Mood - Numero 4
Di AA.VV.
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Mood - Numero 4 - AA.VV.
Morituri te salutant
Si fa presto a dire start-up. La nuova arte gladatoria
di Marco Manunta
Storia verissima
Tempo di lettura: 5 minuti
Fernando Marco Manunta
Nasce nell’anno del movimento hippie in Sardegna, terra che lascia per studiare all’Università di Pisa. Elegge la città toscana a propria dimora, dopo aver conseguito la laurea in Ingegneria delle telecomunicazioni e aver provato l’esperienza della grande città trascorrendo sei mesi a Milano. Appassionato di alta fedeltà da sempre, fonda la Northstar Design che lascia dopo due anni per divergenze con il socio. Lavora come freelance per varie aziende in molteplici settori, fino all’inizio dell’avventura M2Tech. Felicemente sposato con Nadia, è orgoglioso papà di una stupenda bimba di due anni di nome Virginia. È appassionato di motociclismo, turistico e sportivo.
Mi permetta, lo dico con bonarietà, sa, ma voi ingegneri siete presuntuosi!
, mi dice il presidente del Collegio sindacale con la sua tipica leggerezza di spirito.
Lo guardo, indeciso se sorridere della sua battuta o prenderlo per il colletto della camicia immacolata e accompagnarlo alla finestra per una rapida uscita di scena. Il Collegio sindacale, imposto dal socio investitore, ha pesato sui bilanci della mia società per quasi 50.000 euro in tre anni. Con un fatturato annuo di poco meno di un milione di euro, la cifra non è proprio trascurabile.
Mi impongo di calmarmi, dopotutto il presidente ha ragione: se gli ingegneri non fossero dei presuntuosi, il progresso umano si sarebbe arrestato prima della scoperta del fuoco.
Piuttosto, la domanda è un’altra: come possiamo essere finiti in questa situazione? Nel 2011 la società fondata da mia moglie e me è cresciuta rapidamente, guadagnando la fama e il rispetto dei clienti nel proprio mercato, con fatturati via via crescenti e qualche utile nonostante la crisi. Ora, nel luglio 2013, mi tocca sorbire le rampogne del Collegio sindacale circa una difficile situazione causata anche dalla sua stessa esistenza.
Eppure, tutto è iniziato come un gioco, meglio: un sogno.
Fino al 2007, mia moglie e io lavoriamo come consulenti freelance per alcune aziende dell’elettronica di consumo e della piccola automazione civile: hi-fi, video broadcast, home automation. Niente di cui arricchirsi, ma abbastanza da vivere decorosamente senza particolari preoccupazioni. A latere, collaboriamo con alcune riviste di alta fedeltà e musica come traduttori e articolisti.
All’inizio del 2007, decidiamo di fondare una società (una s.n.c.) per ottimizzare costi e ridurre le tasse. Per portare il lavoro fuori di casa
, decidiamo di cercare un fondo per realizzare un ufficio. L’inadeguatezza delle offerte e i costi decisamente eccessivi raffreddano sensibilmente il nostro entusiasmo, finché non decidiamo di contattare il Polo Tecnologico di Navacchio, una struttura in provincia di Pisa fortemente voluta da un’amministrazione locale lungimirante. Dopo il primo colloquio con la responsabile dell’Incubatore, che ci descrive il pacchetto offerto alle startup, approntiamo un business plan incentrato sullo sviluppo, produzione e commercializzazione di un prodotto per l’hi-fi, e lo proponiamo alla commissione del Polo.
Nell’aprile 2009 il piano viene approvato ed entriamo nell’Incubatore del Polo: si tratta solo di una stanzetta di 25 mq, arredata e dotata di computer, stampante e telefono VoIP. È quasi niente, ma è perfetta per le nostre esigenze e per noi è veramente la realizzazione di un sogno.
Contemporaneamente, il direttore di una rivista italiana dedicata alla musica ben registrata, intenzionato a vendere su Internet file musicali ad alta risoluzione, mi chiede una piccola consulenza per determinare il modo migliore per ascoltare questi file senza perdita di qualità. Il risultato di questa ricerca mostra alcune criticità nell’uso dei computer portatili, per superare le quali il direttore mi prega di progettare e produrre una particolare interfaccia: nasce il primo prodotto della mia azienda.
