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Transizioni digitali: Sindacato, lavoro privato e pubblico impiego nell'era hi-tech
Transizioni digitali: Sindacato, lavoro privato e pubblico impiego nell'era hi-tech
Transizioni digitali: Sindacato, lavoro privato e pubblico impiego nell'era hi-tech
E-book245 pagine3 ore

Transizioni digitali: Sindacato, lavoro privato e pubblico impiego nell'era hi-tech

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Info su questo ebook

Le nostre società sono fondate sul lavoro, ma oggi il lavoro umano è messo in discussione dai progressi dell'intelligenza artificiale. Qual è il suo futuro in un’epoca in cui l’innovazione tecnologica è dappertutto ed è sempre più spinta?
A questa domanda cerca di rispondere l’autore senza indulgere né all’ottimismo né al pessimismo.

La sua indagine si basa su una puntuale verifica del presente, perché senza tale verifica non si può progettare il domani in maniera razionale, ossia nell’interesse di tutti i cittadini.
Paolinelli ha quindi osservato come l’innovazione tecnologica è narrata e come è effettivamente praticata in tre settori produttivi: piattaforme digitali, industria manifatturiera, pubblica amministrazione.

LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2019
ISBN9788832104158
Transizioni digitali: Sindacato, lavoro privato e pubblico impiego nell'era hi-tech
Autore

Patrizio Paolinelli

Patrizio Paolinelli (Lucca, 1955).  Sociologo e giornalista. Ha insegnato in diverse università italiane.  È docente a contratto di sociologia della comunicazione al Master in Consulenza filosofica e Antropologia esistenziale, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e Università Europea di Roma.  Le sue ultime pubblicazioni: Spogliare il corpo, vestire lo sguardo. Il lavoro del nudo domestico (Bonanno, Catania, 2013); Nello specchio della modernità. Fotoritratti di Louis Ferdinand Céline (Bonanno, Catania, 2011).  

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    Transizioni digitali - Patrizio Paolinelli

    Patrizio Paolinelli

    Transizioni digitali

    Sindacato, lavoro privato e pubblico impiego nell’era hi-tech

    © Arcadia edizioni

    I edizione, dicembre 2019

    Isbn 9788832104158

    È vietata la copia e la pubblicazione,

    totale o parziale, del materiale

    se non a fronte di esplicita

    autorizzazione scritta dell’editore

    e con citazione esplicita della fonte.

    Tutti i diritti riservati.

    Introduzione

    Le nostre società sono fondate sul lavoro, ma oggi il lavoro umano è messo in discussione dai progressi dell’intelligenza artificiale. Qual è il suo futuro in un’epoca in cui l’innovazione tecnologica è dappertutto ed è sempre più spinta? Intorno a questa domanda si è aperto da anni un dibattito pubblico e grosso modo possiamo dire che si sono formati due gruppi principali: da un lato, coloro che insistono sulle opportunità offerte dalle nuove tecnologie e minimizzano i rischi occupazionali; dall’altro, coloro che si preoccupano dei posti di lavoro perduti senza negare le opportunità offerte dall’introduzione di macchine sempre più avanzate nelle fabbriche e negli uffici. I primi guardano al futuro e profetizzano l’avvento dell’homo digitalis destinato a vivere in perfetta simbiosi con le tecnologie informatiche; i secondi osservano l’umanissima attualità dell’homo faber a partire dalla dialettica tra tecnologia e società. E l’attualità ci dice che l’innovazione tecnologica ha già decimato numerosi posti di lavoro nell’industria manifatturiera, sta dilagando tra le attività di concetto di tipo esecutivo e sta facendo il suo ingresso in quelle a forte contenuto intellettuale. In altre parole, dopo l’industria anche il terziario inizia a conoscere e conoscerà sempre più gli sconvolgimenti causati dall’innovazione tecnologica. La quale, per le dimensioni che sta assumendo e che assumerà nei prossimi dieci-venti anni, pone alla politica, al sindacato e più in generale ai corpi intermedi la sfida di elaborare oggi strategie a breve-medio termine affinché il lavoro non si separi dai lavoratori.

    Interpretare la narrazione sull’innovazione tecnologica e verificarla alla prova dei fatti. In estrema sintesi è questo il filo conduttore del libro che avete tra le mani. Ma perché interpretare e verificare? L’innovazione tecnologica non è forse autoevidente tramite prodotti sempre più avanzati e sempre più strabilianti? Non è di per sé l’indiscussa protagonista di una società e di un mondo del lavoro in profonda trasformazione? In effetti a un primo sguardo le cose appaiono date e sembrano parlare da sole. Ma basta sollevare appena il velo delle apparenze e tutto cambia. L’autoevidenza non è poi così evidente e la tecnologia da primadonna diventa un’attrice importante tra altri attori importanti. Soprattutto: non è lei a scrivere il copione del suo spettacolo né a curarne la regia.

