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Garibaldi
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E-book289 pagine6 ore

Garibaldi

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Info su questo ebook

Cura e introduzione di Riccardo Reim

Edizione integrale

A Giuseppe Garibaldi, del quale fu sincero amico ed entusiasta ammiratore, Alexandre Dumas dedicò due libri: queste Mémoires de Garibaldi redatte nel 1860 e I garibaldini, scritto l’anno successivo, al seguito della spedizione dei Mille. Le gesta del protagonista dell’Unità d’Italia rivivono nella narrazione dumasiana come in un moderno reportage giornalistico, attraverso conversazioni, lettere, appunti, testimonianze, aneddoti. Tutto l’infiammato, esaltante clima delle spedizioni garibaldine è ricostruito senza retorica e con una sobria fedeltà ai fatti, così come l’irripetibile atmosfera di un’epoca ormai lontanissima di sentimenti “belli” e “nobili”, di cuori puri, di romantiche improvvisazioni, di amor di patria; un’epoca di grandi ideali in cui, forse ingenuamente, si credeva davvero di poter cambiare il mondo rischiando il proprio sangue al seguito di un uomo come l’Eroe dei Due Mondi, già in vita avvolto da un alone di leggenda.

Alexandre Dumas

(1802-1870) fu uno degli scrittori più popolari della sua epoca. Autore eccezionalmente fecondo, ha legato il suo nome a più di trecento opere di narrativa (oltre al celebre ciclo de I tre moschettieri, ricordiamo Il Conte di Montecristo, La regina Margot, La Sanfelice, Il tulipano nero), di saggistica, di teatro e di viaggio, molte delle quali destinate a non tramontare, ancora oggi lette e amate in tutto il mondo da milioni di lettori. Di Dumas la Newton Compton ha pubblicato: I tre moschettieri e Vent’anni dopo, Il Visconte di Bragelonne, Il Conte di Montecristo, Garibaldi, Robin Hood, Il tulipano nero, La regina Margot e I Borgia.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2014
ISBN9788854176225
Garibaldi
Autore

Alexandre Dumas

Alexandre Dumas (1802-1870), one of the most universally read French authors, is best known for his extravagantly adventurous historical novels. As a young man, Dumas emerged as a successful playwright and had considerable involvement in the Parisian theater scene. It was his swashbuckling historical novels that brought worldwide fame to Dumas. Among his most loved works are The Three Musketeers (1844), and The Count of Monte Cristo (1846). He wrote more than 250 books, both Fiction and Non-Fiction, during his lifetime.

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    Anteprima del libro

    Garibaldi - Alexandre Dumas

    PARTE PRIMA

    Alla difesa dei popoli oppressi

    La giovinezza sui mari

    Sono nato a Nizza il 22 luglio 1807, non solo nella casa, ma nella camera dove prima di me nacque Massena. L’illustre maresciallo, com’è risaputo, era figlio di un fornaio. Anche al giorno d’oggi, al pianterreno, vi è la bottega di un panettiere. Prima di parlare di me stesso, mi si permetta di dire una parola sul conto dei miei genitori. Mio padre, Domenico Garibaldi, nato a Chiavari, era figlio di un marinaio e aveva seguito la professione del padre: i suoi occhi, aprendosi, si erano specchiati nel mare sul quale avrebbe passato quasi tutta la vita. Certo, non aveva potuto farsi quell’istruzione necessaria agli uomini della sua condizione, indispensabile soprattutto nell’epoca in cui viviamo. I suoi studi li aveva compiuti non in una scuola speciale, ma sui bastimenti di mio nonno. Così, più tardi era giunto lui stesso a comandare una nave, e aveva sempre saputo cavarsela con onore. La sua fortuna aveva subìto parecchie alterne vicende, le une felici, disgraziate le altre, e più volte l’avevo udito ripetere che avrebbe potuto lasciarci più ricchi. Non per questo mi lagno. Povero padre! Era libero di spendere a suo piacere il denaro che guadagnava con tante fatiche, e io gli sono riconoscentissimo per il poco che mi ha lasciato. Del resto, c’è una cosa di cui non posso dubitare, ed è che il denaro da lui dilapidato con maggior piacere fu quello speso per la mia educazione.