A settembre, mia moglie e io andiamo alla più importante fiera di hi-fi italiana, a Milano, con cento di queste interfacce, montate a mano durante l’estate, da vendere con un banchetto posizionato fuori dalla stanza nella quale l’editore ne spiega l’uso al pubblico. È un successo: in tre giorni le vendiamo tutte e riceviamo molte prenotazioni da parte di chi non ha fatto in tempo ad acquistarne una. Ma c’è di meglio: alcuni di questi acquirenti annunciano l’esistenza dell’interfaccia su alcuni post internazionali. Nel giro di pochi giorni fioccano gli ordini dall’estero ed entro la fine dell’anno abbiamo accordi di distribuzione con ditte commerciali in Francia, Tailandia, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti.
È veramente la realizzazione di un sogno. Nel 2010 consolidiamo la nostra presenza sul mercato e presentiamo altri prodotti. La crescita è quasi incredibile: + 450% di fatturato. Le aumentate esigenze di sviluppo e produzione di spingono ad assumere due collaboratori e a chiedere al Polo la disponibilità di un locale più grande.
Nel frattempo, complice anche l’attività di propaganda svolta dal Polo, la nostra esistenza ha iniziato a interessare qualcuno. Già verso la fine del 2009 riceviamo la visita di un gruppo di investitori facenti capo a un’organizzazione dal nome inglese quasi impronunciabile ma che significa: possibili finanziamenti
. Per noi, che fino a quel momento avevamo lavorato solo con i nostri capitali e con un piccolo prestito ottenuto da una banca impegnando la casa di proprietà, si palesa la possibilità di acquisire ulteriori fondi da investire in varie direzioni: potenziamento dello sviluppo, promozione, produzione. Una prospettiva attraente ma che ci mette anche un po’ paura.
Per poter discutere di finanziamenti, però, è necessario un business plan, uno serio, non come quello che, con mille sforzi e nonostante la mia inesperienza, avevo approntato per l’esame della commissione del Polo. Uno dei visitatori ci ricontatta dopo alcuni giorni per discutere dell’eventuale inizio di negoziati con l’organizzazione di cui fa parte. Gli spieghiamo che non siamo realmente in grado di preparare un business plan (siamo solo ingegneri, dopotutto) e lui si propone quale advisor proprio allo scopo di realizzare per noi un piano che infallibilmente piacerà alla commissione d’esame: non è lui, in fondo, uno dei membri? Piccolo dettaglio, il costo dell’operazione: 25.000 euro.
La cifra per noi è rilevante, ma in considerazione dei vantaggi che il lavoro di questo advisor apporterà all’azienda, accettiamo, negoziando solo la modalità di erogazione del compenso: il 40% alla consegna del piano e il rimanente solo ad avvenuta erogazione di un finanziamento o comunque alla firma di un accordo di partecipazione con un investitore istituzionale.
Dopo, gli avvenimenti si susseguono con un ritmo quasi forsennato: la bocciatura del piano da parte dell’organizzazione di cui l’advisor fa parte (ma come, non era infallibile?) e l’affacciarsi di un’altra società, questa volta non di business angel ma di investitori istituzionali (apparentemente). Iniziano i negoziati e il piano viene varie volte rimodulato in funzione di alcune richieste del possibile investitore e anche per tenere conto del passare del tempo.
Nel frattempo, l’attività dell’azienda prosegue e iniziano ad arrivare i riconoscimenti, come il Premio per l’Innovazione della Camera di Commercio di Pisa. Prosegue anche la strutturazione della rete commerciale, a copertura di Europa, Nordamerica ed Estremo Oriente. Rete tutta basata su gentlemen’s agreement come di consuetudine in questo mercato.
