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Il Muro di Berlino 1961-1989: Il racconto di un'epoca attraverso le storie dei grandi e piccoli protagonisti
Il Muro di Berlino 1961-1989: Il racconto di un'epoca attraverso le storie dei grandi e piccoli protagonisti
Il Muro di Berlino 1961-1989: Il racconto di un'epoca attraverso le storie dei grandi e piccoli protagonisti
E-book294 pagine4 ore

Il Muro di Berlino 1961-1989: Il racconto di un'epoca attraverso le storie dei grandi e piccoli protagonisti

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Info su questo ebook

A Berlino, pochi anni dopo la caduta, già non ci si ricordava più il punto esatto dove correva il Muro, segnato ora da una striscia di sampietrini color sangue. Si è dovuto ricorrere alle foto dei satelliti. Basta un tempo breve e la storia rischia di svanire.  In questo libro si ripercorre, in presa diretta, la grande e piccola storia della Germania dal 1961 al 1989, attraverso le vicende e i racconti di chi è stato protagonista, anche se involontario, di quegli accadimenti. Si disse che il Muro era caduto a Berlino, ma le macerie erano finite in Italia. E da allora la storia del nostro paese cominciò a cambiare.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita26 nov 2019
ISBN9788832176940
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    Anteprima del libro

    Il Muro di Berlino 1961-1989 - Roberto Giardina

    Prefazione

    La storia del muro di Berlino è la storia della Guerra fredda, dalla sconfitta del Terzo Reich, dal ‘45 a quasi la fine del XX secolo. La barriera in cemento di pessima qualità tagliava una metropoli di tre milioni di abitanti e come una cicatrice segnava il nostro mondo, e ciascuno di noi. Ogni tensione a Berlino aveva un’eco altrove, e ogni crisi lontana, a Cuba nei Caraibi, in Israele o in Vietnam o in Cile, si ripercuoteva a Berlino, i carri armati dell’Armata Rossa e i tanks a stelle strisce si affrontavano lungo il muro, nel cuore della città.

    Ed è una storia di uomini e di donne, divisi dal muro. Non solo a Berlino. Quanto a lungo resiste un amore se non ci si può vedere? E una nazione, un popolo, rimane unito se è diviso per quasi mezzo secolo? Persino la lingua lentamente cambiò al momento del crollo nel 1989 già esisteva un vocabolario per intendersi tra tedesco dell’Ovest e tedesco dell’Est. Parole contaminate dal russo da una parte, dallo slang americano dall’altra. Plastica: plast all’Est, plastik all’Ovest. Due lingue, due modi di pensare, di vivere.

    Due parti separate dal muro che si allontanarono anche nel tempo. Berlino Ovest era una vetrina della società opulenta e moderna. Berlino Est imprigionata nel passato, agli anni Cinquanta, silenziosa, respirava un’altra aria, impregnata di carbone e di benzina mal raffinata.

    Nel libro si parla molto di spie, di uomini e donne che tradivano, giocavano su due fronti, per amore, per denaro, per vendetta o rivalsa, spesso non sapevano neanche loro il perché. Era la condizione in cui si viveva, costretti ogni giorno a dover compiere una scelta. Se la scelta era impossibile, si cadeva in trappola.

    Infine, violando una regola professionale, troppo spesso – temo - scrivo in prima persona. Ma per decenni, vivendo in Germania, e a Berlino, sono stato coinvolto in eventi storici, o in episodi personali, testimone o comparsa, e non posso raccontarli senza spiegare come riuscii a vedere quel che vidi. A volte, per capire la storia sono importanti le storie private.

    Il Muro

    Agosto 1961

    Il giovane in uniforme salta, il fucile in spalla, leggero sul filo spinato, guarda in basso, la gamba destra protesa in avanti. Salta e rischia la vita, ma non pensa alla morte, al futuro che lo attende, se giunge al di là. La foto lo ferma nel salto, sospeso per sempre in quell’istante sopra la barriera che divide il mondo. Sarà un simbolo del secolo, fuggiasco o eroe, perché ha perso se stesso nella foto che lo blocca in un istante eterno. Il soldato del Muro, senza nome, e nulla più.

