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Grandi Speranze I
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E-book372 pagine5 ore

Grandi Speranze I

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Info su questo ebook

Philip, detto Pip, avviato a diventare fabbro del villaggio, si trova a possedere una ingente somma di denaro, donatagli da un misterioso benefattore che lui crede essere Miss Havisham, una donna eccentrica che da quando vive a Londra va talvolta a trovare. Pip si innamore di Estella, protetta della Havisham, educacata da lei con lo scopo di far soffrire gli uomini per vendicarsi di essere stata abbandonata il giorno delle nozze. Narratore e protagonista, Pip ripercorre con humour e passione il suo cammino di conoscenza e disillusione, facendo i conti con la propria cecità di fronte ai casi della vita.Questo è il primo di 2 volumi.-
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2021
ISBN9788726568950
Grandi Speranze I
Autore

Charles Dickens

Charles Dickens (1812-1870) was one of England's greatest writers. Best known for his classic serialized novels, such as Oliver Twist, A Tale of Two Cities, and Great Expectations, Dickens wrote about the London he lived in, the conditions of the poor, and the growing tensions between the classes. He achieved critical and popular international success in his lifetime and was honored with burial in Westminster Abbey.

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    Anteprima del libro

    Grandi Speranze I - Charles Dickens

    Grandi Speranze I

    Translated by Maria Felicita Melchiorri

    Original title: Great Expectations I

    Original language: English

    Charles Dickens

    Copyright © 1861, 2021 Free rights and SAGA Egmont

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    ISBN: 9788726568950

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga Egmont - a part of Egmont, www.egmont.com

    Capitolo primo

    Poiché il cognome di mio padre era Pirrip, e il mio nome di battesimo Philip, la mia lingua infantile non riuscì mai a ricavare dai due nomi nulla di più lungo o di più esplicito di Pip. Così presi a chiamarmi Pip, e Pip finii per essere chiamato.

    Che Pirrip sia il cognome di mio padre, lo affermo in base alla sua lapide funeraria e a mia sorella - Mrs. Joe Gargery, che sposò il fabbro. Siccome non vidi mai né mio padre né mia madre, e neppure un loro ritratto (essi vissero infatti molto prima dei tempi della fotografia), le mie prime fantasie sul loro aspetto derivarono irragionevolmente dalle loro lapidi. La forma delle lettere su quella di mio padre mi suggerì la bizzarra idea che egli fosse un uomo tarchiato, robusto, con i capelli neri e ricci. Dai caratteri e dalla disposizione dell'iscrizione: «Anche Georgiana moglie del suddetto», trassi l'infantile conclusione che mia madre fosse lentigginosa e malaticcia. A cinque piccole losanghe di pietra, ciascuna lunga circa un piede e mezzo, disposte in una bella fila ordinata accanto alle loro tombe, e consacrate alla memoria di cinque miei fratellini - che rinunciarono straordinariamente presto a tentare di guadagnarsi da vivere nella lotta universale per la vita -debbo la convinzione, da me religiosamente nutrita, che fossero nati tutti sulla schiena, con le mani ficcate nelle tasche dei pantaloni, e che in questo stato dell'esistenza non le avessero mai tirate fuori.

    La nostra era la regione paludosa, giù lungo il fiume, situata a circa venti miglia dal mare, seguendo lo snodarsi del fiume. La mia prima, più chiara e vasta percezione dell'identità delle cose mi sembra di averla avuta in un memorabile e freddo pomeriggio, sull'imbrunire. Fu allora che seppi per certo che quel luogo desolato, invaso dalle ortiche, era il cimitero; che Philip Pirrip, già di questa parrocchia, e anche Georgiana moglie del suddetto, erano morti e sepolti; che Alexander, Bartholomew, Abraham, Tobias e Roger, figli dei succitati, erano anche loro morti e sepolti; e che l'oscura e piatta distesa incolta oltre il cimitero, intersecata da canali e monticelli di terra e argini, col bestiame sparpagliato qua e là al pascolo, era la palude; che la bassa linea color piombo che si stendeva più oltre era il fiume; che il lontano nascondiglio selvaggio dal quale il vento si lanciava fuori violento era il mare; e che il fagottino tutto scosso da brividi, sempre più spaventato da tutto questo e ormai in lacrime, era Pip.

