sua evoluzione ha preso e deve prendere per far fronte a queste grandi sfide. Non credo di esagerare affermando che il modo in cui affrontiamo la questione lavoro è fondamentale per dare un significato e uno scopo alla vita stessa. È difficile trovare una correlazione fra il modo in cui ci viene servito un hamburger e il futuro del pianeta, ma nondimeno le correlazioni esistono e quanto meglio le comprendiamo tanto più saremo pronti a governare il cambiamento, invece di lasciare la nostra vita in balìa di fattori esterni.

    Buona parte del libro, pertanto, è dedicata all’esame delle prove dei cambiamenti in atto, ora attraverso l’analisi di dati, ora mediante aneddoti, racconti, commenti e osservazioni, ora, ancora, utilizzando quella dote che il compianto Sumantra Ghoshal, l’esperto di management, chiamava semplicemente fiuto. E oggi, 21 febbraio 2009, mentre faccio colazione leggendo il giornale, tento di seguire in qualche modo il suggerimento di Ghoshal.

    Un’istantanea del presente

    Non è un giorno per niente speciale. Scorro il giornale al solo scopo di scattare un’istantanea mentale di questa giornata della mia vita. In un Daily Telegraph zeppo di deprimenti notizie finanziarie, un titolo recita: le classi medie svantaggiate nell’accesso all’istruzione superiore. la mia mente, tuttavia, registra soltanto la prima parte della frase: le classi medie sono svantaggiate.

    C’è chi sostiene che le classi sociali – nella misura in cui esistono – più che un portato delle circostanze economiche siano un atteggiamento mentale contrassegnato da centinaia di caratteristiche subliminali: dai nomi che diamo ai nostri figli al codice postale, dagli abiti che indossiamo ai giornali che leggiamo, dal cibo che mangiamo al modo in cui parliamo e alle persone che conosciamo.

    Una delle caratteristiche più evidenti della recessione del 2009 è il crollo di fiducia tra le classi medie. Oggi conosco persone classificabili di classe media che si sentono povere, nonostante la maggior parte di loro abbia un lavoro. Si tratta di una sensazione irrazionale non meno dell’esuberanza che di tanto in tanto s’impossessa dei mercati finanziari. vivere in una tenda logora e sporca, senza acqua potabile e fogne, in uno slum di Mumbai, ecco che cos’è davvero la povertà! Sulla prima pagina del giornale campeggia anche la foto di ayush Mahesh Khedekar, una delle giovani star del film del momento, The Millionaire, mentre sale sull’aereo che lo porterà a Hollywood per la cerimonia di assegnazione dei premi Oscar. Alla pellicola sarà assegnato il premio per il miglior film.

    Nel brutale confronto tra Hollywood e Mumbai, ayush non può non essere profondamente colpito dal proprio cambiamento. Noto che non indossa un rolex. Neanch’io. ayush ha ancora il tempo per giungere a comprarselo, ma per me, a 51 anni, è ormai troppo tardi per considerarmi un uomo di successo, almeno stando a quanto leggo in un articolo nelle pagine di cronaca, che riferisce come il più intimo amico del presidente francese Nicolas Sarkozy, Jacques Séguéla, abbia definito chiunque non possieda un rolex prima dei cinquant’anni un fallito. Sarkozy, in effetti, ne possiede uno, ma gli è stato consigliato di non indossarlo in pubblico.

    La maggior parte delle esperienze ed emozioni che viviamo quotidianamente è relativa al modo in cui ci confrontiamo con diverse definizioni di povertà, ricchezza, successo e insuccesso. In un’altra pagina vedo un articolo sulla protagonista di un reality tv Jade Goody, in procinto di sposarsi nel weekend. Il matrimonio è stato fissato in tutta fretta perché i medici le hanno concesso poche settimane di vita, in seguito a una diagnosi di tumore all’utero in fase avanzata. Morirà quattro settimane più tardi. I giornali hanno qualche difficoltà a portare la vicenda della Goody all’attenzione del grande pubblico, essendo il successo conseguito dall’attrice modesto rispetto agli standard prevalenti, a parte quel po’ di notorietà e di denaro sufficiente a permetterle di acquistarsi un rolex, ammesso che lo desiderasse.