    Conrad Schumann, febbraio 1990

    «Ero tentato fin dall’alba, andavo avanti indietro lungo il rotolo di filo spinato; ora o mai più e saltai». Si chiamava Conrad Schumann, aveva 19 anni, era caporale dell’esercito della Germania Est: giunse nel mondo libero a piè pari, il fucile in spalla.

    L’ho incontrato e mi racconta quel giorno, quel momento, 28 anni dopo, nel soggiorno della sua villetta alla periferia di Ingolstadt, in Baviera. Ho davanti a me un uomo appesantito, il viso gonfio, forse per l’alcol. La moglie Kunigunde i due figli lo guardano con distacco, con sufficienza, non capiscono perché tutti a un tratto vengano a trovare il marito, il padre. Conrad è operaio alla Audi.

    «Che cosa pensai mentre correvo verso il filo spinato… non ricordo, forse non pensai, o pensai che i miei compagni non mi avrebbero sparato alle spalle. Ma non si sa mai».

    Conrad giunse dall’altra parte, nel mondo libero, e lo presero in custodia. Quindici giorni agli arresti: gli americani lo interrogarono a lungo, non si sa mai, poteva essere una spia dei rossi. Si sposa, un buon lavoro, i figli, questa è già tutta la sua vita.

    «Non sono tornato dall’altra parte. La Ddr esiste ancora, io fui condannato per la fuga, potrebbero sempre arrestarmi». Appunto, non si sa mai. Il muro è caduto il 9 novembre e siamo a febbraio, ma non si sa che fare. Unire le Germanie, o continuerà a esistere una Germania all’est e l’altra all’ovest, una ricca e l’altra no? La giornata è livida, gli alberi sono spogli nel piccolo giardino coperto di neve. Entra una luce grigia.

    E al suo paese, i suoi parenti, non vi siete subito cercati, non vi siete sentiti dopo il 9 novembre?

    «Per loro sono un traditore, non abbiamo avuto rapporti in questi anni, e neanche ora».

    I giornalisti sono andati a parlare con gli abitanti del suo paese natale in Sassonia, Zschochau, un nome impossibile , 653 abitanti nel 1990. Tutti ricordano il giovane Conrad che venne arruolato in altra epoca. «Un idiota», dice la vicina «è saltato, bella impresa, e ci ha messo tutti nei guai».

    «Tornerò», assicura un altro Conrad, ma è incerto, ho l’impressione che lo dica per me, perché crede che io me lo aspetti. «Tornerò quando tutto sarà finito, quando sarò sicuro… man weiss es nie», non si sa mai. La sua foto, fermato in quel salto, elegante, leggero, continua ad apparire nei libri di storia, sulle riviste, sui giornali, negli articoli rievocativi sul muro, è sulla copertina di molti libri in diverse lingue, la vendono come cartolina nei negozi di souvenirs. E non si ricorda mai il nome del soldato che salta.

    Conrad Schumann si impiccò otto anni dopo nel giardino della sua villetta, il venti giugno del 1998. Qualche riga nei giornali, una notizia a una colonna che lessi per caso. Una notizia imbarazzante da commentare. Un suicidio che rovina una bella storia.Mi rattristai, quel giorno nel soggiorno, davanti a moglie e figli che lo guardavano senza amore: sentii che Conrad cercava almeno la mia comprensione. Fermo in quel salto, non era mai giunto da nessuna parte. Ma per rispetto per quel giovane e per quell’uomo solo, non dovremmo dare un’interpretazione politica al suo ultimo gesto. Il mondo libero raggiunto con un bel salto cinematografico non valeva la pena di rischiare la vita? Non dovremmo chiederci perché qualcuno decide di uccidersi. Il perché, neanche Conrad, lo sapeva. Non si sa mai il perché.