    La nostra attività di interpretazione e di verifica prende le mosse da una prima constatazione: il passaggio dall’analogico al digitale inizia a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento, mentre il primo microprocessore è stato commercializzato dalla Intel nel 1971. Perciò, per quanto breve, il digitale ha alle spalle una storia. Storia che per di più non nasce nel garage di qualche geniale programmatore informatico ma nei centri direzionali della grande industria statunitense. Ne consegue che la quarta rivoluzione industriale e la rivoluzione digitale sono figlie della terza rivoluzione industriale(1). Tra queste rivoluzioni sussistono sia continuità sia differenze. Le continuità più evidenti: la concentrazione del potere decisionale su cosa, come e in che direzione innovare è in mano a una élite; lo sfruttamento del lavoro non solo non è superato ma si è intensificato, magari passando attraverso l’autosfruttamento forsennato dei freelance worker e degli imprenditori di se stessi. La differenza più evidente: oggi siamo dinanzi a un’accelerazione tecnologica portentosa che, se da un lato, sta mutando e muterà sempre più radicalmente il nostro modo di vivere, lavorare e socializzare, dall’altro, non lascia presagire una nuova società così come avvenne col passaggio dal feudalesimo al capitalismo. Ciò significa che le differenze della rivoluzione tecnologica in atto sono all’insegna della continuità col passato industriale, così come il neoliberismo è in continuità col liberismo. In tal senso parlare di rivoluzione è quantomeno improprio.

    A partire dai nessi che collegano il passato col presente ci siamo posti delle domande di ordine generale. L’accelerazione tecnologica in corso:

    espande o contrae l’occupazione?

    migliora la qualità del lavoro?

    allarga i diritti dei lavoratori?

    favorisce i consumatori?

    facilita la vita dei cittadini?

    Per rispondere compiutamente a queste domande sarebbero necessari diversi volumi e difficilmente si giungerebbe a dare risposte definitive. Il nostro obiettivo è assai più modesto e gli interrogativi che abbiamo posto rappresentano solo il filo conduttore di una riflessione che si sviluppa per inquadrature successive.

    Prima inquadratura: come viene raccontata la rivoluzione digitale. Lo storytelling dominante tende a naturalizzarla e a esaltarla. In una parola, a mitizzarla. A nostro parere occorre molta cautela quando si parla di innovazione tecnologica perché destoricizzarla non ci permette né un’adeguata comprensione del fenomeno né una crescita della tecno-consapevolezza. Sappiamo bene che i miti costituiscono l’implicito della vita umana e neanche le società avanzate possono farne a meno. Con una differenza sostanziale però rispetto a quelle del passato: mentre un tempo il mito si caratterizzava come l’espressione dell’attività inconscia dello spirito umano, dall’avvento della società dei consumi i miti sono espressione del potere del marketing. La mitologia nell’epoca della sua creazione tecnica è un prodotto del logos così come lo è il mondo dell’hi-tech. Nei rispettivi domini il marketing e la tecnologia nutrono le società avanzate. Il primo stimola l’appetito di novità e la seconda lo soddisfa.

    Come si afferma il mito dell’era digitale prossima ventura? Attraverso un esercito di combattenti della parola che chiamiamo tecno-mitografi(2). A loro la missione di narrare le magnifiche sorti dell’innovazione su vecchi e nuovi media.

    Preso atto del processo di mitizzazione dell’avvenire digitale siamo convinti che se si vogliono lavoratori e cittadini tecno-consapevoli occorre soffermarsi maggiormente sul processo dialettico tra tecnologia e società. E siamo altresì convinti che uno dei maggiori responsabili della mancata presa di coscienza dell’importanza di tale processo sia l’affermazione di uno storytelling planetario viziato dal determinismo tecnologico. Ossia l’idea (sbagliata) che l’innovazione tecnologica sia in grado da sola di cambiare il mondo. In realtà lo stesso cambiamento tecnologico è modellato da fattori sociali(3). Nella società mediatizzata (o dell’informazione, della comunicazione, della conoscenza… chiamatela come volete) il determinismo tecnologico è passato dallo status di un’idea discutibile a una teoria dominante che comporta rischi enormi. In primo luogo, il rischio di non comprendere l’essenza della direzione della transizione epocale in cui ci troviamo oggi tutti immersi come produttori, consumatori e cittadini grazie alle accelerazioni della tecno-scienza. La mancata comprensione della natura del cambiamento porta con sé un altro rischio: quello di essere ridotti a un pubblico plaudente o rassegnato dinanzi allo spettacolo della tecnologia.