    Ma non si creda con ciò che la mia educazione sia stata troppo aristocratica. Io imparai la ginnastica arrampicandomi sugli alberi e lasciandomi scorrere lungo i cordami delle navi, la scherma difendendo la mia testa e facendo del mio meglio per rompere quella degli altri, e l’equitazione imitando i primi cavalieri del mondo, vale a dire i gauchos.

    Il solo, vero esercizio fisico della mia gioventù – e anche in questo non ebbi maestri – fu il nuoto. Come e quando imparai a nuotare, non lo ricordo: mi pare di avere sempre conosciuto questo esercizio e di essere nato anfibio. Perciò, malgrado la poca tendenza che ho a tessere l’elogio di me stesso – e coloro che mi conoscono possono affermarlo – pure, senza vantarmi, mi reputo uno dei migliori nuotatori del mondo. Non bisogna dunque stupirsi se, fondando una illimitata fiducia nelle mie forze, non ho mai esitato un solo momento a gettarmi in acqua per salvare un mio simile.

    In quanto a mia madre, Rosa Raimondi, lo dico con orgoglio, era il modello delle mogli. Certo, ogni figlio deve tenere un simile linguaggio parlando di sua madre, ma nessuno può pronunciarsi con maggior convinzione di me. Il più grande dispiacere della mia vita è quello di non aver potuto renderla felice, e anzi di aver rattristato gli ultimi giorni della sua esistenza. Dio solo sa quali torture le cagionò la mia avventurosa carriera, poiché Dio solo sa quanta tenerezza nutrisse per me. Se qualche sentimento generoso alberga nel mio cuore, debbo dire che mi è stato ispirato da lei. Il suo angelico carattere doveva necessariamente riflettersi nel mio. E non è forse alla sua pietà per la sventura, alla sua compassione per le altrui sofferenze che io devo il grande amore, dirò meglio, la mia carità per la patria? carità che mi valse l’affetto e la simpatia dei miei sventurati concittadini?

    Non sono superstizioso: tuttavia, oso affermare che nelle più terribili circostanze della mia vita, quando l’oceano muggiva sotto la carena e contro i fianchi della mia nave; quando le pallottole fischiavano alle mie orecchie come il vento dell’uragano; quando la mitraglia mi pioveva intorno come la grandine, io la vedevo sempre inginocchiata, le labbra mormoranti una preghiera, genuflessa davanti all’Altissimo, implorante per me, frutto delle sue viscere; e quello che m’ispirava il coraggio di cui molti si stupirono era proprio l’intima persuasione che non potesse capitarmi alcuna sventura mentre una santa donna come lei pregava per me.

    Trascorsi i primi anni della mia giovinezza come tutti i fanciulli, tra le risa e le lacrime, più amante dei trastulli che del lavoro, dei piaceri che dello studio; e certo non approfittavo (come avrei dovuto, se fossi stato più savio) dei sacrifici che i miei genitori affrontavano per me. Nulla di strano accadde durante la mia infanzia. Avevo un cuore buono, dono di Dio e di mia madre, e gli slanci del cuore li ho sempre soddisfatti. Sentivo una profonda pietà per tutto ciò che è piccolo, debole e sofferente. Questo sentimento si estendeva fino agli animali. Ricordo che un giorno raccolsi un grillo e lo portai nella mia camera per giocare, ma toccandolo con malagrazia, o piuttosto con una certa brutalità infantile, gli spezzai una zampina: il mio dolore fu tale che mi chiusi in camera e ne piansi per molte ore. Un’altra volta, andando a caccia con un mio cugino, sul Varo, mi fermai lungo il margine di un profondo fosso nel quale alcune lavandaie risciacquavano i panni. Una di queste, una povera vecchia, non so come cadde nell’acqua. Senza por tempo in mezzo, sebbene non avessi che otto anni, mi gettai nel fosso e la salvai. Valga questo aneddoto a dimostrare che l’impulso a soccorrere il mio simile è in me naturale, e che ho poco merito nel secondarlo.