    La foto, il 15 agosto

    Il caporale Conrad Schumann si agitava, andava su e giù per la Bernauerstrasse. Dall’altra parte lo notarono. Lo insultavano, lo incitavano, salta, salta. La sua unità era partita sabato 12 agosto all’alba da Dresda. Si cominciò a erigere il muro nella notte tra sabato e domenica, verso l’una. Per la missione giudicata pericolosa riceverà un soldo extra di 340 Ostmark. Fu comandato sulla Bernauerstrasse, all’angolo con la Rappinerstrasse. Conrad non dorme da 48 ore, ha sempre due compagni a fianco.

    Lo notò anche Peter Leibing, quasi un coetaneo, aveva vent’anni. Era un fotografo, ancora apprendista alla Conti Press di Amburgo. Lo hanno spedito a Berlino: laggiù succede qualcosa, datti da fare. Peter è andato alla Porta di Brandenburgo. Qualcuno gli suggerisce: vai alla Bernauer.

    Peter osserva Conrad, il soldato fuma nervosamente una sigaretta dopo l’altra, si avvicina al filo spinato, ne controlla l’altezza. Il rotolo è alto nemmeno un metro, forse 80 centimetri. Poi dirà di averlo sentito sussurare: «Io salto». Peter impugna una macchina fotografica con un tele da 200 millimetri. Conrad salta alle 16, lui scatta. Il soldato si piega appena sulle ginocchia, continua a correre, lascia cadere il fucile, un PPSh-41, lo circondano, lo portano via. Alla stazione di polizia, prima che lo prendano in consegna gli americani, chiedono a Conrad che desidera. Gli offrono un panino con un würstel.

    Peter e Conrad torneranno a vedersi venticinque anni dopo, per l’anniversario, l’agosto del 1986. Li hanno invitati, spesati. Li fotografano uno a fianco dell’altro, due facce di una storia, o della Storia. Leibig avrebbe potuto guadagnare una fortuna con la foto, sempre pubblicata, un milione di volte, ma i diritti erano dell’agenzia. È andato da un avvocato, ha perso.

    La Conti Press è fallita nel 1980, il negativo della sua foto è stato confiscato dal fisco. La foto ora fa parte della documentazione storica dell’Unesco. I fratelli Florian e Michael Brauer hanno installato una scultura, il salto del vopo, ma il municipio di Berlino non era d’accordo. Non è un’opera d’arte.

    Kennedy sorrise

    Il muro divise Berlino e il mondo, e prese tutti di sorpresa, l’estate di oltre mezzo secolo fa, il 13 agosto 1961. In realtà, tutti tirarono un sospiro di sollievo. Tutti condannarono a parole, nessuno reagì. Non si sarebbe tornati a morire per Berlino. Da quel giorno d’agosto si cominciò a morire a Berlino.

    I documenti, che dopo cominciarono a uscire dagli archivi, svelano che il Servizio informazioni federale (in sigla Bnd), il servizio segreto della Germania Ovest, era al corrente di quanto si stava per decidere nella Repubblica democratica tedesca. Il Bnd era di fatto una succursale dei servizi americani, quindi lo sapeva anche la Cia, e lo sapevano i capi occidentali. I sovietici non avrebbero mai osato una mossa così arrischiata senza essere sicuri delle conseguenze.

    Non potrà mai essere provato, ma è probabile che Mosca avvertì Washington, e si giunse a un accordo segreto sulle teste dei tedeschi dell’una e dall’altra parte. Venti giorni prima, il 25 luglio, Kennedy pronunciò quella che sembrava una severa minaccia all’Urss e alla Ddr: una rappresaglia militare sarebbe stata inevitabile se avessero osato attaccare Berlino Ovest e la Repubblica federale. Adenauer ne fu entuaista in apparenza, ma il cancelliere finse di non capire. In realtà Kennedy stava comunicando a Mosca che all’Est poteva fare quel che voleva, purché rispettasse la zona d’occupazione alleata. Come dire, costruitevi il vostro muro, se lo volete, ma non un metro oltre.

