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E-book140 pagine1 ora

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Info su questo ebook

Micaela ha diciassette anni e vive a L'Aquila con i suoi genitori, frequenta il liceo, ama la vita, la musica, scrive i suoi pensieri su un quaderno. Trascorre i pomeriggi alternando lo studio e i sogni nella sua camera da letto. Insieme a Bea, la sua migliore amica, vive con attesa le giornate che dall'inizio della settimana portano al sabato sera, momento in cui la spensieratezza della sua giovane età raggiunge la sua massima espressione. La trasformazione nella vita di Micaela giungerà improvvisa, repentina, senza preavviso, e le vicende della sua esistenza, da un momento all'altro, avranno un nuovo sapore.

Lucia Babbo nata a Lecce nel 1962, si è laureata con il massimo dei voti in Lingue e Letterature Straniere presso l’Università del Salento. Dopo alcune esperienze nell’insegnamento scolastico entra a lavorare nell’Impresa di appalti stradali della propria famiglia e vi resta per oltre dieci anni. Coltiva la sua passione per la poesia sin dagli anni Ottanta. Ha pubblicato raccolte poetiche, Planate dell’anima (Pagine), Incedi Piano (Albatros), Perle d’Ebano (Albatros), Come edera tra i sassi (Raggio Verde Edizioni), e il romanzo Civico 37 (Kimerik).
LinguaItaliano
Data di uscita27 mar 2021
ISBN9791280202130
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    Anteprima del libro

    Olfatto - Lucia Babbo

    Table of Contents

    Lucia Babbo - Olfatto

    Lucia Babbo - Olfatto

    1.

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    Profilo biografico

    Lucia Babbo - Olfatto

    ©Musicaos Editore

    Marzo 2021 | Narrativa, 27

    Musicaos Editore, 2021

    Via Arc. Roberto Napoli, 82 | 73040 Neviano (Le)

    tel. 0836618232 | info@musicaos.it | www.musicaos.org

    Ogni riferimento ai fatti, cose, persone, presenti nel romanzo, è da ritenersi puramente casuale.

    Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta su alcun mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’editore.

    Progetto grafico | Bookground

    Isbn Libro 979-12-80202-116

    Isbn Ebook 979-12-80202-130

    Lucia Babbo - Olfatto

    Agli anni della leggerezza del vivere.

    Ai giorni il cui domani era infinito.

    Alle donne che si fanno pioggia per abitare il cielo

    che si fanno vento per alienare le offese

    che si fanno grida per dare la vita.

    §

    Non c’è niente de più bello de na persona in rinascita. Quanno s’ariarza dopo na caduta, dopo na tempesta

    e ritorna più forte e bella de prima.

    Con qualche cicatrice in più nel core sotto la pelle,

    ma co la voglia de stravorge er monno,

    anche solo co un sorriso.

    Anna Magnani

    1.

    Comincio così.

    Un quadro che respirava, o almeno sembrava che lo facesse. Un dipinto sfornito di tela. Una realtà che viveva, palpitava a tutte le temperature che variavano così come poteva variare il nostro umore.

    Era detta Conca Aquilana, l’estesa zona geografica su cui si protendeva la città dell’Aquila. La mia città. Conca perché era circondata da catene montuose e vette isolate che la cingevano in un virtuale abbraccio di protezione sia climatica che topografica.

    Simbolicamente era rappresentata dalla figura rapace dell’aquila, volatile di non eccessive dimensioni ma dalla straordinaria e spettacolare apertura alare che le permetteva di svettare e volteggiare nell’etere, tra ricamati improvvisati batuffoli di nuvole e spazi nudi e disinibiti di cielo terso, di un azzurro spennellato con veemenza, fino a sovrastare i picchi più audaci. Anche da qui, in un passato assai remoto, le fu attribuito l’appellativo di messaggera degli dei.

    Mi presento: sono Micaela, anche io mi sento intimamente un po’ aquila. Da una parte rapace sfoderavo gli artigli quando c’era da difendersi o farsi valere, dall’altra romanticamente infatuata degli spazi sconfinati dove godere del mio respiro indomabile. Arieggiata, certo, ma protetta da un cordone di rassicurazioni, come se intorno a me si esibisse un teatrale girotondo che mi iniettava uno status di quiete dove far vagabondare, scevre da inquinamenti, le mie alate chimere.