    «Smettila di far rumore!», esclamò una voce terribile, mentre tra le tombe accanto al portico della chiesa spuntava un uomo. «Sta' zitto, piccolo demonio, o ti taglio la gola!».

    Un uomo spaventoso, con un vestito di grezza tela grigia e un grosso ferro alla gamba. Un uomo senza cappello, con le scarpe rotte e un vecchio straccio legato intorno alla testa. Un uomo che era stato inzuppato dall'acqua, coperto dal fango, storpiato dai sassi, ferito dalle pietre, punto dalle ortiche e lacerato dai rovi; che zoppicava e tremava e si guardava intorno con occhio torvo e ringhiava; e al quale i denti battevano quando mi afferrò per il mento.

    «Oh! Non mi tagli la gola, signore!», supplicai terrorizzato. «La prego, non lo faccia, signore».

    «Dimmi come ti chiami!», disse l'uomo. «Svelto!».

    «Pip, signore».

    «Un'altra volta», disse l'uomo, fissandomi. «Parla forte!».

    «Pip. Pip, signore!».

    «Fammi vedere dove vivi», disse l'uomo. «Indicami il posto!».

    Gli indicai dove si trovava il nostro villaggio, nella piana presso la riva, tra gli ontani e gli alberi capitozzati, a un miglio di distanza dalla chiesa o poco più.

    L'uomo, dopo avermi guardato per un attimo, mi mise a testa in giù e mi svuotò le tasche. Non contenevano altro che un pezzo di pane. Quando la chiesa tornò al suo posto - perché l'uomo aveva agito in modo così improvviso ed energico da farmela apparire innanzi capovolta, e vidi il campanile sotto i miei piedi - quando la chiesa tornò al suo posto, mi ritrovai seduto su un'alta lapide funeraria, tutto tremante, mentre egli mangiava voracemente il pane.

    «Tu, marmocchio», disse l'uomo leccandosi le labbra, «che guance grasse hai!».

    Immagino che fossero grasse, anche se a quel tempo ero piccolo per la mia età, e non robusto.

    «Che sia dannato se non potrei mangiarmele», disse l'uomo scuotendo minacciosamente la testa, «e se non ho una mezza idea di farlo davvero!».

    Gli espressi con fervore la mia speranza che non lo facesse, e mi tenni ancora più stretto alla lapide sulla quale mi aveva messo, un po' per tenermici sopra e un po' per trattenermi dal piangere.

    «E ora, ascolta bene!», disse l'uomo. «Dov'è tua madre?»

    «Là, signore!», dissi.

    Egli trasalì, accennò una breve corsa, si fermò e si guardò alle spalle.

    «Là, signore!», spiegai timidamente. «Anche Georgiana. Quella è mia madre».

    «Oh!», disse, tornando indietro. «E quello accanto a tua madre è tuo padre?»

    «Sì, signore», dissi, «proprio lui; già di questa parrocchia».

    «Ah!», mormorò egli allora, riflettendo. «Con chi vivi... ammesso che ti venga gentilmente concesso di vivere, cosa che non ho ancora deciso?»

    «Mia sorella, signore... la signora Gargery... moglie di Joe Gargery, il fabbro, signore».

    «Il fabbro, eh?», disse egli. E si guardò la gamba.

    Dopo aver più volte guardato cupamente la sua gamba e me, si avvicinò alla lapide, mi prese per entrambe le braccia e mi inclinò all'indietro fin dove gli era possibile tenermi, così che i suoi occhi guardavano dominanti in giù, nei miei, e i miei guardavano assolutamente inermi in su, nei suoi.

    «Adesso ascolta bene», disse, «dato che si tratta di vedere se ti verrà permesso di vivere. Tu sai cos'è una lima».

    «Sì, signore».

    «E sai cosa sono dei viveri».

    «Sì, signore».