    Kennedy è in vacanza a Hyannis Port, nel Massachusetts, lo avvertono con quindici ore di ritardo che a Berlino stanno innalzando un muro. E il presidente sorrise. Non torna alla Casa Bianca né a Camp David, e salpa per andare a pesca come aveva programmato.

    Il generale Clay, il governatore del settore americano nella metropoli, avrebbe voluto inviare i carri armati a spianare quei rotoli di filo spinato, e sbriciolare i primi blocchi di cemento. Kennedy lo fermò: «Un muro è difensivo, la terza guerra mondiale non ci sarà». Meglio non reagire.

    Simbolicamente, le truppe americane stanziate a Berlino furono aumentate di 1500 uomini. La gente protestò, su un cartello inalberato tra la folla a Berlino si legge: «Wo ist der Kanzler, spielt er Boccia?», dov’è il cancelliere, sta giocando a bocce? Adenauer amava andare a Cadenabbia, in Italia. Charles de Gaulle è nella sua residenza di campagna, a Colombey- les- deux- Èglises, nelle Ardenne. Il premier britannico Harold MacMillan è a caccia. In vacanza si trovano i ministri degli Esteri di Francia e Gran Bretagna, Maurice Couve de Murville, e Frederick Douglas Home.Fu un’intesa che salvò la pace, sedici anni dopo la fine del Terzo Reich, e i milioni di morti della guerra.

    Il 26 giugno del 1963, John Kennedy in visita nella città divisa pronunciò la frase storica: «Ich bin ein Berliner», anch’ io sono un berlinese. Come noi tutti, quelli della generazione del muro. A pagare furono i tedeschi, e lo si riteneva giusto: dovevano scontare gli orrori del nazismo. Lo pensavano anche loro, i giovani tedeschi del Sessantotto.

    Il Muro fu provocato da una crisi economica. La Germania Ovest conosceva un incredibile boom, all’Est si stentava. Si passava dall’altra parte per conquistare la libertà e il Deutsche Mark. Nel 1989, mentre si sfaldava l’impero sovietico, si riprese a fuggire. Il muro si aprì, e i tedeschi dell’Est ottennero i loro marchi, affinché restassero a casa loro.

    Ma la Germania doveva sempre scontare la sua storia, e sacrificò il Deutsche Mark per pagare la riunificazione. Se oggi noi europei abbiamo l’euro, è colpa anche del muro. Il vero unico monumento del XX secolo è die Mauer, femminile in tedesco, una barriera di cemento, senza alcuna pretesa artistica. Infatti è scomparsa, fin quasi all’ultimo metro. Cancellata, eppure incombente. Le cicatrici della storia sono per sempre.

    Tutti al mare, come eravamo

    Eravamo tutti al mare quando cominciarono a costruirlo, nel 1961. Anche i politici. Presidente della Repubblica è Giovanni Gronchi, primo ministro Amintore Fanfani. I Beatles erano dei mocciosi di Liverpool, la tv in bianco e nero, si sognava la Fiat 500, erede della Topolino. Il 30 ottobre a Roma muore Luigi Einaudi, a 87 anni. In Alto Adige, attentati dinamitardi dei tirolesi che vorrebbero tornare con l’Austria. Raffaele La Capria vince il Premio Strega con Ferito a morte. Lo scudetto va alla Juventus, retrocedono con il Bari, la Lazio e il Napoli. Al cinema si vede La Notte di Michelangelo Antonioni, Jeanne Moreau, Virna Lisi e Marcello Mastroianni non trovano se stessi nella nebbia di Milano, o si ride amaro con Divorzio all’italiana di Pietro Germi, Pier Paolo Pasolini gira Accattone. Una buona annata per il nostro cinema.

    Eravamo poveri ma belli, come Maurizio Arena, e sempre meno poveri: Il sorpasso sarà dell’anno seguente. Sta per cominciare il miracolo economico, in ritardo sul boom tedesco.

