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Hypnophobia
Hypnophobia
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E-book351 pagine4 ore

Hypnophobia

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Info su questo ebook

Max è un cinico e svogliato studente universitario. Laura una ragazza schizofrenica.
Non hanno nulla in comune, se non essere entrati in contatto con Fabio Ahmadi, “il suicida della metropolitana”.
Nulla in comune, se non il fatto che da quando Ahmadi si è ucciso Max e Laura non dormono più. E non si tratta di difficoltà ad addormentarsi, si tratta di un’insonnia inesorabile che trasforma la loro vita in un eterno giorno, sfiancandoli, ma dotando le loro menti di impressionanti capacità di calcolo.
Che si tratti di un virus o di una mutazione, quello che sta accadendo ai due ragazzi li rende oggetto di una spietata caccia da parte di servizi segreti, sette massoniche e gruppi paramilitari in conflitto fra loro.
Coi corpi rallentati dalla fatica, alle prese con un potere che non sanno dominare, Max e Laura hanno una sola chance di sopravvivere: trovare il Paziente Zero, l'unico forse in grado di arrestare il processo.
Ma come si può credere a un uomo che dice di non dormire da vent'anni?
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2021
ISBN9788894580136
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    Anteprima del libro

    Hypnophobia - Marco Cipriani

    MAX

    INSONNIA – 0

    È una notte del 1973 e un umile contadino vietnamita ha la febbre.

    Non sembra una gran notizia e nessuno al mondo la conoscerebbe, a parte la sua famiglia, se non che quella notte poi trascorre, la febbre passa, e da quel momento Thai Ngoc non dorme più una sola ora in vita sua.

    Non essendo uno scienziato, l’uomo non si preoccupa. Continua a lavorare nei campi, e ogni giorno si carica chili di raccolto per una strada lunga quattro chilometri. Tutti i giorni, per trentatré anni.

    E di notte rimane sveglio. Tutte le notti, per trentatré anni.

    Ma è solo nel 2006 che decide di farsi visitare, spinto da quella che per lui è un’inconsueta stanchezza. Con la moglie, abbandona temporaneamente il lavoro alla fattoria e raggiunge il policlinico di Da Nang dove, di fronte a un medico incapace di nascondere il suo scetticismo, afferma candidamente di non aver mai dormito dal 1973.

    Il fatto è che lo afferma anche sua moglie, aggiungendo come a lungo e inutilmente abbia cercato di ‘aiutarlo’ a prendere sonno con alcolici e psicofarmaci.

    Visite preliminari e analisi del sangue mostrano un ottimo stato di forma, a parte un lieve problema al fegato, ma per sicurezza Thai Ngoc viene posto sotto osservazione. Ripreso ininterrottamente da telecamere, passa quattro giorni e quattro notti senza addormentarsi neanche per un minuto.

    Ed è qui che i medici si allarmano. Perché la questione non è più cosa racconta un anonimo contadino, ma ciò che loro stessi vedono accadere: c’è un uomo che non dorme da 96 ore. Senza apparenti conseguenze, se non una persistente sensazione di stanchezza.

    Vengono svolti esami più approfonditi, ma anche il più importante, l’encefalogramma, non concede spiegazioni.

    Increduli, il primario e la sua équipe chiedono al contadino di Quang Nam come si senta.

    Come una pianta senz’acqua.

    La notizia fa il giro del mondo. Altri specialisti giungono da vari continenti: vengono effettuate nuove analisi, fra cui complessi test neurologici, ma nessuna anomalia può chiarire il mistero.

    La storia finisce sui giornali, sulle riviste scientifiche, invade il web. È questo il motivo per cui oggi potete trovarla ovunque: su Wikipedia, su Focus, su YouTube.

    Intervistato da reporter della televisione inglese, Thai Ngoc scherza sulla stranezza della sua condizione, attirando su di sé l’invidia di chissà quanti insonni che non godono affatto del suo stato di forma fisica e mentale.

    Alla fine, torna alla fattoria, a coltivare il suo piccolo pezzo di terra. Passano gli anni e continua a non dormire. Da quella fatidica notte del ’73 ne sono passati quarantacinque.

    Sedicimila notti senza sonno.

