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Vita senz'anima
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E-book177 pagine2 ore

Vita senz'anima

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Info su questo ebook

La portentosa memoria di Raffaele, un colto e anziano professore di greco e latino, inizia a sgretolarsi: il suo presente e il suo passato si sovrappongono e sua figlia Clara vorrebbe fermare il tempo. Ma la malattia di Alzheimer penetra nelle loro vite in un turbinio delirante di eventi che coinvolgeranno assistenti, medici e infermieri fino al drammatico finale in cui una verità mai svelata emergerà dalla nebbia della demenza.
LinguaItaliano
Data di uscita21 nov 2022
ISBN9791222025841
Vita senz'anima

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    Anteprima del libro

    Vita senz'anima - Giuseppe Bomboi

    ​I

    Non ha mai dimenticato nulla. Ma è troppo tempo che aspetto.

    La pioggia ormai mi sta completamente bagnando i pantaloni e inizio a sentire una fastidiosa sensazione di freddo e di umido risalire dalle gambe e trasformarsi in brividi.

    L’ennesima auto mi sfreccia davanti, le ruote si tuffano per un istante nella pozzanghera di fronte a me e gli schizzi d’acqua vanno a sommarsi a quelli già appiccicati ai miei pantaloni. Inizio a pensare che l’ombrello sia ormai inutile, ma non ho il coraggio di restare senza, forse per non sentire il peso delle nuvole addosso.

    Odio ottobre.

    Provo di nuovo a chiamarlo: è difficile manovrare un telefono cellulare in mezzo a un diluvio, tentando di tenere l’ombrello tra il collo e la spalla e sorreggendo questa pesante borsa con la mano sinistra.

    Risultato: anche la mia testa ora è bagnata.

    Provo e riprovo con insistenza e ostinazione a chiamarlo. Il suono del tuuu si fa strada nelle mie orecchie, mentre spero che la mia compulsione venga appagata da quel pronto che non arriva.

    Più passa il tempo, più aumenta la frustrazione. E l’ansia:

    e se gli fosse accaduto qualcosa di grave?

    Penso a quando lo aspettavo da bambina dietro al cancello della scuola ed era in ritardo. Il mio grembiule, il peso dello zaino. Per un attimo scuoto il capo come allora, quando portavo le trecce. La mamma mi intrecciava i capelli mentre mangiavo i biscotti a colazione.

    Sbrigati! mi ripeteva, Sei in ritardo!.

    Ma io non sapevo cosa fosse il tempo ed era lei a dettarlo. E quando alzava la voce significava che ne era passato troppo di quel tempo. Poco di quel tempo. Troppo poco di quel tempo. Mi manca la mamma.

    Seguo la strada con lo sguardo fino alla curva da cui vorrei veder spuntare ora la sua auto rossa.

    Sbrigati! Ma la tua auto non si vede.

    Ma che fine hai fatto, papà?

    Prenderò l’autobus. Ma sono completamente fradicia e ho freddo. Decido di darmi una sistemata.

    Entro nel bar della stazione. Il tepore dell’interno, già annunciato dai vetri appannati, mi assale. Non c’è molta gente.

    Una vecchia canzone anni Novanta di Céline Dion prende il posto del ticchettio della pioggia di fuori:

    "Memories, they all lead up to this one day. And many dreams lost along the way,

    haunt me still, I guess they always will." [1]

    Saluto con un buongiorno il barista e mi dirigo verso il bagno.

    Sollevo la manopola del rubinetto. Aspetto che l’acqua diventi calda. Guardo la mia immagine nello specchio: il trucco di questa mattina è diventato un acquerello di pioggia sul mio volto.

    Mi sciacquo il viso. Osservo di nuovo la mia faccia arrossata.

    Le rughe a quasi quarant’anni non mi scocciano più. Ho imparato ad accettarmi, non a rassegnarmi. Osservo la mia fronte e i miei capelli: la ricrescita è evidente. Un piccolo brufolo sulla fronte: questa mattina mi era sfuggito.

    Mi asciugo i capelli e il viso con un fazzoletto di carta. Uscendo, do un ultimo sguardo allo specchio ancora un po’ appannato. Vedo il volto di mia madre. Per un istante, solo per un istante.

    Scuoto la testa, come a voler asciugare anche i capelli e le trecce dei miei pensieri, esco dal bagno e vado al bancone.

    Mentre ordino un cappuccino, prendo di nuovo in mano il telefono e chiamo. Attendo fino alla fine dei tuuu, anzi fino a che la voce femminile e robotica della segreteria telefonica mi fa decidere che è ora di smettere di chiamare. «A che ora passerà il prossimo autobus?» Chiedo al barista.

    «Tra un quarto d’ora circa!»

    Mi risponde un tizio calvo con gli occhiali che sta sorseggiando un caffè alla mia sinistra.