    Dal sud si emigra a Torino. Dal Treno del Sole, così lo hanno battezzato, ogni mattina a Porta Nuova arrivano in mille con la valigia di cartone. O si va più lontano, nella Stoccarda della Mercedes, nella Wolfsburg del Maggiolino. Ma prima, si va a Verona per il controllo medico, il cinque per cento non ce la fa. Si parte con il contratto in tasca, dai campi di Sicilia o Calabria si finisce a mille metri nelle miniere di carbone del Belgio, o innanzi agli altiforni della Ruhr. Nessuno emigrava a Berlino.

    Si può avere nostalgia di quel Ferragosto di mezzo secolo fa solo perché eravamo più giovani. Per i ragazzi d’oggi, un avvenimento remoto come le guerre napoleoniche. Nelle scuole di Berlino, mi dicono, hanno tentato di parlare dei centocinquant’anni della nostra unità. «Non ci interessa», rispondono gli studenti. «Ma fu una riunificazione, come la nostra», insistono gli insegnanti. «Non ci interessa neanche il muro», tengono duro i liceali. «Noi trent’anni fa non eravamo nati». Nel ‘61, neanche i loro genitori.

    La vigilia

    Barbetta di ferro

    Walter Ulbricht nacque nel 1893 a Lipsia. Il padre era sarto. Nella Grande Guerra combatte da semplice soldato sul fronte orientale e nei Balcani. Negli ultimi giorni della Repubblica di Weimar è il capo del partito comunista , il Kpd, a Berlino. All’avvento di Hitler, fugge a Parigi, poi a Praga, infine nel 1938 arriva a Mosca, esule all’Hotel Lux, insieme con gli altri capi comunisti d’occidente. Al suo piano si trova la camera di Palmiro Togliatti. Non è facile sopravvivere per anni alle purghe del padrone di casa, Stalin imprevedibile e crudele. Oggi sei nelle sue grazie, domani condannato a morte, non ti spiegano neanche il motivo. Ce la faranno entrambi, e non potranno mai raccontare come.

    Nel 1945 Ulbricht torna a Berlino al seguito dell’Armata Rossa. La madre è morta nel 1943, uccisa dai bombardamenti alleati su Lipsia, la sorella Hildegard vive all’Ovest, ad Amburgo, poi emigra negli Stati Uniti rompendo i rapporti con il fratello. Nel 1949, è il primo capo della Germania Est, appena nata. Lo resterà per ventidue anni. Parlava sassone, un dialetto ostico, ed era vanitoso, negli Anni Cinquanta con il suo nome furono intitolate palestre, scuole, fabbriche, ebbe perfino l’onore d’un francobollo con il suo volto. Con ironia o con paura, lo chiamano "Eisenbart", Barbetta di ferro.

    Il 15 giugno del 1961, Ulbricht convoca una conferenza stampa, la giornalista Annamarie Doherr gli pone la domanda chiave: «La DDR ha l’intenzione di alzare il suo confine nel cuore di Berlino, alla Porta di Brandeburgo?» Ulbricht risponde: «Nessuno ha l’intenzione di alzare un muro a Berlino». Mancano due mesi al 13 agosto. Il 28 giugno arriva in visita Kruscev e dichiara: «Ich liebe Berlin». Il primo agosto, Ulbricht e Kruscev parlano al telefono, per due ore e quindici minuti, in russo, che Barbetta di Ferro ha imparato nei lunghi anni d’esilio a Mosca. In Germania Est non c’è da mangiare, il cibo è razionato, si lamenta Ulbricht; è vietato usare il latte per la panna, diventata un lusso impagabile, manca la frutta, la verdura fresca, ci si alimenta di crauti e di cetrioli in conserva. L’inverno è stato duro, la primavera piovosa, le patate sono marcite sotto terra.

    Di chi la colpa? indaga Kruscev.

    Contadini inetti, o nazisti nel cuore che sabotano la nuova Germania socialista, la Chiesa invita a disertare i campi, per non aiutare il regime dei senza Dio. Gli intellettuali, sempre infidi, fanno la fronda. Siamo costretti a comprare dalla Repubblica federale, continua Ulbricht, che parla con voce acuta, stridente. Abbiamo acquistato undici milioni di scarpe, ma non le abbiamo pagate: se non salderemo il debito entro il 15 agosto, Bonn minaccia di bloccare le forniture. La situazione precipiterà. Abbiamo congelato i salari, mancano 153 mila tonnellate di acciaio. Nelle tasche dei tedeschi ci sono oltre due miliardi di marchi, carta senza valore, perché non c’è nulla da comprare.