    Dopo ogni domanda mi inclinava un poco di più all'indietro, in modo da darmi un crescente senso di impotenza e pericolo.

    «Procurami una lima». Mi inclinò ancora. «E procurami dei viveri». Mi inclinò ancora. «Portami tutt'e due». Mi inclinò ancora. «O ti strapperò il cuore e il fegato». Mi inclinò ancora.

    Ero terribilmente spaventato, e avevo un tale capogiro che mi afferrai a lui con entrambe le mani e dissi: «Se volesse essere così gentile da permettermi di stare diritto, signore, forse non mi sentirei così male e potrei prestarle più attenzione».

    Mi diede una terribile scrollata, facendomi oscillare pericolosamente, tanto che la chiesa traballò sulla sua stessa banderuola. Poi mi tenne diritto per le braccia sulla lapide, e proseguì con queste spaventose parole:

    «Domani mattina presto mi porterai la lima e i viveri. Mi porterai tutto laggiù, a quella vecchia Batteria. Fa' come ti dico, e sta' bene attento a non lasciarti scappare una sola parola o a fare un solo cenno al fatto che hai visto una persona come me, o una persona in genere, e ti sarà concesso di vivere. Ma se non lo farai, o non ti atterrai alle mie parole in un qualsiasi particolare, non importa quanto piccolo, il cuore e il fegato ti verranno strappati, e poi arrostiti e mangiati. Ora, non sono solo, come potresti pensare. C'è un giovane nascosto con me, e a confronto di questo giovane io sono un angelo. Questo giovane sta ascoltando quello che ti dico. Questo giovane ha un modo segreto, tutto suo, di impossessarsi di un bambino e di strappargli il cuore e il fegato. È inutile che un bambino cerchi di nascondersi per sfuggire a quel giovane. Un bambino può chiudere la porta a chiave, può starsene al caldo nel suo letto, vi si può rannicchiare con le coperte rimboccate, può coprirsi la testa con le lenzuola, può pensare di sentirsi tranquillo e al sicuro, ma quel giovane, con passo furtivo, riuscirà a raggiungerlo e a stanarlo. In questo momento, e con grande difficoltà, sto cercando di impedire a quell'uomo di farti del male. Faccio molta fatica a tenere quell'uomo lontano dai tuoi visceri. Allora, cosa dici?».

    Dissi che gli avrei procurato la lima e gli avrei procurato quel tanto di cibo che sarei riuscito a trovare, e che l'indomani mattina presto gli avrei portato tutto alla Batteria.

    «Di' che Dio ti possa far morire all'istante se non lo farai!», disse l'uomo.

    Lo dissi ed egli mi mise a terra.

    «Ora», proseguì, «tieni a mente quello che hai promesso, tieni a mente quel giovane e vai a casa!».

    «Buo... buona notte, signore», balbettai.

    «Molto buona davvero!», disse lui, con uno sguardo all'umida e fredda piana che si stendeva tutt'intorno. «Vorrei essere una rana. O un'anguilla!».

    E allo tempo stesso si strinse il corpo tremante con entrambe le braccia -quasi cercasse di tenerlo insieme - e si avviò zoppicando verso il basso muretto della chiesa. Mentre lo guardavo allontanarsi e farsi strada tra le ortiche e i rovi che fasciavano i verdi monticelli di terra, ai miei occhi di bambino pareva che schivasse le mani dei morti, protese cautamente fuori dalle tombe, per afferrarlo alla caviglia e tirarlo dentro.

    Una volta giunto al muretto delia chiesa lo scavalcò, muovendosi come chi abbia le gambe rigide e intirizzite, e poi si voltò indietro a guardarmi. Quando lo vidi girarsi, presi la direzione di casa e feci il miglior uso possibile delle mie gambe. Subito dopo, però, mi guardai alle spalle e lo vidi avviarsi di nuovo verso il fiume, sempre stringendosi con entrambe le braccia e facendosi strada cautamente, coi piedi doloranti, tra le grosse pietre che erano state gettate qua e là nella palude come passatoio, in caso di forti piogge o di alta marea.