In previsione dell’attuazione del piano, iniziamo a strutturare l’azienda, con la ricerca di un COO e di un CMO. Inoltre, ingrandiamo il reparto ricerca e sviluppo, inserendo nell’organico un tesista. Iniziano anche a suonare alcuni campanelli di allarme: i tempi di sviluppo dei nuovi prodotti tendono inesorabilmente a dilatarsi e diviene via via più evidente come sia non solo utile ma anche indispensabile l’iniezione di liquidità da parte del socio investitore. Un po’ strano per un’azienda che fino a pochi mesi prima lavorava senza fatica con i propri mezzi... Ma nell’ottimismo che ci sta travolgendo, complice anche le idilliache visioni del futuro continuamente proposteci dall’advisor, tutto questo passa inosservato, o quasi: mia moglie inizia a sentire qualche brivido lungo la schiena, specialmente dopo aver letto la bozza finale del contratto di investimento che prevede, oltre a pesanti oneri legati al controllo di gestione, anche clausole piuttosto impegnative (per noi) in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi.
Ma io minimizzo: dopotutto, il piano è infallibile! E poi, noi ingegneri siamo dei presuntuosi...
A maggio 2011 firmiamo il contratto. Nel volgere di pochi mesi la situazione precipita e improvvisamente ci appare chiara in tutta la sua gravità. L’azienda non è in grado di porre in atto le strategie necessarie per un rapido sviluppo ed è cresciuta eccessivamente in relazione alle possibilità economiche del momento, inoltre l’attuazione del piano è già in grande ritardo rispetto alle previsioni a causa delle continue procrastinazioni imposte dal socio investitore nelle fasi di revisione della bozza di accordo. Infine, è arrivata la crisi, dalla quale ci sentivamo immuni fino a poche settimane prima.
Non riusciamo neanche a rispettare la prima milestone dell’accordo, quella che, a fronte dell’erogazione iniziale del 50% della cifra pattuita, avrebbe sbloccato un’ulteriore erogazione di un altro 30%. Da questo momento, il socio investitore congela qualunque ulteriore impegno e, dietro continue minacce di liquidare l’azienda (il contratto glielo permetterebbe), ci impone azioni correttive e compensative, alcune delle quali aggiungono ulteriori spese al nostro già disastrato bilancio (altri consulenti, l’assunzione di una contabile, ecc.) e sottraggono altre risorse allo sviluppo.
Il 2012 è un incubo: con la paura continua di un’azione drastica da parte del socio investitore, cerchiamo di porre in essere una serie di azioni a supporto dell’attività dell’azienda: riduzione di personale, riduzione dei costi di struttura, rapida immissione di nuovi prodotti sul mercato. Uno sforzo immane per una piccola azienda come la nostra.
Ma il peggio deve ancora venire: nell’ottobre 2012, il fatturato mensile crolla del 70% rispetto alle attese. È veramente emergenza: comunico la situazione al socio investitore che non trova di meglio da suggerirmi che licenziare tutti i dipendenti e interrompere tutti i pagamenti ai fornitori.
A questo punto, mia moglie e io iniziamo a opporci alle imposizioni del socio: che liquidi pure l’azienda o la venda, se ci riesce: noi non contribuiremo oltre ad affossarla. Manteniamo tutti i dipendenti in attività, sia pure al prezzo di una riduzione di orario e di compenso che rimediamo con la cassa integrazione in deroga, e organizziamo piani di rientro con tutti i creditori. Nel frattempo, inauguriamo una campagna di austerity e spending review (un tempo si diceva tirare la cinghia
), limitando all’osso gli acquisti di materie prime in funzione delle previsioni di vendita a breve e cercando di sfruttare al massimo l’enorme magazzino che abbiamo accumulato. Inoltre, intensifichiamo l’attività commerciale, aprendo un negozio online e cercando nuovi distributori.
Lo scorso giugno, l’atto finale. Nell’evidente impossibilità di realizzare alcunché liquidando l’azienda o vendendola, il socio ci propone il riacquisto delle quote con una certa dilazione (e comunque con un interesse totale maturato non indifferente, il 20% della cifra effettivamente erogata). Convinti di discutere su una bozza, firmiamo una proposta irrevocabile di acquisto, vincolandoci così senza accorgercene. Quando capiamo cosa abbiamo firmato, è troppo tardi. Noi ingegneri siamo veramente presuntuosi, specialmente quando non ci appoggiamo a professionisti quali avvocati e commercialisti per valutare le conseguenze di gesti in apparenza banali!