    Fra i maestri, ricordo con particolare riconoscenza papà Giovanni e il signor Arena. Dal primo trassi poco profitto, perché ero più disposto a giocare e a vagabondare che a studiare. Tuttavia, mi rimane il rimorso di non avere studiato l’inglese come avrei potuto fare, rimorso ridestatosi in tutte le numerose circostanze nelle quali ho avuto a che fare con inglesi. Inoltre, le lezioni di papà Giovanni, che era amico di casa, furono poco proficue a causa della dimestichezza che avevo con lui. Al secondo, eccellente maestro, debbo quel poco che so; ma soprattutto gli serbo eterna riconoscenza per avermi iniziato alla mia lingua madre con l’assidua lettura della storia romana. Spesso in Italia, e specialmente a Nizza, la cui vicinanza con la Francia influisce sull’educazione, si commette la grave colpa di non istruire i bimbi nella lingua e nella storia; io ne sono dunque debitore a quelle prime letture nonché alla persistenza quotidiana di Angelo, mio fratello maggiore, nel raccomandarmene lo studio: quel poco di conoscenza storica che sono giunto a possedere e la facilità con cui mi esprimo sono merito loro.

    I primi viaggi

    Terminerò questo primo periodo della mia vita con il racconto di un fatto, che sebbene di lieve importanza, darà un’idea della mia disposizione alla vita avventurosa. Stanco della scuola e annoiato dalla mia oscura esistenza, un giorno feci la proposta ad alcuni amici di scappare a Genova. Detto, fatto. Staccammo una barca da pesca dall’ormeggio e ci ponemmo in cammino verso oriente. Eravamo all’altezza di Monaco, quando un corsaro, spedito dal mio buon padre, ci catturò e ci restituì, avviliti e compunti, alle nostre rispettive case. Un abate, vedendoci partire, ci aveva denunciati: e forse da questo fatto deriva la mia antipatia per tutti gli abati del mondo. I miei compagni di escursione erano, ancora lo ricordo, Cesare Parodi, Raffaello De Andreis e Celestino Bermond.

    «O primavera, gioventù dell’anno! o gioventù primavera della vita!», ha detto Metastasio. Io aggiungerò: come tutto diventa bello al sole della gioventù della primavera!

    La mia vocazione era di correre sui mari. Mio padre si era opposto finché aveva potuto: avrebbe preferito per me una carriera tranquilla e senza pericoli, quella del prete, dell’avvocato o del medico; ma la mia pertinacia la vinse, e mi imbarcai sul brigantino Costanza, comandato da Angelo Pesante, il più ardito capitano di mare che io abbia mai conosciuto. Se la nostra marina fosse aumentata, come si aveva diritto di sperarlo, il capitano Pesante avrebbe potuto aspirare al comando di uno dei primi vascelli da guerra, e nessuno lo avrebbe meritato più di lui. Feci il mio primo viaggio a Odessa. I viaggi di questo genere, da allora in poi, sono divenuti così facili e comuni che trovo inutile farne il racconto. Il mio secondo viaggio fu per la foce del Tevere, ma questo lo intrapresi con mio padre: aveva provato tali smanie durante la mia assenza, da decidere che avrei sempre viaggiato con lui, se quello era proprio il mio desiderio. Partimmo per le coste del Lazio con la sua tartana, la Santa Reparata.

    L’idea di vedere Roma mi riempiva di gioia. Ho già detto che per i consigli di mio fratello e le cure del mio degno professore, i miei studi si erano concentrati su questo solo argomento: Roma! Che cos’era per me, fervente ammiratore dell’antichità, se non la capitale del mondo? E per le sue rovine immense, gigantesche, sublimi, per la memoria di tutto ciò che fu grande nel passato, era non solo la capitale del mondo, ma la culla di quella santa religione che ha spezzato le catene degli schiavi e nobilitato l’umanità calpestata! di quella religione i cui primi, veri apostoli, furono i maestri delle nazioni, gli emancipatori dei popoli, ma i cui successori degeneri, imbastarditi, mercanti, veri flagelli d’Italia, hanno venduto la loro madre, o, dirò meglio, la nostra comune madre allo straniero. La Roma che io vedevo nei sogni della mia gioventù non era soltanto la Roma del passato, ma anche la Roma dell’avvenire, piena dell’idea rigeneratrice di un popolo perseguitato dalle potenze gelose perché essa è nata grande, perché ha camminato alla testa delle nazioni, guidandole sulla via della civiltà. Lungi dal diminuire, il mio amore per Roma ingigantì nella lontananza e nell’esilio. Spesso, fin troppo spesso, dall’altro emisfero, alla distanza di tremila leghe, domandavo al cielo la grazia di rivederla. Roma era per me l’Italia, perché io non so concepire l’Italia che nella riunione delle sue sparse membra, e Roma è per me il vero simbolo dell’unità italiana.