    Kruscev avverte: il Kgb è in possesso dei dossier stilati dai servizi segreti occidentali. Si prevede un’imminente insurrezione nella Germania Est. È Bonn a sobillare la popolazione, si difende Ulbricht, ma ammette: sì, è possibile una rivolta del popolo affamato, deluso.

    Chiuderemo Berlino in un cerchio di ferro, dice Kruscev, nessuno potrà più passare il confine. Noi costruiremo la barriera, ma in apparenza sotto il vostro controllo. Sarete voi a chiedere aiuto, nell’interesse dei Paesi socialisti, perché la vostra crisi metterebbe in pericolo la stabilità dell’intero blocco comunista, ma la decisione sarà del Cremlino.

    Una sollevazione obbligherebbe Mosca a a reagire come in Ungheria nel 1956. Berlino non è Budapest, gli Occidentali sarebbero costretti a intervenire, contro un’azione militare a pochi metri dal territorio da loro controllato. Si rischia una guerra.

    Quale sarebbe la data più opportuna? chiede Kruscev.

    Due giorni dopo si riunisce a Mosca il vertice del Patto di Varsavia. Ulbricht spiega agli altri Paesi fratelli quanto sta per avvenire.

    Come ha fatto capire Kruscev, gli agenti di Bonn circolano liberamente nella Ddr, non è possibile costruire il muro senza che ci si accorga dell’immane piano per realizzarlo. Anche a Washington si guarda con apprensione al disfacimento della Repubblica democratica, se crolla non sarà possibile mantenere l’ordine stabilito a Yalta e a Potsdam nel 1945.

    La rigida burocrazia del regime tiene conto di tutto, si sa esattamente giorno dopo giorno quante scorte restano nei magazzini, nelle città, in ogni paesino. Nel 1960 mancano 46 mila mucche e 274 milioni di litri di latte, 210 milioni di uova, un milione e 300 mila maiali, 23 milioni di chili carne. Si comincia a soffrire la fame. Si fugge per desiderio di libertà, si fugge perché la pancia è vuota. Come è possibile?

    Nel 1951 si era previsto che la Germania comunista avrebbe superato la Repubblica federale capitalista. Un programma non del tutto irreale. All’Ovest le città e le fabbriche sono in rovina, all’Est si confida sull’aiuto dell’Unione Sovietica. A Mosca non amano i compagni tedeschi, ma è vitale dimosrare all’Occidente la superiorità della società marxista, sul confine con l’altra Europa capitalista. Nel 1961, l’Urss è in difficoltà, non riesce a fornire gli aiuti promessi, anzi continua a depredare la Germania obbligandola a fornire prodotti industriali e generi alimentari. Berlino Est è costretta a vendere i prodotti agricoli alla Repubblica federale per acquistare materie prime.

    Nel 1959 se ne sono andati in 142 mila, nel 1960 199600, ventimila nel maggio del 1960, 19 mila a giugno. Un esodo continuo, inarrestabile. Sabato dodici agosto, erano fuggiti in 2400, e il venerdì in 1532, il giovedì 1709. In luglio erano stati 30400. La Ddr si svuota, e se ne vanno i professionisti, i medici, gli infermieri, gli operai specializzati.

    L’Operazione Rose

    Comincia l’Operazione Rose, come fu chiamata la costruzione del muro, agli ordini del maresciallo Ivan Konev, eroe dell’Urss. Aveva già guidato l’invasione dell’Ungheria nel 1956. Alla vigilia vengono mobilitati cinquemila militari tedeschi, e 40 mila soldati sovietici vengono disposti lungo il confine con Berlino Ovest, occultati nei cortili, nei parchi, sono pronti a intervenire 300 carriarmati. Nella capitale vengono portati 150 tonnellate di filo spinato e blocchi di cemento, con 400 camion che hanno l’ordine di non procedere in colonna per non dare nell’occhio, scegliendo vie secondarie.

