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Lavoro tecnologia e libertà: Tempo e spazio del lavoro nell'era dell'intelligenza artificiale
Lavoro tecnologia e libertà: Tempo e spazio del lavoro nell'era dell'intelligenza artificiale
Lavoro tecnologia e libertà: Tempo e spazio del lavoro nell'era dell'intelligenza artificiale
E-book173 pagine2 ore

Lavoro tecnologia e libertà: Tempo e spazio del lavoro nell'era dell'intelligenza artificiale

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Info su questo ebook

Nella nostra epoca post-pandemica, il lavoro è cambiato per sempre. Internet, il metaverso e le nuove piattaforme guidate dall’intelligenza artificiale stanno trasformando i modi di produrre. Questo libro esplora le trasformazioni spazio-temporali del lavoro, inclusi i risultati della sperimentazione del lavoro da remoto e le modifiche negli orari, e la nascita del paradigma 4.0. Come cambierà la qualità delle nostre vite? Quali saranno le lotte sindacali di domani? E come dovranno comportarsi i policy makers per garantire a tutti modalità di lavoro eque e dignitose? Un’indispensabile risorsa per comprendere le prospettive del lavoro nell’era digitale.
LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2024
ISBN9788868965532
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    Anteprima del libro

    Lavoro tecnologia e libertà - Anna Maria Ponzellini

    Capitolo 1

    La libertà come dimensione della qualità del lavoro

    «Occorre partire dalla battaglia per la libertà nel lavoro,

    dall’autonomia della persona che lavora,

    dalla quale discende tutto il resto.»

    Bruno Trentin, 2004

    «Gli esseri umani, avendone l’occasione,

    si impegnano attivamente a forgiare il proprio destino

    e non si limitano a ricevere passivamente

    i frutti di un qualsiasi programma di sviluppo,

    anche ben congegnato.»

    Amartya Sen, 2000

    Sapere, intelligenza, partecipazione, senso, libertà sono le parole chiave che condensano la qualità del lavoro a oggi. Da quasi settant’anni il job design ispirato al paradigma socio-tecnico si cimenta in un progetto di umanizzazione del lavoro che tenga insieme tecnologia e bisogni sociali. Tuttavia, solo da pochi anni, da quando la tecnologia digitale ha forzato i confini dell’organizzazione del lavoro, la libertà di scegliere i tempi e i luoghi del proprio lavoro è diventata una aspettativa centrale per una vasta parte di lavoratori e ha quindi assunto una inedita rilevanza tra le dimensioni della qualità del lavoro. Il testo riprende un saggio pubblicato, col titolo «Cinque parole chiave e una decina di storie per riprendere la discussione sulla qualità del lavoro», nel volume collettaneo: Cipriani A, Gramolati A, Mari G. (2018), Il lavoro 4.0: la Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, Firenze University Press, Firenze.

    Introduzione. Il lavoro nei luoghi di lavoro e la sua qualità

    Come è successo anche in passato di fronte alle svolte tecnologiche, da quando si è cominciato a parlare di Industria 4.0 l’attenzione degli studiosi e delle parti sociali si è concentrata sul prevedibile impatto delle tecnologie sul lavoro in termini di quantità e dimensioni dell’occupazione, cioè sul lavoro «a livello macro» (employment). Ma i cambiamenti globali dei mercati e l’innovazione tecnica stanno soprattutto modificando il lavoro «a livello micro», ovvero il contenuto del lavoro (work). Quello che potremmo chiamare «il lavoro nei luoghi di lavoro».

    Tra l’altro, solo una analisi più approfondita di quanto avviene concretamente nei luoghi di lavoro – come le tecnologie modificano i processi, quali nuove competenze digitali sono richieste agli operatori, quali specialismi vengono integrati nei nuovi algoritmi e quali non sono (ancora) standardizzabili, come le vecchie competenze si adattano e si sviluppano dentro il cambiamento tecnico reale, se crescerà la routine o l’autonomia, se le tecnologie aumenteranno le opzioni disponibili per rapporti di lavoro disegnati sulle preferenze individuali – può dare risposte verosimili anche sul futuro dell’occupazione e sul dilemma della polarizzazione del mercato del lavoro che stanno tanto appassionando gli studiosi e le agenzie economiche nazionali e internazionali.