Il socio è riuscito ancora una volta a garantirsi al meglio: ha trasformato una possibile perdita in un credito verso due persone fisiche, ottenendo pesantissime garanzie (un’ipoteca e il pegno sul 100% delle quote) facilmente escutibili in caso di insolvenza.
Siamo a settembre 2013. L’azienda prosegue la sua attività commerciale e di progettazione, onora i patti con i creditori e sta per lanciare quattro nuovi prodotti. Le cifre previste dal piano (realizzato ovviamente per vendere il piano stesso in funzione dell’erogazione della success fee e non certo per essere uno strumento affidabile di governo dell’azienda) sono un lontano ricordo e un irraggiungibile traguardo. Ma l’azienda ha conservato il proprio know-how interno e può contare ancora sull’apprezzamento del mercato e su un marchio di prestigio.
Mia moglie e io abbiamo speso 15.000 euro di atto notarile per ricomprare le quote del socio dopo che gli adempimenti al contratto sono costati all’azienda circa il 60% di quanto effettivamente erogato dal socio (a proposito: in sede di discussione del bilancio 2011, siamo stati invitati
a rinunciare a 20.000 euro di utili maturati dalla s.n.c. nell’esercizio precedente e mai riscossi, per chiudere il bilancio con un certo attivo e fare bella figura
). Non sarà facile rimettere in sesto i conti dell’azienda, tanto meno lo sarà completare il pagamento delle quote riacquistate dal socio investitore, ma noi ingegneri, si sa, siamo presuntuosi.
Lampade in carta di riso
di Francesco Formaggi
Racconto
Tempo di lettura: 9 minuti
Francesco Formaggi
Francesco è nato nel 1980 in provincia di Frosinone. Ha studiato filosofia estetica all’Università di Bologna, dove ha iniziato a scrivere i suoi primi racconti. Collabora con «Nuovi Argomenti», la rivista letteraria fondata da Alberto Moravia dalla quale sono usciti i migliori talenti della narrativa italiana contemporanea. Ha partecipato alla sesta edizione di Esor-dire, il torneo letterario della Scuola Holden, vincendo il premio del pubblico con il racconto Modulazioni di presenza. Con il romanzo Birignao (embrione de Il casale), ha vinto il premio creatività Scuola Holden. Il suo primo romanzo, Il casale, è stata pubblicato da Neri Pozza.
Posto squallido questo teatro. All’entrata c’è odore di muffa, c’è un grosso vaso con una pianta secca e cicche di sigaretta spente nella terra. Le pareti sono bianche come quelle di un ospedale. Al botteghino non c’è nessuno. Le poltrone blu dove ci sediamo fanno pensare alla sala d’aspetto di un dentista.
C’è un distributore automatico in un angolo e qualcuno deve aver fatto cadere il caffè, perché sul pavimento compare una chiazza scura che manda un odore di moquette marcia. Ci sono vecchi poster di spettacoli teatrali appesi alle pareti, una miriade di segni di scotch strappato. Anche Giada è schifata. Me ne accorgo dall’attenzione con la quale controlla che le poltrone siano pulite, prima di sedersi, e dal fatto che, spegnendo la sigaretta nel grosso posacenere, sta attenta a non sporcarsi le dita.
Ci vorrebbero le pareti arancioni, sì.
Questa è lei.
Ha acceso un’altra sigaretta e mentre prende lunghe boccate si guarda attorno con aria indispettita, tutta impegnata a fantasticare su come potrebbe essere arredato questo posto.
Mi siede accanto, ha una minigonna di jeans, le gambe accavallate e scarpe con le zeppe. Non riesco a impedirmi di guardarle le gambe che spuntano come colonne di carne dalla minigonna. Una scarpa le scivola sul tallone e resta appesa sulla punta del piede e lei la dondola.
Sì, pareti arancioni e luci rosse: lampade in carta di riso, direi, rosse.
Mi guarda. Si è accorta che le guardo il piede. Che c’è?
dice.
Niente, perché?