    Alcuni giorni dopo, il Daily Mail, una testata che conosce a fondo il meglio e il peggio del suo pubblico di classe media, in un articolo a firma di Harry Mount contrappose all’atteggiamento positivo dei media nei confronti della Goody una serie di commenti negativi sui blog all’indirizzo di Gail trimble, la studentessa dell’università di Oxford che era riuscita a primeggiare nel popolare quiz televisivo della bbc University Challenge: «Nel 1960, un docente universitario guadagnava come un calciatore del liverpool. Se Gail trimble, che oggi studia per un dottorato in letteratura latina, un giorno diventerà professore, probabilmente non riuscirà a guadagnare in tutta la vita quel che un calciatore di serie a incamera in una stagione. O quel che Jade Goody guadagnava in un weekend».

    Il succo di questa argomentazione è che la percezione sociale del successo è stata distorta. Che concordiamo o meno con tale visione, sembra che quei valori abbiano subito un profondo cambiamento. Negli Stati uniti il fenomeno emerse con evidenza con il trionfo di Forrest Gump, il film del 1994 che poneva in discussione radicate concezioni del successo. una precedente pellicola con Peter Sellers, Oltre il giardino del 1979, aveva messo in ridicolo la fragilità del l’élite del potere e la sua sicurezza di sé; il personaggio interpretato da tom Hanks, invece, suggeriva che chiunque, a prescindere dalla propria appartenenza sociale o livello d’istruzione o persino apparenza fisica, può conquistare il successo nella vita.

    Per quanto non si trattasse di una star, il successo della Goody incarnava quel messaggio, smentendo chi credeva nel conseguimento di alte mete come frutto di duro lavoro, dedizione e talento. l’attrice era l’omologa britannica nella vita reale del giovane milionario indiano del film, a dimostrazione che è possibile riscattarsi da una condizione di svantaggio e conquistare quel tipo di successo che omologa agli Jacques Séguéla. Ma la vicenda della Goody ha avuto il finale tragico della classica favola moralistica: non c’è fama né ricchezza che possa consolare dalla tragedia di una morte prematura.

    Da che mondo è mondo, la gente si appassiona al successo da favola, come quello di Cenerentola, di Pigmalione o dei protagonisti delle storie di Horatio alger, invariabilmente elevati dalle stalle alle stelle. le vicende narrate da alger, tuttavia, sono diverse, in quanto in esse il successo è sempre il premio del duro lavoro.

    I nostri valori sono cambiati al punto che non crediamo più nei meriti del lavoro? Il futuro appartiene ai fannulloni? Il punto è: a un datore di lavoro importano questi interrogativi? Mi pare già di sentire il responsabile delle risorse umane che chiede che c’entra tutto ciò con l’impegno lavorativo del dipendente, con le dinamiche in azione nei luoghi di lavoro, con la teoria della motivazione e con i sistemi retributivi. la risposta è: tutto e niente.

    Gli atteggiamenti sociali e i sistemi di valori sono sempre stati parte integrante del nostro rapporto con il lavoro. È vitale che i datori di lavoro lo capiscano, perché le loro imprese sono fatte dalle persone che vi lavorano. Non solo: il lavoro non può essere considerato un elemento separato dalla vita, qualcosa che si lascia indietro quando usciamo dall’ufficio o dal cancello della fabbrica. E non ha neppure senso andare in cerca di un qualche tipo di equilibrio fra vita e lavoro. la vecchia e consunta idea che vita e lavoro siano due esperienze distinte è falsa. Non smettiamo di vivere quando ci rechiamo al lavoro, né – oggi sempre più spesso – smettiamo di lavorare quando varchiamo la soglia di casa.

    Per migliaia di persone che hanno fatto della casa il proprio ufficio e per altri milioni che vi lavorano almeno a tempo parziale, il lavoro ha assunto una dimensione domestica. a casa mia ho un minuscolo ufficio al piano di sopra, ma in questo momento sto scrivendo sul mio computer portatile al tavolo della cucina, per la sola ragione che mi è venuta voglia di cambiare sedia.

    Anche se una parte del libro sarà dedicata alla discussione degli aspetti tecnici del lavoro, ritengo importante che qualsiasi analisi del modo in cui lavoriamo – o, in questo caso, del modo in cui lavoreremo – debba tener conto anche del modo in cui viviamo. E deve essere basata sulla situazione presente, non deve perdere di vista il contesto e deve considerare come siamo cambiati: non solo come è cambiato il lavoro, ma i nostri atteggiamenti, le nostre idee, le nostre prospettive rispetto a quelli dei nostri genitori.