    L’Aquila. La mia città.

    Non solo per il fatto di essere nata qui e qui aver trascorso a tutt’oggi la mia vita, tra i pittoreschi ed intersecati vicoli del centro, la fontana dalle novantanove cannelle e la solenne Basilica di Collemaggio. Era che tra i pori ingordi della mia pelle, così come la mia curiosità rampicante, mai paga, sentivo forte la percezione di appartenenza interiore e carnale a questo luogo, come se fosse stato scritto sul libro polveroso del destino che a L’Aquila e solo a lei io fossi deputata.

    Vivevo questa comunità carica della storia e dell’architettura di stile romanico, la respiravo con occhi e umore briosi.

    E qui collezionavo attimi ormonali e celebrali. Attimi tipici della mia età, né troppo adolescente né troppo donna: diciassette anni, quella via di mezzo che centrifugava le convinzioni, che mi faceva sentire coriacea come una combattente, e al contempo mi faceva tremare di fronte ad un rimprovero in classe, con tutti gli occhi dei compagni puntati  addosso.

    E ovviamente di emozioni, che potevano persistere o incenerirsi sul nascere, come un etereo taràssaco lambito da un paio di labbra nell’esprimere un desiderio.

    Ma nell’istante in cui esplodevano, quelle emozioni mi scatenavano una scarica di adrenalina, un impulso di darmi alla vita. Vivevo di eccessi, non erano gradite vie di mezzo in cui ristagnare, non era accettabile seguire il sentiero più agevole ma meno stimolante.

    Al momento giusto, niente e nessuno mi poteva trattenere dall’addentare l’attimo, infilzare il bello, quel qualcosa che fosse in grado di far ridere il mio cuore e rilucere il cristallino dei miei occhi colore corvino. Quel bello, assoluto o relativo che fosse, che ad ogni modo emanava profumi irrinunciabili. Nel mio carattere poliedrico, galleggiava l’istinto di farmi desiderare, farlo in mondo innocente come fosse un gioco: incrociare un paio di occhi da cui traspariva un tacito apprezzamento era per me una rassicurazione alla mia insicurezza latente, alla claudicante autostima del mio fascino. Ma quel gioco aveva vita breve. Poco dopo impattava contro un muro fittizio: ero sempre io a chiudere la questione defilandomi.

    Altalenavo dalla languida sognatrice con gli occhi rivolti al soffitto tra sospiri e sogni, alla sfrenata amante della velocità quando sfrecciavo tra le strade   periferiche con la mia Vespa 50 bianca, per poi essere l’amica fedele capacissima nel custodire i segreti di chi in lei aveva riposto la più cieca fiducia.  

    2.

    Ci sono spigoli del carattere di una persona che non dipendono dal sesso o dall’età e che si plasmano ubbidendo tacitamente alle conseguenze scaturite da esperienze pregresse, da una delusione infantile o amorosa, da un’offesa subita o inferta. Prendono spazio nel nostro subconscio e lì limano, smussano, distorcono, oppure sistemano. Un po’ come fa l’acqua che eterea, ma incisiva, insiste sulla roccia, concedendosi tutto il tempo che le occorre, tempo che in fondo lei non sa essere inesorabile e così, pian piano finisce col   lasciare ineluttabilmente la roccia scavata, segnata per sempre. Allo stesso modo ritenevo che il nostro vissuto e le conseguenze psicologiche che ne derivavano operassero una foggiatura sul nostro modus essendi. Quanto a me, molto aveva inciso e continuava a farlo, a mo’ di scalpello, l’essere figlia unica in una famiglia medio borghese. L’assenza di un’altra essenza, di una voce che non fosse la mia, con cui condire il mio incedere nella quotidianità, coi dubbi di quell’età, non costituiva un vero problema, non intendo dire questo, ma raffrontandomi con le mie coetanee, mi scoprivo spoglia di echi che mi accompagnassero oltre la soglia di casa.