    Le innovazioni tecniche – ma anche i mutamenti del rapporto col lavoro dei soggetti presenti sul mercato del lavoro – stanno cambiando ciò che, con termine generico e in parte ambivalente, intendiamo per «qualità del lavoro» e ne rimescolano dimensioni e significati. Tanto che è difficile rispondere a una domanda, apparentemente banale, come quella se sia migliorata o peggiorata negli ultimi anni la qualità del lavoro.

    In effetti, la qualità del lavoro è un concetto multidimensionale ed è anche in parte una definizione mobile, nel senso che nel tempo si modificano le sue dimensioni di riferimento, probabilmente anche in ragione dei cambiamenti culturali, del mutare delle ideologie del lavoro, del cambiamento del mix di soggetti presenti nel mercato del lavoro. Alcuni concetti-chiave, tuttavia, ritornano nel tempo a confermarci l’esistenza di un nucleo solido di caratteristiche attorno a cui ruota la definizione di ciò che è «un buon lavoro». In un opera del 1979, J.C. Taylor del Tavistock Institute of Human Relations di Londra – che aveva già pubblicato con Davis un testo che è considerato una sorta di bibbia dell’approccio socio-tecnico alla progettazione dell’organizzazione del lavoro, Design of Jobs – ripartisce le qualità del lavoro in poche dimensioni estrinseche (wages, working conditions, hours) e in molte intrinseche (individual power, employee participation in the management, fairness and equity, social support, use of one’s present skills, self-development, a meaningful future at work, social relevance of the work or product, effect on extra-work activities): alcune di queste ultime – come potere individuale, partecipazione, prospettiva di senso, impatto sulle attività extralavorative – appaiono a distanza di quasi quarant’anni assolutamente moderne, e costituiscono vere e proprie riscoperte degli approcci più recenti all’analisi del lavoro.

    Approcci più convenzionali, come quelli della Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Eurofound) o di ISFOL, hanno visto via via mutare nel tempo i fattori utilizzati per descrivere il lavoro. La Fondazione europea di Dublino ha pubblicato la prima delle quadriennali European Working Conditions Surveys (EWCS) nel 1990 come «Survey on the Work Environment», concentrandola dunque sugli aspetti della salute e dell’ambiente di lavoro, che in quegli anni erano in primo piano. Successivamente ha consolidato alcune aree-base di indagine – physical environment, workplace design, working hours, work organisation and social relationships at the workplace – aggiungendovi però via via dimensioni che riguardano gender, job security and insecurity, work-life balance, employee participation. In questo modo, ha segnalato l’importanza di tenere monitorati i cambiamenti che, nei ventiquattro anni tra la prima e la sesta indagine, sono intercorsi nel mercato del lavoro, nelle esigenze delle imprese e nelle aspettative dei lavoratori (Eurofound, 2015).

    La tesi è che il concetto di qualità del lavoro – e soprattutto la dimensione della «libertà di scegliere» nel lavoro – meriti una ridiscussione contestualizzata ai tempi che viviamo e una comprensione più ragionata delle dimensioni che ne sono coinvolte, soprattutto di quelle che perdurano nel tempo. Ciò anche in funzione di un miglioramento della rappresentanza degli interessi dei lavoratori, a tutt’oggi ancora concentrata sui temi del salario e della gestione delle crisi (forse inevitabilmente). Saranno considerate cinque dimensioni-chiave, che a nostro parere ben rappresentano da un lato le aspettative e preferenze dei lavoratori ma anche alcune buone risposte delle organizzazioni, a dimostrazione di strade che è possibile percorrere per migliorare il lavoro. Per meglio chiarire gli aspetti che si vogliono analizzare, verranno portati esempi raccolti nel corso di recenti ricerche qualitative (studi di caso e interviste) e interventi sull’impatto delle tecnologie, sul cambiamento organizzativo, sul rapporto col lavoro di giovani e di donne (senza del tutto eluderne i lati in ombra). Essendo l’obiettivo del lavoro ricostruire quale sia «in potenza» la buona qualità del lavoro, l’analisi non va evidentemente considerata una descrizione delle attuali condizioni di lavoro nella loro generalità.