    Per qualche tempo viaggiai con mio padre; poi andai a Cagliari sul brigantino Etna, comandato dal capitano Giuseppe Cervino. In quel viaggio fui testimone di un fatto orribile che non potrò mai dimenticare. Ritornando da Cagliari, navigavamo all’altezza di Capo di Noli con altre navi fra le quali si trovava una graziosa feluca catalana. Dopo due o tre giorni di bel tempo, sentimmo parecchie raffiche di quel vento dai nostri marinai chiamato libeccio perché prima di giungere al Mediterraneo passa sopra il deserto della Libia. Sotto quel soffio il mare non tardò a ingrossarsi; poi il vento cominciò a infuriare con tale impeto da spingerci senz’altro verso Vado. La feluca catalana della quale ho parlato sulle prime resse benissimo, anzi, non esito a dire che noi tutti, giudicando della sveltezza della corsa, avremmo preferito essere a bordo di quella feluca piuttosto che sul nostro legno. Ma la povera barca era destinata a darci un crudele spettacolo: una furiosa ondata spazzò il ponte; per qualche attimo vedemmo pochi sventurati che ci stendevano le mani, poi anche costoro furono ingoiati da un’ondata più terribile della prima. La catastrofe si era svolta sottovento: eravamo, quindi, nella materiale impossibilità di soccorrere quei disgraziati.

    Le altre barche che ci seguivano si trovavano nella medesima impossibilità. Nove persone di una stessa famiglia perirono miseramente a poca distanza da noi. Le lacrime caddero persino dagli occhi dei più insensibili, però furono presto asciugate dal sentimento del comune pericolo. Ma quasi che i geni malefici si fossero appagati di quell’umano sacrificio, le altre navi giunsero senza altre sventure a Vado. Da Vado partii per Genova e da Genova ritornai a Nizza. Dopo di che cominciai una serie di viaggi in Levante, durante i quali per tre volte fummo presi e spogliati dai pirati. Questo fatto si verificò due volte nel medesimo viaggio, cosa che mise in furore i secondi pirati che non sapevano cosa prenderci. Queste disavventure cominciarono a familiarizzarmi con il pericolo, e mi accorsi che, senza essere Nelson, per grazia di Dio, potevo domandare come lui: Che cos’è la paura?

    Durante uno di questi viaggi, sul brigantino Cortese, comandato dal capitano Barlasemeria, caddi ammalato a Costantinopoli. La nave fu obbligata a partire, e la malattia, prolungandosi più del previsto, fece subire una terribile crisi alla mia borsa. In tutte le sventure della mia vita, in qualunque luogo mi sia trovato, in pericolo anche di perdere tutto, non ho dovuto mai occuparmi troppo della mia situazione critica, perché ho sempre avuto la buona fortuna di trovare un’anima caritatevole disposta a interessarsi della mia sorte. Una di queste, che non potrò mai dimenticare, fu la buona signora Luigia Sauvaig di Nizza, eccellente creatura: lei e mia madre sono indubbiamente le due donne più perfette del mondo. La guerra in corso tra la Porta Santa e la Russia contribuì a prolungare il mio soggiorno nella capitale dell’Impero turco. Durante questo periodo, incerto com’ero del mio domani, fui ammesso in qualità di precettore presso la vedova signora Timoni. Tale impiego lo ottenni per raccomandazione del signor Diego, dottore in medicina, che pubblicamente ringrazio del servizio che mi ha reso. Entrato in quella casa come maestro di tre fanciulli, vi rimasi parecchi mesi, dopo i quali tornai a navigare, imbarcandomi sul brigantino Nostra Signora delle Grazie del capitano Casabona. Fu il primo bastimento sul quale ebbi funzioni di

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