    La palude non era che una lunga e scura linea orizzontale, quando mi fermai per seguirlo con lo sguardo; e il fiume non era che un'altra linea orizzontale, non altrettanto larga, né ancora così scura; e il cielo non era che una fila di lunghe linee rosso fiamma mescolate a dense linee nere. Sulla riva del fiume riuscivo vagamente a distinguere le uniche due cose nere che, in tutto il paesaggio, sembravano stare diritte; una era il faro, che indicava la rotta ai marinai - simile a una botte senza cerchi messa su un palo - un brutto oggetto a vederlo da vicino; l'altra, una forca da cui pendevano delle catene che un tempo avevano sostenuto un pirata. L'uomo si diresse zoppicando verso quest'ultima, come se fosse il pirata tornato in vita che, dopo essere sceso a terra, tornava nuovamente a impiccarsi. A questo pensiero provai un terribile spavento; e quando vidi gli animali alzare il muso e fissarlo mentre passava, mi domandai se anch'essi non stessero pensando la stessa cosa. Mi guardai intorno in cerca dell'orribile giovanotto e non ne scorsi traccia alcuna. Ma ormai ero di nuovo in preda al terrore e corsi a casa senza fermarmi.

    Capitolo secondo

    Mia sorella, Mrs. Joe Gargery, aveva oltre vent'anni più di me, e si era guadagnata un'ottima reputazione, ai suoi occhi e a quelli dei vicini, per avermi tirato su con le mani. Dato che a quel tempo dovetti scoprire da solo il significato di quest'espressione, e sapendo che ella aveva mani ruvide e pesanti e che usava metterle di frequente tanto su suo marito che su di me, supponevo che io e Joe Gargery fossimo stati entrambi tirati su con le mani.

    Non era una donna avvenente, mia sorella; e avevo la netta impressione che avesse indotto Joe Gargery a sposarla con le mani. Joe era un bell'uomo, con riccioli di capelli biondo chiaro ai lati del viso liscio, e occhi di un azzurro così incerto che sembravano essersi mescolati, in qualche modo, col bianco. Era una persona dolce, benevola, dal temperamento mite, un uomo caro e semplice... una specie di Ercole quanto a forza, e anche quanto a debolezza.

    Mia sorella, la signora Gargery, con capelli e occhi neri, aveva una pelle tanto rossa che talvolta mi chiedevo se per caso non si lavasse la faccia con una grattugia per noce moscata, invece che col sapone. Era alta e ossuta, e indossava quasi sempre un grembiule molto ruvido, legato sul dietro con due lacci, e fornito, sul davanti, di un inespugnabile pettino quadrato tutto pieno di aghi e spilli. Ella considerava un suo grande merito il fatto di portare questo grembiule così spesso, e ne traeva motivo di forte biasimo nei confronti di Joe. Eppure, io non vedo il motivo per cui dovesse indossarlo o, se pure lo indossava, perché non se lo dovesse togliere ogni giorno della sua vita.

    La fucina di Joe era adiacente alla casa, che era una casa di legno, come molte delle costruzioni dalle nostre parti... anzi la maggior parte, a quel tempo. Quando corsi a casa dal cimitero, la fucina era chiusa e Joe se ne stava seduto da solo in cucina. Poiché io e Joe eravamo compagni di sventura, e, in quanto tali, eravamo in confidenza, Joe mi fece una confidenza non appena sollevai il chiavistello della porta e sbirciai dentro, volgendo lo sguardo verso di lui, che si trovava seduto lì di fronte, nell'angolo del camino.

    «Mrs. Gargery è uscita una dozzina di volte a cercarti, Pip. Ed è fuori anche ora, col che fa tredici volte».

    «Davvero?»

    «Sì, Pip», disse Joe; «e ciò che è peggio, si è portata Solletico».

    A questa lugubre notizia girai e rigirai più volte l'unico bottone del mio panciotto e, profondamente depresso, fissai il fuoco. Solletico era un pezzo di canna ricoperto di spago impeciato, diventato liscio per via della collisione con la mia persona, da esso solleticata.