    Periodicamente, l’uomo si reca a Da Nang per un check up. E dato che il suo è un caso ancora aperto, medici e scienziati continuano a cercare delle risposte.

    Finora sono giunti a due possibili conclusioni.

    La prima, più complessa e tutta da verificare, riguarda la possibilità che Thai Ngoc sia un dormitore polifasico ultradiano. Cioè che per sopravvivere e compiere le sue attività quotidiane gli bastino tre o quattro brevi microsonni distribuiti all’interno delle 24 ore, piuttosto che un periodo di sonno lungo e strutturato basato sull’alternanza buio-luce (monofasico circadiano), come accade normalmente agli esseri umani adulti.

    Dato che tale spiegazione contraddice la totale assenza di sonno dichiarata dal paziente, si presume che il soggetto non distingua il sonno dalla veglia, cioè non sia in grado di ricordare questi microsonni ristoratori.

    La seconda spiegazione, confutata però da ogni test medico, è che Thai Ngoc sia un bugiardo.

    Probabilmente, Michael Corke e la sua famiglia propenderebbero per questa seconda ipotesi.

    Nel 1991, mentre il contadino vietnamita entra nel suo diciottesimo anno senza sonno, Michael è un insegnante di musica di Chicago, felicemente sposato e amato dai suoi studenti. Ha sempre dormito sonni tranquilli. Finché, poco dopo il suo quarantesimo compleanno, comincia ad accusare una grave forma di insonnia.

    Tenta ogni classico rimedio conosciuto, ma invano. L’assenza di risultati conduce i medici a diagnosticare un disturbo depressivo, ma nemmeno gli psicofarmaci riescono a farlo dormire più di pochi minuti e la sua vita quotidiana si trasforma in un inferno. Nel giro di alcune settimane ogni piccolo gesto, anche il più semplice, diviene un’impresa titanica.

    A due mesi dalla comparsa dei primi sintomi, l’insegnante deve dirigere l’annuale concerto scolastico. Un drammatico video che potete trovare facilmente su YouTube, girato forse dalla famiglia di uno dei suoi allievi, ce lo mostra in fondo alla sala, di fronte a centinaia di spettatori. Michael si alza, con la lentezza di un uomo che ha più del doppio dei suoi anni. Fa un cenno alla moglie Penny: non vuole aiuto, anzi l’ha implorata, le ha fatto promettere, giurare di non aiutarlo, per non perdere la propria dignità. Poi con lenti, lentissimi passi, ognuno dei quali gli costa un’immane fatica, si trascina verso il centro del palco. In sala tutti trattengono il fiato, come se quella camminata fosse il vero evento cui sono chiamati ad assistere. Finalmente Michael raggiunge il suo posto. E, quando l’orchestra inizia a suonare, qualcuno lascia andare un sospiro di sollievo.

    Ce l’ha fatta, pensano. Ma sanno anche che l’insegnante, l’uomo che hanno imparato a conoscere e stimare, non è più lo stesso.

    Il fatto è che i farmaci non hanno alcun effetto e Michael ormai è del tutto incapace di prendere sonno. Non è più in grado di lavarsi e vestirsi da solo, gli occorre assistenza per nutrirsi. Fatica persino a parlare. È vittima di allucinazioni e sempre più spesso perde la cognizione della realtà in cui vive. Il tempo per lui non ha più senso: un giorno chiede a sua madre di portarlo dalla nonna, che è morta ormai da anni.

    Quando viene ricoverato presso lo University Hospital di Chicago, il suo stato fisico fa credere ai medici che sia affetto da sclerosi multipla. Ma non appena gli esami dimostrano che la causa delle sue condizioni è l’insonnia, uno specialista formula una nuova ipotesi: potrebbe trattarsi di quel rarissimo morbo che impedisce l’addormentamento.

    Potrebbe trattarsi di Fatal Familial Insomnia.

    I test e le nuove analisi che vengono condotte sul paziente lo confermano. In lui si è sviluppata una proteina geneticamente alterata, chiamata prione. E questa proteina ha iniziato a divorare i neuroni presenti nel talamo, la zona del cervello responsabile, fra l’altro, del ciclo sonno-veglia. Da quel momento, è come se un interruttore fosse stato per sempre settato su on. Non c’è modo di spegnere la luce, non c’è modo di spegnere, di far riposare, il cervello del professor Corke. La sua mente rimane perennemente attiva, perché non è più in grado di riconoscere il momento in cui ci si può abbandonare al sonno. Che sia giorno o notte, che ci sia luce o che il buio lo avvolga, nonostante la crescente spossatezza, Michael non può riposare.