    Senza queste premesse è impossibile guardare avanti. Questo spiega perché parte del percorso che ha condotto a questo libro è consistito in una ricerca storica, quella che ha dato origine al volume precedente. «Più si riesce a guardare indietro, più avanti si riuscirà a vedere», sentenziò una volta Winston Churchill.

    Una parte consistente della mia indagine storica è consistita in una ricerca di definizioni, procedendo all’indietro fino al primo utensile di cui abbiamo notizia, che risale a quasi tre milioni di anni fa. Quelle antiche asce rinvenute nella Gola di Olduvai in tanzania ci dicono due cose importanti: anzitutto, che fin dal primo momento in cui si ha nozione di attività definibili in termini di lavoro (ancor prima che Homo Sapiens fosse identificabile come specie), il suo ruolo nel dar forma all’evoluzione umana è stato profondo; secondo, che se da un lato il lavoro può essere definito in parte dall’obiettivo della mansione, dall’altro lo è anche dagli strumenti che utilizziamo, che ci aiutano ad ampliare le nostre ambizioni e a stimolare la creatività.

    A volte utensili e tecnologie innescano cambiamenti fondamentali nel modo in cui viviamo. È quel che accadde più di diecimila anni fa, quando le invenzioni che permisero la produzione, l’immagazzinamento e la raffinazione dei cereali avviarono la rivoluzione agricola e il superamento della società di cacciatori e raccoglitori che da migliaia di anni contraddistingueva i nostri antenati.

    Il fenomeno si ripeté nei secoli diciottesimo e diciannovesimo, quando la meccanizzazione basata sull’energia idraulica e del vapore accelerò la transizione alla società industriale, modificando in modo radicale i ritmi della vita lavorativa.

    Nel suo grande romanzo Anna Karenina, lev tolstoj ci raffigura i ritmi dell’attività agricola, con i mietitori in grado di smaltire moli prodigiose di lavoro quando le circostanze lo  imponevano.¹ La società industriale, invece, si concentrò sull’incremento continuo dell’efficienza produttiva in un sistema governato dai flussi di capitale e dai cicli della domanda. adam Smith analizzò e spiegò tale sistema nella sua teoria del capitalismo, ma furono i primi grandi industriali come richard arkwright, andrew Carnegie e Henry ford a ratificarne il trionfo come secondo grande spartiacque nell’evoluzione umana.

    Ritengo che oggi la nostra società stia assistendo a un terzo punto di svolta, non meno profondo e significativo per il nostro modo di vivere e lavorare. Se le cose stanno così, quando ha avuto inizio? forse nel 1956, come ha sostenuto una volta il futurologo alvin toffler, quando, per la prima volta negli Stati uniti, il numero dei colletti bianchi superò quello dei lavoratori manuali?

    Mi chiedo quanti allora notarono questi primi incerti passi di un grande processo di trasformazione del lavoro. I cambiamenti ci arrivano addosso a poco a poco, come la luce dell’alba si fa strada fra le tenebre notturne. Non molto dopo la data indicata da toffler, Peter Drucker cominciò a esplorare il concetto di lavoratori cognitivi o lavoratori della conoscenza ( knowledge workers) nel suo libro del 1959 Riferimenti per il futuro,² quantunque non facesse uso del termine fino al 1969, quando lo mutuò dalla descrizione dell’industria della conoscenza del professore di Princeton fritz Machlup. Questi lavoratori cognitivi – «gente pagata per mettere al lavoro le conoscenze acquisite a scuola piuttosto che per la sua forza fisica o abilità manuale», per citare Drucker – sarebbero diventati i protagonisti della transizione al futuro digitale.

    Nel 1973, nel suo The Coming of Post-Industrial Society,³ il sociologo Daniel Bell suggeriva che il mondo stesse entrando in un’era dell’informazione. all’epoca il personal computer doveva ancora essere inventato, ma gli scienziati e i matematici cominciavano a prendere coscienza del potenziale delle macchine elettroniche: «Dobbiamo pensare a problemi più grandi se vogliamo sfruttarle appieno», dichiarò il pioniere dell’informatica Howard aiken.