    «Si è messa a sedere», disse Joe, «poi si è alzata, ha afferrato Solletico ed è uscita come una furia. Ecco quello che ha fatto», disse Joe, mentre ravvivava lentamente il fuoco tra le sbarre più basse con l'attizzatoio, e continuava a fissarlo: «è uscita come una furia, Pip».

    «È andata via da molto, Joe?». Lo trattavo sempre come una specie più grande di bambino, e come un mio pari.

    «Be'», disse Joe, lanciando un'occhiata all'orologio olandese, «quest'ultima volta è uscita come una furia da circa cinque minuti, Pip. Sta arrivando! Vai dietro la porta, vecchio mio, e metti un asciugamano tra voi due».

    Accettai il consiglio. Mia sorella, Mrs. Gargery, spalancando completamente la porta e trovandovi dietro un ostacolo, ne indovinò immediatamente la causa e adoperò Solletico per ulteriori investigazioni. Concluse scaraventandomi - le servivo spesso da missile coniugale - verso Joe, il quale, felice di avermi in suo possesso a qualsiasi condizione, mi fece passare dalla parte del camino e silenziosamente mi chiuse lì dietro, proteggendomi con la sua grossa gamba.

    «Dove sei stato, scimmietta?», disse Mrs. Gargery, battendo un piede per terra. «Dimmi chiaramente che cosa sei andato facendo finora per farmi consumare a forza di agitazione e spavento e preoccupazione, o ti tirerò fuori da quell'angolo anche se tu fossi cinquanta Pip, e lui cinquecento Gargery».

    «Sono solo stato al cimitero», dissi io dal mio sgabello, piangendo e sfregandomi.

    «Cimitero!», ripetè mia sorella. «Se non fosse stato per me, saresti andato al cimitero molto tempo fa e ci saresti rimasto. Chi ti ha tirato su con le mani?»

    «Tu», dissi.

    «E perché l'ho fatto, mi piacerebbe proprio saperlo!», esclamò mia sorella.

    Io piagnucolai: «Non lo so».

    «Io non lo so!», disse mia sorella. «Ma non lo rifarei mai! Questo lo so. Posso davvero dire di non essermi mai tolta questo grembiule da quando sei venuto al mondo. È abbastanza duro essere la moglie di un fabbro (e di uno come Gargery) senza dover essere tua madre».

    I miei pensieri si distrassero e sfuggirono a quel problema, mentre guardavo sconsolato il fuoco. Il fuggiasco là fuori nella palude con il ferro alla gamba, il giovanotto misterioso, la lima, il mangiare e la terribile promessa con la quale mi ero impegnato a commettere un furto in quella dimora che mi offriva protezione, tutto questo infatti mi si presentò davanti tra i minacciosi carboni ardenti.

    «Ah!», disse Mrs. Gargery rimettendo Solletico al suo posto. «Il cimitero, davvero! Potete ben parlare di cimitero, voi due». Uno di noi due, tra parentesi, non ne aveva parlato affatto. «Ci porterete me al cimitero, tra tutti e due, uno di questi giorni, e oh! che gran bella coppia formerete senza di me!».

    Mentre lei si apprestava a preparare il tè, Joe guardò furtivamente in basso verso di me, al di là della sua gamba, come se stesse mentalmente soppesando me e lui, e calcolando che tipo di coppia avremmo effettivamente fatto, nelle luttuose circostanze adombrate. Dopo di che, rimase seduto carezzandosi i ricci biondi e la basetta sulla destra, mentre coi suoi occhi azzurri seguiva i movimenti di Mrs. Gargery, come faceva sempre nei momenti di burrasca.

    Mia sorella aveva un modo vigoroso di preparare il pane e burro per noi, che non cambiava mai. Innanzitutto, con la mano sinistra, premeva saldamente ed energicamente la pagnotta contro la pettorina... dove vi si infilavano ora uno spillo e ora un ago che, in seguito, ci ritrovavamo in bocca. Poi prendeva del burro (non troppo) col coltello e lo spalmava sulla pagnotta, col fare di un farmacista, come se stesse preparando un impiastro -dando abili colpetti al pane con entrambi i lati della lama del coltello, e sistemando e modellando il burro finito tutt'intorno alla crosta. Quindi, dava una bella pulita finale al coltello sul bordo dell'impiastro e tagliava dalla pagnotta una fetta tonda, molto spessa, che, infine, prima di staccare dalla pagnotta, tagliava in due metà, di cui una andava a Joe e l'altra a me.