    Mai più.

    Nel tentativo di arrestarne il rapido declino, i medici lo inducono in uno stato di coma artificiale, sperando di regalargli quel minimo di ristoro necessario al recupero psicofisico. Ma ogni sforzo si rivela inutile: a sei mesi circa dalle prime manifestazioni dell’insonnia, Michael Corke muore.

    Fatal. Familial. Insomnia.

    Fatal, perché incurabile: dopo cinque o sei mesi dalla manifestazione dei primi sintomi, al massimo nove, sopraggiunge la morte.

    Inesorabilmente. In ogni singolo caso riscontrato.

    Familial, perché geneticamente trasmissibile: da quando è stata classificata dal New England Journal of Medicine nel 1986, sono stati accertati i casi di venticinque famiglie colpite da questa devastante forma di insonnia. E la maggior parte di esse sono state sterminate dalla malattia.

    Anche per questo la comunità scientifica crede che in qualche modo – un modo che all’ospedale di Da Nang non sono riusciti a capire – Thai Ngoc debba dormire. Siano pure microsonni, cicli polifasici ultradiani, sia quel che sia, un uomo deve dormire.

    Per forza.

    Perché da quando esiste il mondo, un’insonnia totale e prolungata può portare soltanto a una conseguenza: la morte.

    E poi, certo, c’è la storia di Max e Laura.

    1. MAX

    Il sibilo della vettura che fende l’aria nel tunnel è incessante. Non riesco ad assopirmi.

    Sollevo una palpebra: meno quindici.

    Sollevando anche l’altra, eseguo una semi-panoramica in senso orario, il cui risultato netto è un’invidia feroce: invidio l’impiegato che dorme con la testa buttata all’indietro e la bocca spalancata, abbandonato in una delle poltroncine, la giacca sgualcita e la cravatta arrampicata su una spalla. Invidio la signora che russa senza ritegno, così piegata in avanti che il suo naso fa da segnalibro alla rivista che tiene sulle ginocchia. Invidio il ragazzo in tuta da meccanico che sonnecchia appeso a uno dei sostegni. La metropolitana frena, lui si scuote, cambia posizione, trova un nuovo instabile equilibrio e subito ricade in letargo.

    Li invidio perché rubano scampoli di riposo al tempo inutile del viaggio che conduce dal punto di partenza A all’inesorabile destinazione quotidiana che li attende in B.

    Sbadigliando, tiro fuori dal mio zaino un manuale di storia del cinema di variemila pagine. Lo apro nel mezzo di un capitolo che, a pochi giorni dall’esame, dovrebbe essermi familiare e non lo è. Per qualche istante inseguo le frasi tentando di concentrarmi sul loro senso.

    Un’oasi di piacere coi capelli biondi si è fermata proprio di fronte a me. Mi sistemo meglio sul sedile, cercando di far sparire dal viso la voglia di cuscino. Quando mi sembra di tornare degno di interesse, accendo la sfida posandole gli occhi negli occhi. Lei mette su un’aria sostenuta, si gira e guarda altrove.

    Ho vinto il premio oltremisura goffo duemilaventi.

    Deglutisco e mi rituffo a fissare le pagine del manuale, fingendomi del tutto disinteressato alla sconosciuta, così come al resto dell’umanità. La stanchezza rende le frasi troppo complesse, incroci inestricabili di scritture morte mai tradotte. Desisto. Chiudo il tomo, lo guardo disgustato per un attimo e lo ripongo nello zaino.

    Meno undici.

    Due ragazzini irrompono nel vagone urlando con voci stridule e tono cantilenante, come attenendosi a una particolare forma di slang tipica delle borgate che sorgono lungo la Tiburtina.

    Quasi rimpiango il monotono frastuono della metro.