    La diffusione dei computer, tuttavia, sarebbe stata determinata non soltanto dalle esigenze di calcolo, ma anche dall’amore per la tecnologia. la gente ama la tecnologia in quanto tale, affascinata dalla visione del cambiamento di cui essa è portatrice: si cominciò ad acquistare automobili ben prima che fosse approntata un’adeguata rete stradale su cui farle correre e gli aeroplani volarono prima che fossero costruiti gli aeroporti. le infrastrutture vengono dopo le invenzioni.

    Ora possiamo vedere chiaramente come il personal computer e relativi sistemi operativi abbiano preceduto l’infrastruttura e i sistemi che ne caratterizzano l’impiego nel ventunesimo secolo. lo strumento inizialmente celebrato per la capacità di immagazzinare dati e la potenza di calcolo, è stato in seguito universalmente adottato per la sua facilità di accesso alle informazioni e di comunicazione a costi modestissimi e su scala mondiale.

    Economicità, ubiquità e disponibilità dell’innovazione sono state le caratteristiche significative delle prime grandi svolte nello svolgimento e nell’organizzazione del lavoro. la ford Modello t ebbe successo perché fu acquistata in grandi numeri da normali famiglie di lavoratori. un’altra caratteristica di queste trasformazioni sociali è che si sovrappongono progressivamente al preesistente: la rivoluzione agricola non spazzò via il nomadismo, proprio come l’industrializzazione non ha interamente soppiantato l’agricoltura. analogamente, la rivoluzione informatica non sostituirà l’industria, pur influenzandola in modo massiccio ed evidente (con la creazione e distribuzione degli ebook, per esempio).

    Anche in futuro avremo bisogno di produrre beni materiali, ma il futuro del lavoro che dobbiamo ancora mettere a fuoco riguarda il modo in cui sfrutteremo, retribuiremo e organizzeremo la produzione e distribuzione di quelli immateriali (tra i quali il principale è la conoscenza), divorati da consumatori affamati che ne pretenderanno porzioni sempre più grandi e maneggevoli.

    Sarà ancora più critico capire come questo nuovo fattore influenzi gli atteggiamenti nei confronti del lavoro e della retribuzione. Drucker non separò in modo manifesto l’atto lavorativo dalle funzioni della sua retribuzione, ma per molte persone che lavorano nelle reti digitali e hanno superato quel che resta della separazione fra casa e ufficio, non esiste una reale distinzione fra lavorare per vivere e vivere per lavorare. Non è una terrificante interpretazione del lavoro, ma semplicemente la prefigurazione della completa fusione tra esso e una vita soddisfacente.

    La formula del lavoro ubiquo, che può essere svolto ovunque, è un riflesso della rivoluzione informatica e si fonda su sviluppi della fine dello scorso secolo – come Internet, l’ hot-desking, il telelavoro, i telefoni cellulari, le chiavette di memoria e i computer palmari – moltiplicati dalle forme più recenti di accesso alle informazioni, come per esempio il cloud computing. la velocità dello sviluppo e la brevità della vita di queste novità sono supefacenti: fra cent’anni chi si ricorderà più del fax?

    La fugace presenza di queste moderne tecnologie nella nostra esperienza di vita per molti di noi può essere simboleggiata dal gracidio elettronico del collegamento con il modem telefonico prima dell’introduzione della banda larga: quel suono è ancora vivido nella mia mente, un segnale distinto nel mio archivio tecnologico che mio padre non ebbe mai modo di sentire e che i miei figli non sentiranno mai.

    Nella nostra vita hanno fatto irruzione linguaggi tecnologici interamente nuovi, travolgendoci con una marea di astrusi acronimi. Per esempio, io so com’è fatta una porta usb e a che cosa serve, ma lo sapranno anche i figli dei miei figli? Ne dubito. Del resto, che bisogno hanno i miei stessi figli di saperne molto, per esempio, sulle candele di un’automobile? Per noi erano cose tangibili che, armati della chiave giusta, sapevamo anche montare, mentre non c’è niente di tangibile nel codice digitale che traduce la musica, le fotografie, i testi scritti e i film in sequenze di 1 e 0. Nell’arco di pochi, brevissimi anni, la possibilità di manipolare e trasferire velocemente qualsiasi informazione, e di accedervi a costo bassissimo o nullo, ha scatenato una sorta di luna park globale di dimensioni senza

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