    Per uscire dalla spettacolarizzazione il primo capitolo del libro è dedicato a decostruire il mito della rivoluzione digitale. Il mito: sia ben chiaro. Non il fatto che l’innovazione tecnologica è una forza trainante del cambiamento sociale(4). Per essere ancora più chiari: avversiamo ogni forma di tecnofobia. Detto questo, riconosciamo subito i nostri limiti: non pretendiamo affatto di esaurire l’analisi dello storytelling dominante intorno alle tecnologie digitali perché i miti sono fenomeni complessi che servono a ordinare la realtà, comprendere il mondo e naturalizzare la storia. Sono dunque, difficilmente espugnabili. Per esempio, i tecno-mitografi non negano il lato oscuro della tecnologia come nel caso del cybercrimine. Anzi ne parlano. E a furia di parlarne naturalizzano un fenomeno storico – fa parte delle cose del mondo – senza spiegarlo, semplicemente lo constatano sopprimendo così ogni dialettica. Nonostante il potere del mito non ci arrendiamo. Perché la tecno-consapevolezza si raggiunge solo facendo leva sul logos, ovvero sulla ragione.

    Utilizzando tale leva passiamo alla seconda inquadratura. Che consiste nello spostare l’obiettivo sulla narrazione del rapporto tra tecnologia e occupazione. Tema molto caro a lavoratori e sindacati. Ma anche agli imprenditori e ai politici, perlomeno quelli più illuminati. Tema che i tecno-mitografi affrontano in genere in due modi:

    1) più o meno con le stesse tesi elaborate negli anni ’50 del secolo scorso, quando l’automazione fece la sua irruzione nelle fabbriche e negli uffici(5);

    2) con una rapida alzata di spalle, inequivocabile segno d’indifferenza verso le sofferenze sociali provocate dall’impatto sociale delle nuove tecnologie.

    Entrambe le posizioni vanno tenute in debito conto. La prima perché segnala la continuità di un discorso pubblico favorevole al cambiamento perpetuo in virtù del progresso tecnologico. Ma rispondere oggi con le stesse argomentazioni di ieri significa isolare l’innovazione dal contesto in cui si manifesta. Per esempio, nel contesto della guerra fredda l’Occidente non poteva permettersi troppi disoccupati, troppo sfruttamento, troppa disuguaglianza e il capitale, seppur a denti stretti, tollerava uno Stato interventista. Il quale produceva riforme del diritto lavoro con cui riconosceva le libertà sindacali nei luoghi di produzione della ricchezza. Finita la guerra fredda tutti questi fattori si sono rovesciati nel loro contrario. Di più: sempre in quel contesto l’innovazione tecnologica era vissuta come liberazione dal lavoro in vista di una società del tempo libero(6). Oggi non è più così e nessuno immagina l’avvento di una civiltà delle vacanze. Oggi l’innovazione promette un tempo di vita pressoché interamente finalizzato al lavoro e alla sua ricerca. Possiamo inquadrare la prima posizione nella lunga durata dei miti: e il loro forte non è certo la coerenza.

    La seconda posizione, cioè l’alzata di spalle, si può tradurre così per capirci in breve: E va bene, l’innovazione tecnologica lascia sul campo morti e feriti, ossia disoccupati, aziende e comparti produttivi che chiudono, ma pazienza, non ci si può far niente. Una differenza tra gli anni ’50 del secolo scorso è oggi è questa: allora si diceva È il prezzo del progresso. Mentre oggi l’ideologia del progresso ha esaurito la sua spinta propulsiva e l’innovazione si presenta come un fenomeno autoreferenziale: si innova per innovare in funzione esclusiva dell’aumento della produttività. A quale scopo è una domanda che ci si pone occasionalmente. Tutt’al più ci si sente rispondere: per modernizzare. Risposta poco convincente perché la modernità volge alla fine. Oggi viviamo in un’epoca di transizione. E dato che ci siamo dentro talvolta facciamo fatica a comprenderla. Tanto più in un momento storico in cui il pensiero critico sembra aver fatto la fine dei panda. Comunque sia, sempre per voler interpretare e verificare appena si gratta un po’ il fatalismo dei tecno-mitografi ci troviamo di fronte a un revival del darwinismo sociale in salsa digitale, le cui lontane origini si perdono nella notte dei tempi dello stato di natura da cui emerse l’Homo homini lupus di hobbesiana memoria. Lo stato di natura oggi è il ciberspazio, da cui emerge l’homo digitalis.