    Uno dei due scatta foto col cellulare, immortalando a turno i passeggeri addormentati e quelli desti che fingono di guardare altrove, o particolari del vagone il cui interesse mi sfugge. A ogni scatto assume una posa diversa – tenendo il cellulare ora sopra la testa, ora fra le gambe, ora dietro la schiena – e sogghigna soddisfatto, mentre l’altro, fra un rutto e una bestemmia, lo invita a postare una storia su Instagram.

    Ora la sua attenzione si è concentrata su un tipo seduto davanti a me, sulla trentina, carnagione e lineamenti che denunciano la sua origine medio-orientale, direi araba. L’uomo è preda di una forte agitazione: suda, sussurra qualcosa fra le labbra – come recitando una preghiera – e pare non riuscire a stare fermo. Fra le dita stringe un libretto con la copertina nera, che tormenta senza posa: lo apre, volta nervosamente una dopo l’altra le pagine stropicciate, si ferma, sembra iniziare a leggere, poi all’improvviso lo richiude di scatto. Dopo alcuni secondi, il rito si ripete.

    Il ragazzino scatta qualche foto all’uomo, troppo occupato a eseguire il suo balletto nevrotico per accorgersene. A un tratto il suo amico assume un’aria grave e indica qualcosa, dandogli di gomito con energia.

    In quel momento la metro frena e vengo distratto dalle targhe bianche che scorrono oltre i vetri dei finestrini: Termini.

    Metà della città entra nel vagone. Perdo di vista i due piccoli lord, la bionda senza gusto e il prete anfetaminico. In cambio, ottengo una folla di corpi. Troppi: impossibile concentrarsi su uno, senza vederli tutti.

    Quando mi domandano come possano piacermi quelle stronzate post apocalisse dove zombie, catastrofi naturali e virus decimano la popolazione umana – con risultati più o meno democratici – e trasformano la Terra in una landa in gran parte disabitata, io rispondo semplicemente: Metropolitana, ora di punta. Oppure: traffico bloccato sul Grande Raccordo Anulare.

    Potrei aggiungere: riunioni condominiali, centri commerciali nei giorni che precedono il Santo Natale, Lapo Elkann… ma non serve. Metropolitana all’ora di punta strangola la discussione. Ingorgo sul Raccordo Anulare fa sì che la domanda non ti venga mai più posta, neanche da amici e parenti di chi l’ha formulata.

    Il mondo è sovraffollato e ci vorrebbe un nuovo inizio, tipo The Walking Dead, ma senza Zombie. Perché, parliamoci chiaro, a me degli Zombie non frega un cazzo.

    Ah, dimenticavo: l’idea è mia e devo necessariamente far parte di chi sopravvive, ovvio.

    Sbuffo la mia noia in un’aria che si è fatta irrespirabile, attendendo con ansia l’apertura delle porte alla fermata successiva. Ma la metro pare muoversi più lenta del solito, svogliata o sonnolenta anche lei. Una lunga culla di metallo che viaggia sottoterra a una media di quaranta chilometri orari.

    Una signora sul quintale mi riporta alla realtà, cercando di attirare la mia attenzione: vorrebbe il posto. Io evito il suo sguardo, ma lei non si arrende e si schiarisce la voce con ostentazione. Per quanto mi riguarda può mettersi a cantare un passo dell’ Aida a squarciagola. Il fesso seduto accanto a me invece si alza e la invita a sedersi. Chissà dove ha appoggiato l’armatura.

    Finita l’eclissi di cicciona, al centro della scena tornano l’uomo col libretto e i due ragazzini che, per la pace di tutti gli altri passeggeri, ormai sembrano attratti esclusivamente da lui.

    Mi accorgo che hanno smesso di scherzare: uno sussurra qualcosa all’orecchio dell’altro, che annuisce in tono grave. Lanciando occhiate circospette in direzione dell’arabo si allontanano verso l’altro capo del vagone. Si attaccano alla porta, come presi da un’improvvisa fretta di uscire.

    Cos’hanno visto?

    Guardo l’uomo: dal modo in cui freme sul sedile pare abitato da un demone. Ma a parte questo…

    Istintivamente, controllo le reazioni degli altri passeggeri: la maggior parte dorme. I pochi svegli si dividono fra quelli inebetiti tipo vacche sacre che si aggirano per le strade di Calcutta e quelli persi nei propri pensieri.

    Che informazioni trarre dalla scena?