    «Grazie.»

    Questo bar è cambiato molto. Prima ha cambiato posizione, poi lo hanno rinnovato più volte. Quando andavo all’università, c’era un pavimento di piastrelle grigie d’altri tempi e c’erano sempre il vecchio Alfio e gli altri anziani che bevevano la grappa di mattina, mentre parlavano della guerra.

    Il tempo è passato così velocemente che mi sembra di non aver mai avuto vent’anni.

    Guardo fuori della vetrata del bar e vedo una panchina. Pienza, il Duomo di Firenze, le ville del Palladio: vaghi ricordi delle immagini del libro di Storia dell’Architettura sfogliato su quella panchina che ora non c’è più, in attesa del treno in ritardo. Gli esami, quel voto, la rabbia. Penso a quante volte sono salita sul treno, di mattina, proprio su quei binari accanto al bar, per andare a frequentare le lezioni all’Università La Sapienza di Roma.

    Ricordo quanto fosse dura la vita da pendolare. Sembrava senza fine. Poi però è finita. Un giorno. Un giorno come un altro, senza che io sapessi e comprendessi che fosse l’ultimo. Arriva il cappuccino.

    Sorseggio la bevanda e i miei occhi si perdono nelle macchie del latte e del caffè.

    Il tempo se l’è bevuto l’abitudine.

    Ieri studiavo Analisi e oggi sono un ingegnere.

    Un ingegnere. Pensavo fosse il mio sogno. Ma ora sento che il mio sogno sia quello di poter tornare a sognare.

    Ma dove sarà mio padre?

    Ti prego, Signore, fa che non gli sia accaduto nulla di grave!

    Pago, esco dal bar, apro l’ombrello e guardo di nuovo il piazzale della stazione.

    La pioggia adesso è meno insistente.

    Mi dirigo verso la fermata: non c’è nessuno ad attendere l’autobus. Osservo le foglie che cadono sul piazzale bagnato.

    Odio ottobre.

    Arriva l’autobus.

    Salgo a bordo.

    Dentro è piuttosto vuoto. Solo una donna anziana seduta vicino all’autista. In città, a quest’ora, gli autobus sono tutti pieni, ma qui a Santa Marinella, di sabato mattina, in autunno, chi vuoi che giri! Metto la borsa su un sedile, mi siedo vicino a un finestrino, ci appoggio la testa contro e osservo le gocce di pioggia che si muovono dall’altra parte del vetro un po’ appannato dal mio respiro. A Roma è praticamente tutto diverso. Penso ai miei figli che questo fine settimana staranno con il padre. Paolo non mangerà quasi nulla, Alessio non farà i compiti e probabilmente passeranno molto tempo davanti al tablet o alla televisione.

    È il prezzo da pagare per quella dannata separazione. Perdonami, mio Dio!

    L’autobus percorre il viale di platani, poi svolta a destra lungo la via Aurelia e, superata la biblioteca, vedo il mare. Guardo il mio mare, quello sotto La Passeggiata. Mi mancava terribilmente.

    È una di quelle giornate in cui non si distingue l’orizzonte. Il cielo plumbeo mescola gocce alle onde e dipinge una malinconia senza confini. Solo il mare sa darti questo senso di solitudine e di smarrimento. È dura per chi è cresciuto in un paesello costiero vivere in città. Penso al mio palazzo, al mio sguardo che, oltre il balcone, si perde sull’insegna lampeggiante della farmacia o sul palazzo di fronte che soffoca la vista.

    Il mare non ti si stacca mai di dosso. Se ci nasci, sei un pezzo di battigia. E lui ti lecca sempre i piedi nudi e ti fa bruciare le ferite che ti hanno lasciato i troppi passi fatti con troppe scarpe.

    L’autobus svolta a sinistra, seguendo quest’altro viale di platani. Prenoto la mia fermata.

    La mia vecchia casa non è poi così distante dalla stazione, ma con la pioggia di oggi sarebbe stata un’impresa arrivarci a piedi.

    Plutarco inizia ad abbaiare sotto la veranda.

    Suono il citofono.

    «Chi è?»

    «Papà, sono io!»

    Mi viene ad aprire il cancello sotto la pioggia e Plutarco mi salta addosso con le zampe infangate. «Papà! Ti ho aspettato per quasi un’ora!» Ci dirigiamo sotto la veranda.

    Mi guarda con occhi stralunati. Plutarco mi gira attorno eccitato.

    «Clara, sei tutta fradicia! Vai subito a cambiarti i vestiti!

    Dove sei stata?»

    «Papà, ti aspettavo alla stazione!» Esplodo io con frustrazione.

    Mi guarda al di sopra dei suoi occhiali da presbite poggiati sulla punta del naso, spalanca gli occhi, solleva le sopracciglia, e mi dice: «Oggi? Scusa, devo aver sbagliato giorno!»