    In questa occasione, per quanto avessi fame, non osavo mangiare la mia fetta di pane. Sentivo di dover tenere qualcosa in serbo per il mio terribile conoscente e anche per il suo alleato, l'ancor più terribile giovanotto. Sapevo che l'economia domestica di Mrs. Gargery era delle più rigorose, e che nelle mie ricerche di ladro avrei potuto non trovar nulla di disponibile nella credenza. Perciò decisi di infilare il mio pezzo di pane e burro nella gamba dei pantaloni.

    Lo sforzo di volontà necessario per giungere a questo scopo mi parve davvero tremendo. Era come se dovessi decidermi a saltare da una casa altissima o a buttarmi in acque molto profonde. E la cosa era resa ancora più difficile dall'inconsapevole Joe. Nella nostra già menzionata massoneria da compagni di sventura, e nel suo benevolo cameratismo verso di me, era nostra abitudine serale confrontare il modo di mordere le fette di pane, offrendole di tanto in tanto, silenziosamente, all'ammirazione dell'altro... il che ci induceva a nuovi sforzi. Quella sera Joe mi invitò diverse volte, mostrandomi la sua fetta che diminuiva velocemente, a unirmi alla solita competizione amichevole; ma ogni volta mi trovava con la mia tazza gialla di tè su un ginocchio, e la mia fetta di pane e burro intatta sull'altro. Alla fine, nella mia disperazione, decisi che quanto avevo in mente andava fatto, e sarebbe stato meglio farlo nel modo meno improbabile che le circostanze permettessero. Approfittai di un momento in cui Joe mi aveva appena guardato, e infilai il pane e burro giù per la gamba dei pantaloni.

    Joe era evidentemente inquieto per quella che riteneva una mia mancanza di appetito, e diede un morso pensieroso alla sua fetta di pane, e non parve gustarlo. Se lo girò e rigirò in bocca molto più a lungo del solito, meditandovi sopra un bel po', e infine lo buttò giù come una pillola. Stava per dare un altro morso, e aveva appena inclinato la testa di lato per ottenere una buona porzione, quando lo sguardo gli cadde su di me e si accorse che il mio pane e burro era sparito.

    Lo stupore e la costernazione con cui Joe si fermò, proprio quando era sul punto di mordere e mi fissò, furono troppo evidenti per sfuggire all'attenzione di mia sorella.

    «Che succede adesso?», disse a bruciapelo, mentre posava la sua tazza.

    «Ma, dico io!», borbottò Joe scrollando il capo verso di me, con aria di serio rimprovero. «Pip, vecchio mio! Ti farai del male. Ti si pianterà da qualche parte. Non puoi averlo masticato, Pip».

    «Che succede adesso?», ripetè mia sorella, più bruscamente di prima.

    «Se riesci a farne venire su anche poco tossendo, Pip, ti consiglio di farlo», disse Joe, davvero atterrito. «L'educazione è certo importante, ma la tua salute è pur sempre la tua salute».

    A questo punto mia sorella era assolutamente furibonda e, piombata su Joe, lo prese per le basette e gli sbatté a più riprese la testa contro il muro, mentre io sedevo in un angolo, e assistevo con aria colpevole alla scena.

    «Ora forse mi dirai quello che succede», disse mia sorella, senza fiato, «grosso maiale imbambolato che non sei altro».

    Joe le lanciò uno sguardo disorientato; poi diede un morso disorientato al suo pane e mi guardò di nuovo.

    «Lo sai, Pip», disse Joe solennemente, con l'ultimo boccone nella guancia e parlando in tono confidenziale, come se fossimo completamente soli: «Tu e io siamo sempre stati amici, e sarei l'ultimo a farti la spia, in qualsiasi occasione. Ma» - spostò la sedia e guardò il pavimento tra di noi, e poi di nuovo me - «un boccone incredibile come quello!».