    Il buon vecchio ‘sti cazzi mi appare sempre il commento più opportuno.

    Distolgo l’attenzione e penso che non si arriva mai. E non riesco né a studiare né a dormire. Ma poi la vettura si ferma, si aprono le porte e quei due schizzano fuori più rapidi che se stesse per esplodere il…

    Ah, ecco.

    Anche uno come me, vittima di grave assuefazione al grigiore quotidiano, non può fare a meno di giungere a conclusioni impossibili da ignorare.

    Torno per l’ennesima volta a guardare l’uomo seduto di fronte a me: vedo la sua bocca, le labbra che si muovono rapide, liberando un fiume di parole mute. Osservo le dita che senza tregua aprono e chiudono il libretto, la fronte alta, bagnata di sudore. Le occhiaie, profondi cerchi scuri, visibili nonostante la carnagione olivastra. Poi mi concentro sullo strano rigonfiamento sotto la giacca lisa e scolorita.

    E se fosse il calcio d’una pistola?

    Macché. Mi sto facendo influenzare da un paio di ragazzini che si cibano di video raccapriccianti su YouTube. Di quelli che se dici: arabo, gli compare una vignetta a lato della fronte, modello fumetto, con dentro scritto: terrorista.

    Sarà, non so… Potrebbe essere qualunque cosa.

    (e quindi anche una pistola)

    Ma dai…

    La metro rallenta. Guardo fuori dal finestrino: meno quattro.

    Mi abbandono sulla poltroncina. Le palpebre diventano pesanti. Si abbassano lentamente. Una parte di cervello mi comanda di tenere gli occhi aperti (ma come, ti addormenti ora che sei quasi arrivato?), senza troppo successo.

    Mi assopisco.

    Poi, un urlo:

    Bastaaaa!

    Apro gli occhi, tornando a galla dal limbo tra veglia e sonno. Di fronte a me, in piedi al centro del vagone, l’arabo agita il libretto con la copertina nera davanti al volto, come a mostrare il motivo della sua disperazione. Nell’altra mano impugna una pistola. Nei suoi occhi, sbarrati e iniettati di sangue, leggo un orrore indicibile.

    Finalmente il grido, che pareva infinito, cessa. Nel vagone cala un improvviso silenzio. L’uomo solleva la pistola e comincia a muoverla intorno a sé, come in cerca di un bersaglio. Io e gli altri passeggeri ci schiacciamo contro le porte, contro le pareti del vagone, contro i sedili. La donna grassa seduta accanto a me mi afferra per una spalla, spingendomi in avanti, nell’assurdo tentativo di nascondersi dietro la mia schiena. Istintivamente punto i piedi, come se in quel momento la cosa più importante fosse non perdere il posto.

    Bastaaaa!, urla di nuovo l’uomo, puntando la pistola verso un punto imprecisato in fondo al vagone. Poi, con voce più bassa: Lasciatemi in pace.

    Mentre lotto per non essere scaraventato giù dal sedile, mi accorgo che sulla potenziale traiettoria dello sparo c’è un uomo in elegante completo blu, capelli corti e bianchi, che osserva la scena con freddezza, come non ne facesse parte. È l’unico passeggero che non arretra, non si affanna a cercare vie di fuga, non mostra alcuna paura.

    La metropolitana rallenta, pronta a fermarsi alla prossima stazione. Potenza dell’abitudine, stacco gli occhi dall’uomo in blu e cerco di decifrare la scritta sulle targhe bianche che sfilano dietro al vetro: una, due, tre volte. Sempre più leggibili.

    Meno una.

    Con un gesto lentissimo, l’arabo abbassa la pistola, all’altezza del fianco. Poi la risolleva e se la spinge con forza contro la tempia, per combattere il tremore che si è impossessato della mano. Nei suoi occhi si scorge un lampo di tenerezza.

    Laura…, sussurra.

    La metropolitana si ferma.

    La pistola fa fuoco.

    Lo vedo afflosciarsi sulle ginocchia come un burattino cui siano stati recisi i fili. Una chiazza di sangue si allarga dietro la nuca appoggiata a terra.