    Sapere. La ricomposizione del «sapere operaio» non bastava all’operaio di Uddevalla

    Per molto tempo, il concetto di qualità del lavoro è stato più o meno sovrapposto a quello di professionalità. Tutto il movimento internazionale della Quality of Working Life (QWL) degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso – gli esperimenti sociotecnici, la Volvo di Kalmar, le isole di montaggio all’Olivetti, il progetto Utopia del sindacato scandinavo dei grafici, il progetto Saturn alla General Motors, fino al programma governativo tedesco di umanizzazione del lavoro (Program Forschung zur Humanisierung des Arbeitslebens) descritto da Kern e Schumann (1984) – man mano che procedeva l’automazione spostava la sua attenzione dalle condizioni ergonomiche (fatica, monotonia, rischi per la salute) a un’idea di qualità del lavoro identificata in larga misura come miglioramento del contenuto delle mansioni. Strumenti come job rotation, job enlargement e, specialmente, job enrichment erano incaricati di realizzare un disegno di espansione della qualità del lavoro che avrebbe condotto il sapere collettivo operaio a realizzare il controllo del ciclo produttivo: in qualche modo, lo sviluppo degli skills operai e la riappropriazione della conoscenza della produzione diventavano sinonimo di democrazia nel lavoro.

    La stessa più importante survey periodica sulla occupazione nel Regno Unito, attiva dalla metà degli anni Novanta a ora – Skills and Employment in Britain – radica la sua analisi del cambiamento del lavoro nei mutamenti nella composizione e qualificazione della professionalità: pur distinguendo tra qualifiche (broad skills) e competenze orizzontali (generic skills) l’approccio appare quello dell’analisi dei processi di qualificazione/dequalificazione, forse in ossequio all’idea prevalente nelle relazioni industriali, funzionale alla tradizionale contrattazione sindacale del salario, che il livello di qualificazione costituisca il principale, se non l’unico, «prezzo» del lavoro.

    Questa idea che il miglioramento della qualità del lavoro debba consistere soprattutto in una ricomposizione – il superamento di quella che in senso più ampio Harry Braverman (1974) chiamava la fine dell’unità tra l’ideazione e l’esecuzione prodotta dall’applicazione dell’organizzazione scientifica del lavoro – o forse, più modestamente, in un arricchimento della professionalità, perdura ancora ora, e non solo nel mondo sindacale. Una ideologia che ha le sue radici nelle lotte operaie contro il taylorismo e nella utopia della ricomposizione delle conoscenze di mestiere frantumate dalla catena di montaggio che si svilupparono negli anni Settanta e Ottanta in Europa e USA (Butera, 1972). Una utopia che appare tanto più difficile da riproporre ora negli stessi termini, dato che ormai, persino nella manifattura, le conoscenze e le tecniche incorporate nei processi di produzione di un’auto, di un mobile o di un panettone non hanno quasi più nulla in comune col sapere e con gli attrezzi dei vecchi mestieri.

    L’operaio di Uddevalla. In realtà, come emerge da una conferenza di qualche anno fa sull’esperienza della Volvo, già l’operaio di Uddevalla non considerava tanto importante la conquista della nuova polivalenza permessa dalla «produzione in parallelo» delle automobili, che aveva sostituito la linea di montaggio in sequenza: anche se indubbiamente, sul piano della salute, allungare i tempi-ciclo faceva una forte differenza e questo rendeva l’esperienza assolutamente valida, per gli operai fare sempre la stessa cosa, sia pure con tempi-ciclo molto lunghi, risultava comunque monotono. In aggiunta, l’operaio della Volvo non pensava affatto che il saper assemblare un intero veicolo gli avrebbe consentito di ricostruire una professionalità spendibile fuori dalla fabbrica: perché il nuovo sapere – che sicuramente si produceva e si accumulava – era un sapere collettivo, organizzativo, non spendibile fuori dall’ambiente tecnico-organizzativo dove era prodotto (non conduce a svolgere tout court le mansioni proprie del vecchio artigiano di mestiere, né del tecnico del processo o dell’ingegnere progettista, forse in parte solo quello del manutentore nei sistemi tecnici meno complessi) (Sandberg,

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