    Liberarsi dei miti? Non è possibile. È possibile invece metterli a confronto con la realtà di cui costituiscono la trama. È l’operazione che abbiamo condotto con la terza e ultima inquadratura: abbiamo confrontato la tecnologia narrata con la tecnologia realmente applicata dalle organizzazioni sociali. Applicata oggi e non domani. Il nostro motto è stato: vedere per credere, non credere per vedere. Perciò nel secondo, terzo e quarto capitolo del libro ci siamo appostati ai bordi del mondo del lavoro per verificare nel presente come le tecnologie si inverano nella realtà produttiva. E lo abbiamo fatto focalizzando l’attenzione:

    • su alcuni casi in cui le piattaforme digitali non migliorano affatto le condizioni del lavoro;

    • sulle relazioni industriali sia nella fabbrica sia nella pubblica amministrazione.

    Nel privato abbiamo scoperto che sotto questo profilo la manifattura 4.0 è più avanzata del terziario avanzato (il bisticcio è voluto). Eppure la old economy ha innovato moltissimo in termini di processo. La fabbrica di oggi non somiglia affatto a quella di appena trent’anni fa: mentre ieri brulicava di operai oggi è sempre più disabitata e i nuovi inquilini sono robot e algoritmi. Non c’è dubbio che tra gli imprenditori c’è chi sogna la fabbrica senza esseri umani. I quali hanno dei bisogni fisiologici, materiali e psicologici che li inducono a iscriversi al sindacato, chiedere pause, diritti, ferie retribuite. Per di più possono scioperare. Le macchine invece non hanno bisogni di nessun tipo se non quello di essere alimentate da una qualche forma di energia. Perciò non hanno richieste da fare, diritti da rivendicare, non si iscrivono al sindacato e non scioperano.

    Ma vuoi per la storia del comparto, vuoi per le conquiste del movimento operaio nell’economia dei beni materiali il sindacato resta un interlocutore imprescindibile e i diritti dei lavoratori sono ancora garantiti. Garantiti nella misura in cui le rappresentanze sindacali hanno a loro volta diritto di cittadinanza e dignità di ruolo nei luoghi di lavoro. Così non è nelle punte più avanzate della new-economy(7). Naturalmente, come accennato, non è tutto rose e fiori neanche nelle fabbriche. Dove l’innovazione tecnologica non è affatto indolore sia in termini occupazionali sia in termini gestionali. Per non parlare del "territorio Comanche" costituito dalle nuove forme di prestazione organizzata da remoto su piattaforme digitali. Dove il concetto stesso di rapporto di lavoro perde ogni significato e i lavoratori vengono gestiti come macchine da altre macchine.

    Dinanzi a questi sconvolgimenti il sindacato si trova nella necessità di:

    fare un salto di qualità per cogestire l’algoritmo nei luoghi di lavoro e ricondurlo al tavolo della trattativa;

    • affermare e consolidare un sistema contrattuale in grado di coniugare produttività e diritti dei lavoratori, senza sacrificare i secondi alla prima;

    • estendere il maggior numero possibile di tutele e garanzie ai lavoratori della digital economy per i quali sono saltate le regole classiche del diritto del lavoro.

    I problemi non mancano neanche nel comparto pubblico. Anzi, sembrano maggiori rispetto a quello industriale. La nostra verifica ha confermato innanzitutto la necessità di smitizzare la narrazione che contrappone l’elefantiasi burocratica al dinamismo dell’impresa privata. È paradossale che si assista a una campagna stampa permanente di delegittimazione dei dipendenti pubblici. Campagna che in realtà sottintende la delegittimazione della pubblica amministrazione in quanto tale. Gli obiettivi dello scandalismo (potenza subliminale del mito) sono essenzialmente due:

    oscurare il fatto che senza lo Stato non esisterebbe il mercato;

    favorire la privatizzazione di servizi pubblici.

    Detto questo non nascondiamo i problemi: rispetto ai paesi maggiormente avanzati, di cui ci vantiamo di far parte, la pubblica amministrazione italiana è nel suo complesso arretrata. Da qui l’urgenza di un intervento riformatore vero. Lo sappiamo, nel corso degli anni la pubblica amministrazione è stata più volte riformata con esiti deludenti(8). Ma i tempi sono davvero cambiati. L’accelerazione tecnologica incombe e non farà sconti a nessuno. Se non si passa a una pubblica amministrazione 4.0 lo Stato dovrà cedere ai privati il proprio campo d’azione. Un percorso invero già avviato da tempo con i risultati che i cittadini ben conoscono: per gli utenti i costi lievitano, la qualità si abbassa, le perdite vengono socializzate. Un privato del genere è meglio perderlo che trovarlo. E allora il punto essenziale è questo: un’economia nazionale per essere competitiva deve avere alle spalle un’amministrazione pubblica efficiente e deve contare su un sistema delle imprese davvero responsabile del proprio ruolo nella società.

    Le nostre osservazioni ci hanno convinto che se un servizio pubblico non funziona la ricetta non è privatizzare, ma

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