    Le porte si spalancano, facendomi sussultare. Alcuni passeggeri, come me, restano inchiodati al loro posto, altri si precipitano fuori dal vagone, i volti cerei e il fiato spezzato in gola. La fretta e l’ansimare innaturale di chi esce, incespicando e invocando aiuto, allarmano le persone in attesa di entrare. Così, quando la visuale si apre sul corpo riverso sul pavimento della vettura, nessuno varca la porta.

    Un militare in divisa, gli occhi sullo schermo dello smartphone e un fesso sorriso che gli allarga la bocca, avanza due passi ciechi nel vagone e finisce per calpestare la mano del suicida. Finalmente si accorge del cadavere e caccia un urlo, facendo un balzo indietro, sotto gli occhi sgomenti delle persone alle sue spalle.

    Totalmente ignaro di ciò che sta accadendo, il conducente chiude le porte e rimette in moto la vettura. Dagli altoparlanti una voce metallica annuncia la fermata successiva.

    Respiro profondamente, interrompendo un’apnea che durava dal brusco risveglio. Allungo le gambe, cercando di allentare la tenaglia che mi blocca i muscoli, e la punta della scarpa incontra un ostacolo: il libretto dell’uomo che si è appena sparato, quello che pareva provocargli così tanta agitazione, è a pochi centimetri dai miei piedi, proprio accanto allo zaino.

    Qualcuno tira il freno d’emergenza. Un forte stridore metallico invade il vagone e il contraccolpo mi piega in avanti. Il libretto è così vicino alle mie dita che potrei…

    Con un gesto istintivo, lo afferro e lo infilo nello zaino.

    Mi alzo di scatto, preso dalla smania di uscire. Ma, prima di fermarsi, il vagone si è già allontanato dalla banchina. Oltre i finestrini c’è solo il buio del tunnel.

    Sono bloccato nella metropolitana con il cadavere di un suicida che ho appena derubato.

    E ora?

    2.

    Le luci vanno e vengono, intermittenti. Attimi di buio calano pietosi nel vagone, alternati ad altri in cui la fluorescenza del neon restituisce agli occhi dei passeggeri la realtà di un giorno fuori dall’ordinario. La vettura si muove lentamente all’indietro, uscendo dal tunnel e riconquistando man mano la banchina della fermata precedente, dove alcuni agenti di polizia assistono, pronti a intervenire a manovra ultimata.

    All’interno, gli sguardi e i corpi stessi dei passeggeri sembrano calamitati dalla porta più vicina, in attesa che si apra permettendogli di mettere più distanza possibile fra loro e il cadavere.

    Eppure, osservando meglio – come in quei giochi enigmistici in cui la bravura consiste nel rintracciare gli elementi scollegati dall’insieme – possiamo notare due eccezioni:

    La prima è Max, un trentenne in jeans scoloriti e felpa due misure troppo larga. Non si accalca con gli altri di fronte a una delle uscite, ma guarda preoccupato gli agenti sulla banchina. Posa il suo zaino su uno dei sedili e lo apre, sbirciando per qualche secondo al suo interno. Sospira, come liberandosi di un dubbio, e alla fine stringe i cordini che lo serrano, gettandoselo in spalla.

    La seconda è un elegante uomo in completo blu. Se ne sta in fondo al vagone, tranquillamente appeso a uno dei sostegni, come se la metro fosse impegnata in una delle sue corse abituali.

    Sembra considerare priva di interesse ogni cosa che lo circonda, ma in realtà non perde mai di vista Max, scrutandolo con la serena curiosità con cui si studia un raro esemplare del regno animale allo zoo.

    3.

    Laura affonda il cucchiaio nella vaschetta e lo porta alla bocca. Il sapore della crema gelato le infonde un brivido di piacere. Ha i capelli biondi tagliati corti, a caschetto, e gli occhi azzurro-grigi, gocce di ghisa rovente incastonate in un ovale lungo e spigoloso.

    Al telegiornale, una dopo l’altra, arrivano nuove notizie sull’uomo che si è sparato poche ore prima in una vettura della metropolitana di Roma. Nonostante il suicida sia di etnia araba, dice il conduttore, la dinamica del gesto sembra far escludere l’ipotesi che stesse per commettere un atto terroristico.

    Laura guarda nella vaschetta, ormai quasi vuota. Finire il gelato o non finirlo, questo è il

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