    «Si sta ingozzando senza masticare, vero?», esclamò mia sorella.

    «Lo sai, vecchio mio», disse Joe, guardando me e non Mrs. Gargery, col suo boccone ancora nella guancia, «io stesso ho inghiottito senza masticare, quando avevo la tua età... di frequente... e da ragazzo ero uno dei molti che lo facevano; ma non ho ancora mai visto nessuno ingozzarsi come te, Pip, ed è un miracolo che tu non ci abbia rimesso la vita».

    Mia sorella si tuffò su di me e mi pescò per i capelli, pronunciando solo le terrificanti parole: «Vieni a prendere la medicina».

    A quel tempo, qualche bestia di medico aveva fatto tornare in uso l'acqua di catrame come un'ottima medicina, e Mrs. Gargery ne teneva sempre una scorta nella credenza, credendo fermamente che le virtù di questo miscuglio fossero pari al suo sapore disgustoso. Nel migliore dei casi, questo elisir mi veniva somministrato, come eccellente ricostituente, in dosi così abbondanti che ero consapevole di andare in giro puzzando come uno steccato nuovo. Quella sera particolare, l'urgenza del mio caso rendeva necessaria una pinta di quel miscuglio che, per mia maggiore comodità, mi venne versato direttamente in gola mentre Mrs. Gargery mi teneva la testa sotto il braccio, come uno stivale sarebbe tenuto in un cavastivali. Joe se la cavò con mezza pinta; ma fu costretto a ingoiarla (con suo grande fastidio, mentre sedeva davanti al fuoco meditando e masticando lentamente), «perché gli era venuto un colpo». A giudicare da me, direi che il colpo, se non gli era venuto prima, gli venne sicuramente dopo.

    La coscienza è una cosa terribile quando accusa un uomo o un ragazzo; ma quando, nel caso di un ragazzo, quel fardello segreto si aggiunge a un altro fardello segreto nascosto nella gamba dei suoi pantaloni, diventa (come io stesso posso testimoniare) una grande punizione. La consapevolezza che presto avrei derubato Mrs. Gargery - non ho mai pensato che avrei derubato Joe, perché non ho mai considerato di sua proprietà nessun oggetto della casa - unita alla necessità di tenere sempre una mano sul mio pane e burro mentre me ne stavo seduto o quando mi veniva ordinato di sbrigare una qualsiasi faccenda in cucina, mi fecero quasi impazzire. Inoltre, quando i venti della palude facevano divampare e sfavillare il fuoco, mi sembrava di udire, là fuori, la voce dell'uomo col ferro alla gamba, che mi aveva fatto giurare di mantenere il segreto, proclamare che non poteva e non voleva digiunare fino al giorno dopo, ma doveva essere sfamato subito. Altre volte pensavo: E se il giovane cui è stato impedito con tali e tante difficoltà di macchiarsi le mani del mio sangue, cedesse alla sua impazienza costituzionale, o sbagliasse ora e si ritenesse autorizzato ad avere il mio cuore e il mio fegato stanotte, invece di domani!. Se mai a qualcuno si rizzarono i capelli per il terrore, deve essere successo a me allora. Ma, forse, non è mai successo a nessuno!

    Era la vigilia di Natale, e spettava a me mescolare il pudding per il giorno dopo, con un mestolo di rame, dalle sette alle otto secondo l'orologio olandese. Cercai di farlo col fardello sulla gamba (e questo mi fece nuovamente pensare all'uomo col fardello sulla sua gamba), e mi avvidi che il movimento tendeva a spingere il pane e burro fuori dalla caviglia, in modo assolutamente incontrollabile. Per fortuna riuscii a scivolare via e a depositare quella parte della mia coscienza nella mia stanza da letto, su in soffitta.

    «Ascolta!», dissi, quando, finito di mescolare, mi davo un'ultima riscaldata nell'angolo del camino prima di essere mandato a letto. «Era il cannone, Joe?»