    All’una e dieci minuti nella notte tra sabato e domenica 13 agosto si comincia a spezzare l’asfalto nelle strade di comunicazione tra le due Berlino, si bloccano sessantanove varchi, si sbarrano centonovanta strade, si stende il rotolo di filo spinato per i 43 chilometri e 100 metri tortuosi tra est e ovest, si fermano le dodici linee della metropolitana, si chiudono tredici stazioni. La metropoli è come scossa da un infarto, si blocca la circolazione, la vita, e si comincia a morire. Da ora in poi si sopravviverà in due tronconi separati. Un’altra cortina comincia a essere innalzata intorno al perimetro di Berlino Ovest, per altri 112 chilometri. Una porzione della città, divisa in tre fette controllate dagli alleati, come un’isola ricca in un mare rosso. Nella notte tra il 17 e il 18 agosto, al posto del filo spinato, si cominciò a erigere il muro di cemento. L’Antifaschistischer Schutzwall, il vallo di protezione antifascista, secondo la definizione di Ulbricht.

    Ogni giorno transitavano tra le due Berlino 500 mila cittadini. Quella notte, 51.056 berlinesi orientali sorpresi all’Ovest decisero di non tornare a casa. Altri ritornarono, perché avevano all’Est la famiglia, parenti, un’attività. Quella barriera è provvisoria, ci si illude, non può rimanere per sempre.

    La Bernauer Strasse

    La Bernauer Strasse è l’esempio più evidente della schizofrenica topografia della Berlino divisa. Lunga un chilometro e 400 metri, la parte nord si trova nella parte occidentale, quella a sud nella Ddr. Le case sono all’est, i marciapiedi a ovest. Qui viene inviato il giovane Conrad Schumann, e qui avvengono le scene più drammatiche, riprese dalle cineprese. Nelle prime ore, mentre si stende il rotolo di filo spinato, gli inquilini della Bernauerstrasse rischiano la vita per precipitarsi letteralmente nella libertà, si buttano dalle finestre sui teloni stesi dai vigili del fuoco.

    Dopo interverranno i Vopos (gli agenti della Volkspolizei) e la Stasi. Saranno murate 1233 finestre e 56 portoni, si sgomberano 580 appartamenti e 2000 inquilini deportatti altrove; le case resteranno disabitate per ventotto anni, il tempo si fermerá , i mobili si copriranno di polvere, i topi divoreranno le imbottiture, le carte da parati si scolleranno, le doghe dei pavimenti si gonfieranno e si apriranno.

    Nove giorni dopo, cominciano a murare le finestre della signora Ida Siekmann, che abita al primo piano, al numero 48. Lei sale al quarto, dove i Vopos non sono ancora giunti, lancia in strada un materasso e si butta di sotto, lo manca, e si schianta sul marciapiede. È la prima persona a morire quando il muro non è ancora completato.

    Il vicino Berne Lunser è il secondo. Scappa su per i tetti, inseguito dai poliziotti, salta di casa in casa, scivola, e muore in strada. Rolf Urban, che abita al numero 1, si cala da una finestra con una corda fatta di lenzuola intrecciate, troppo sottile, si spezza, e muore anche lui. Thomas Molior ha nove anni, non ha paura, o è incosciente, si lancia da 25 metri e cade sul telone dei pompieri. Illeso dopo un salto inutile: la madre non osa seguirlo, lo richiama indietro, e Thomas obbediente torna all’Est. Il primo giorno scappano ancora in 800, nel primo anno, in 12.316.

    La Ddr adotta misure restrittive per il traffico dalla Repubblica federale a Berlino. E l’ultimo weekend di ottobre si teme per la pace. Lungo il muro si fronteggiano i carri armati con la stella rossa e quelli con stelle e strisce, brandeggiando i cannoni, come bulli che roteano i pugni ma si

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