    «Ma se ci siamo sentiti ieri sera!»

    «Hai ragione, Clara. Perdonami! Sei venuta a piedi?»

    «No, ho preso l’autobus! Ma ti ho aspettato per quasi un’ora sotto la pioggia! Ti ho chiamato almeno venti volte!»

    «Scusami davvero! Il telefono probabilmente l’avrò lasciato in camera! Ho passato la mattina in salotto! Sono troppo sbadato! E pure invecchiato!»

    Lo osservo. È vero, è invecchiato. Da quando è morta la mamma sono venuta poche volte a fargli visita. La sua ampia fronte è solcata da rughe profonde. La sua voce non è più intensa e vivace. Ma i suoi occhi sono sempre verdi.

    «Non fa niente. Mi sono preoccupata perché pensavo avessi avuto qualche problema.»

    «No, sto bene. Me ne sono solo dimenticato! Vai ad asciugarti…»

    Finalmente entriamo dentro dove mi accolgono il tepore e l’odore del passato.

    Ogni casa ha il proprio odore. Il profumo della vita di chi la abita. Questo è l’odore più intenso che conosca. All’ingresso il mosaico che raffigura Ulisse con le sirene è sempre al suo posto non lontano dalla foto di mamma e papà che ridono felici nel giorno del loro matrimonio.

    Abbraccio papà. Sento la sua schiena sotto le mie mani. Non ci vedevamo da tre mesi.

    Faccio un po’ di carezze a Plutarco poi vado a cercare un indumento asciutto.

    Mi ricevono le note di un flauto traverso e di un violino: papà sta ascoltando un’opera di Sibelius [2] , come suo solito.

    Mi dirigo verso la mia vecchia camera, proseguendo lungo il corridoio, il corridoio della mia infanzia. A ogni passo un ricordo, un pezzo di passato. La copia del Campo di grano con volo di corvi di van Gogh, che comprammo ad Amsterdam, è sempre nella cornice al suo posto, accanto alla copia di quello schizzo di Leonardo da Vinci. Ecco, là, in alto, c’è ancora il disegno della mia famiglia, quello che ho fatto quando avevo tre anni. Papà ci aveva pure messo la data. Più avanti, sulla sinistra, la cornice col diploma della mia laurea in ingegneria edile. Più in basso, è incorniciata quella che mia mamma aveva chiamato la mia prima poesia, scritta in stampatello all’età di sei anni:

    IO AMO LA MIA FAMIGLIA E PER RINGRAZIARVI VIO SCRITTO QUESTA POESIA.

    AMO LA MIA FAMIGLIA PIU DI ONI COSA QUANDERO ANCORA UNA STELINA MI PIACEVA TANTO GUARDARVI DA LASSU. IO GRIDAVO LA CANSONE PIU BELA DEL MONDO. CANTAVO A VOI.

    IL TITOLO E LA MIA DOLCE CANSONE.

    CLARA, 17 MAGGIO 1985

    Entro finalmente in camera, mi tolgo gli indumenti bagnati e vado in bagno: ho bisogno di una doccia calda.

    Il bagno è in condizioni pietose!

    Eppure la signora Giulia viene due volte a settimana per tenerlo pulito! Evidentemente non basta!

    Papà è sempre stato un uomo molto ordinato ma senza la mamma, probabilmente, si è lasciato andare.

    Cosa ci fa la teiera nella doccia?

    Tolgo la teiera, mi spoglio degli indumenti bagnati e, intanto, ruoto il rubinetto e l’acqua inizia a uscire dal soffione. La porta della cabina della doccia si chiude male: è difettosa da quando andavo al liceo e forse è giusto così.

    L’acqua calda scioglie le mie tensioni e cancella il freddo dalla mia schiena.

    Il vapore acqueo mi circonda e un vago ricordo che non riesce ad affiorare alla mia coscienza mi tira fuori mezzo sorriso, per poi lasciarmi una sensazione di nostalgia amara addosso.

    Mi lavo e indosso il mio vecchio accappatoio che è pulito, sistemato nel bagno al suo solito posto.

    Il consueto prurito acquagenico mi infastidisce le gambe. Prurito acquagenico: me ne parlò un mio ex fidanzato, studente di Medicina, quando avevo circa vent’anni. Per me è una sensazione fastidiosa e basta. Fortunatamente curabile con un asciugamano.

    Le campane della chiesa annunciano che è mezzogiorno. A Roma, quando è mezzogiorno e sono al lavoro, mi avvisa il mio stomaco e trovo conferma dal time che passa sul mio smartphone. A proposito, devo finire un lavoro in CAD entro domani sera, perché devo presentarlo lunedì mattina.

    Mentre mi dirigo di

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