    «Già!», disse Joe. «Un altro forzato ha preso il largo». «Che significa, Joe?», dissi.

    Mrs. Gargery, che si assumeva sempre il compito di dare tutte le spiegazioni, disse bruscamente: «Scappato. Scappato», somministrando la definizione come se si trattasse di acqua di catrame.

    Mentre Mrs. Gargery sedeva con la testa china sul suo lavoro d'ago, io, rivolto a Joe, formulai con la bocca le parole: Cos'è un forzato?. Joe mosse la sua bocca per rispondermi, ma con una frase talmente elaborata che non ne potei ricavare nulla, a parte la singola parola: Pip.

    «L'altra sera un forzato ha preso il largo», disse Joe, ad alta voce, «dopo il colpo di cannone del tramonto. E hanno sparato per avvertire che era in giro. E ora si direbbe che stiano sparando per avvertire che ce n'è un altro».

    «Chi spara?», dissi io.

    «Accidenti a questo ragazzo», intervenne mia sorella, guardandomi accigliata al disopra del suo lavoro, «quante domande che fa. Non fare domande, e non ti verranno dette bugie».

    Non era molto gentile verso se stessa, pensai, insinuare che mi avrebbe raccontato delle bugie, anche se avessi fatto delle domande. Ma non era mai stata gentile, mia sorella, a meno che non ci fosse compagnia.

    A questo punto Joe accrebbe enormemente la mia curiosità, dandosi un gran daffare a spalancare il più possibile la bocca e a formulare una parola che a me sembrò qualcosa come: malumore. Indicai dunque con naturalezza Mrs. Gargery e misi la bocca nella forma che voleva dire: lei?. Ma Joe non ne volle sapere e spalancò di nuovo la bocca e, con grande enfasi, gli diede la forma di una parola. Ma io non riuscii assolutamente a capirla.

    «Mrs. Gargery», dissi, come ultima risorsa, «mi piacerebbe sapere - se non arrecherebbe troppo fastidio - da dove vengono gli spari?»

    «Che Dio benedica questo ragazzo!», esclamò mia sorella, come se non intendesse esattamente ciò, bensì il contrario. «Dal pontone».

    «Ah!», dissi, guardando Joe. «Il pontone!». ¹

    Joe tossicchiò con aria di rimprovero, come per dire: Be', te l'avevo detto.

    «E, per favore, che cos'è il pontone?», dissi. «Ecco che succede con questo ragazzo!», esclamò mia sorella, puntando su di me l'ago e il filo e scuotendo la testa. «Rispondigli a una domanda, e te ne farà immediatamente una dozzina. Il pontone è una vecchia nave usata come prigione, subito al di là del marese». Questo è il nome che si usa sempre, dalle nostre parti, per riferirsi alla palude.

    «Mi chiedo chi ci viene messo, nella nave che fa da prigione, e perché ce lo mettono», dissi, in modo vago, e con una quieta disperazione.

    Questo era troppo per Mrs. Gargery, che immediatamente balzò su. «Ti dirò una cosa, giovanotto», disse, «non ti ho tirato su con le mani perché tormentassi a morte la gente. Se così fosse, me ne verrebbe biasimo, e non lode. Le persone vengono messe sulla nave-prigione perché ammazzano, e perché rubano e falsificano e commettono ogni tipo di crimine; e cominciano sempre col fare delle domande. E ora vattene a letto!».

    Non ero mai stato autorizzato ad avere una candela per andare a letto, e mentre salivo le scale al buio, con la testa che mi ronzava - grazie al ditale di Mrs. Gargery che vi aveva tamburellato sopra, ad accompagnamento delle sue ultime parole - mi resi paurosamente conto del grande vantaggio rappresentato da quella prigione, così vicina. Avevo cominciato col fare delle domande, e ora ero in procinto di derubare Mrs. Gargery.

    Spesso, da quell'epoca ormai abbastanza lontana, ho pensato che poche persone sanno quanti segreti i giovani siano in grado di mantenere, quando sono in preda al terrore. Non importa quanto

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