Se non ti interessa fa niente. In qualche modo dobbiamo pur passarlo il tempo, no?
Certo che mi interessa.
Si solleva col busto e scavalla le gambe, con le mani disegna in aria la forma di un pallone.
Hai presente quelle lampade rosse dei cinesi appese alle pareti? Ecco, in quel modo. Non sarebbe male.
Mi fanno pensare ai bordelli.
Macché bordelli. Sono carine.
Prende un tiro dalla sigaretta e soffia il fumo in aria.
Sai dove vorrei stare in questo momento?
dice.
Non ti piace qui?
Mi guarda, storce la bocca.
C’è un fuoco sensuale nei suoi occhi, le forme tondeggianti e prosperose del suo corpo emanano una carnalità allarmante. Mi viene da chiedermi di che colore sono le sue stanze, dentro, dico; se fosse una camera, di che colore sarebbero le sue pareti. Rosso fuoco, senza dubbio. Sto per dirglielo, è una bella metafora, mi piace fare il ganzo con le metafore, ma non vorrei pensasse che ci sto provando. Dopotutto è sempre la ragazza di mio cugino, no?
Nel privé di un aereo
dice.
Dove?
Nel privé di un aereo. Hai presente?
Mai stato. Come ti è venuto in mente?
Così.
Poi ammutolisce. Porta una ciocca di capelli dietro un orecchio e si accarezza il collo sottile mentre segue con gli occhi il fumo che si disperde nell’altezza della stanza. Prima di accavallare le gambe e stravaccarsi di nuovo sulla poltrona, ha il gesto di coprirsi le cosce tirando giù la gonna, e in quel momento il mio sguardo viene rapito dall’eleganza della sua posa, e dall’armonia difficile dei lineamenti del suo corpo. Sulle calze marroni sono disegnate in rilievo rose sfolgoranti e le sue gambe piene che ora ondeggiano distrattamente sembrano lunghe distese di campagna attraversate da morbidi falsopiani. Indossa una maglia a collo alto, stretta in vita, che si gonfia sopra i seni prorompenti e le segna la carne lasciando intravedere il bordo del reggiseno.
Che c’è? Ti sei imbambolato?
Rido nervosamente. No no.
Glielo dico? Non riesco a togliere gli occhi dalle tue tette. Vorrei tanto vederti senza maglia e infilarti le mani sotto il reggiseno.
Mi guardi le tette?
Macché!
Non ci sarebbe niente di male, tutti mi guardano le tette.
Non ti sto guardando le tette!
Ho la sensazione di essere diventato bordeaux, e che le orecchie mi vadano a fuoco.
Non ti preoccupare. È normale. Ho le tette grandi e tutti me le guardano.
Ma io non le stavo guardando.
A no?
Scoppia in una risata. Tuo cugino mi aveva detto che sei timido.
Timido?
Già.
Avete parlato di me?
Certo.
E che ti ha detto?
Che sei timido
E poi?
Niente, che sei timido.
Scoppia di nuovo a ridere. Va be’, facciamo un gioco.
Si china in avanti, mi guarda negli occhi: Tu mi dici tutto quello che ti passa per la testa e io faccio lo stesso. Ti va?
Non mi sembra un granché come gioco.
Tu provaci. Avanti, dillo.
Che cosa?
Dillo, dì che ho le tette grosse.
Ora le orecchie mi vanno a fuoco davvero, e non riesco a capire se questo atteggiamento dipenda da una sua intima frivolezza o se davvero vuole limitare, provocandolo, l’imbarazzo di certe situazioni come restare senza parole a fissare le sue grosse tette.
Non voglio dirti che hai le tette grosse.
Però l’hai appena detto.
Sì, ma non intendevo...
Ok. Ora tocca a me. Da quanto tempo non vai con una donna?
Come ti viene in mente una cosa del genere?
Così, si vede che sei arrapato.
Si vede?
Sì. E poi tuo cugino mi ha detto che non vai con una donna da un sacco di tempo.
Ah, ecco
faccio io è di questo che parlate?
È vero?
Che cosa?
Giada prende un lungo tiro dalla sigaretta, poi si toglie un pelo di