    Sola. Sola agli occhi di chi aveva sempre un confronto, godeva sempre di qualcuno che lo ascoltasse e da ascoltare. A compensazione di questa mancanza, mi ero andata arricchendo di un’indole variopinta con cui convivevo a sazietà. Questa ed altre considerazioni facevano da corollario al mio crescere in un corpo ancora acerbo ma proteso ad esplorare il nuovo, l’ignoto.

    Mi soffermavo sui colori   dello spazio circostante, elaborando tutto. E quanto a ciò che mi viveva intorno, ero propensa ad individuare due tinte: bianco o nero, castrando alle vie di mezzo ogni possibilità di esistere.

    Una delle mie elucubrazioni mentali preferite atteneva alle interazioni tra la donna e l’uomo, o meglio, ai frequenti fraintendimenti in cui a pagare le conseguenze erano, in pratica, sempre le donne. Dove stava scritto, da chi o cosa era sancito che gli uomini dovessero leggere tra le righe di un nostro atteggiamento vezzoso un richiamo sessuale, come avviene negli animali nel periodo in cui vanno in calore?

    «Vedi com’è facile pungerli nella loro boria?» incalzavo spesso la mia amica del cuore, nonché compagna di banco, Bea. Non che lei fosse più cauta e saggia della sottoscritta, anzi, viveva come se stesse su una nuvola. Semplicemente tentava di mettere a bada i miei exploit di rivoluzionaria ribelle. Nel corso degli anni di Liceo era diventata la mia unica vera amica. Col tempo ero diventata molto selettiva nella scelta di chi avere al mio fianco e decisamente Bea incarnava l’ideale che si era delineato nella mia mente. Di delusioni ne annoveravo già diverse e con lei avevo capito di aver fatto centro. Originaria di Taranto, trapiantata in Abruzzo con la sua famiglia quando aveva poco più di quattro anni, era speciale, almeno per me lo era, ci incastrammo alla perfezione come tasselli di un puzzle che per combaciare devono differire nella forma.

    «Cavolo, Micaela, fai attenzione! Non tirare troppo la corda, sai come sono fatti, quelli.»

    Ma io facevo spallucce, proseguivo nel mio convincimento e le sorridevo, quasi in segno di sfida. Indossavo con un pizzico di presunzione le vesti dell’eroina dei mitici anni ’80, anni che sfilavano in passerella addobbati di borchie e smania di vivere.

    Il mio non era scarno gusto per la provocazione. C’era, come retroscena, una mia radicata riflessione: non mandavo giù la castrazione della libertà di noi ragazze che avevamo solo voglia di metterci la faccia, farlo anche sfacciatamente ma con purezza d’animo. Nella nostra legittima necessità di essere autentiche, di improvvisare passi di danza mentre percorrevamo le vasche dei portici, non accettavamo di essere fischiate o bollate. L’urgenza di goderci la spensieratezza cresceva in modo esponenziale e secondo me andava gustata senza se e senza ma.

    Noi ragazze cominciavamo a tranciare i freni inibitori, retaggio che ci arrivava dritto dai binari dei decenni precedenti. Finalmente pregustavamo l’ingresso in discoteca in stile new look, con la disco music che ci spalancava palcoscenici inediti e galvanizzanti, che ci portava a piroettare, a sognare con le braccia tese verso il cielo in segno di ossigenazione catartica: tutto questo, al ritmo di Donna Summer, Kool & the Gang, Duran Duran, Prince e tanti altri che si affacciavano in classifica e nel giro di poco diventavano autentici miti.

    Noi, giovani protagonisti di quel palcoscenico non avevano contezza di quanto fossimo privilegiati. Bastava guardarsi indietro, a qualche decennio prima o ancora più a ritroso nel tempo, per avere un pur vago quadro di quali macigni sociali e politici avevamo schivato avendo la fortuna di godere di un periodo storico che tutto sommato arrideva alla musicalità e alla spensieratezza in cui ci crogiolavamo. Fortunati, certo. Ci lasciavamo alle spalle pudori, ritrosie, veti sociali ed educativi. Ci affacciavamo su scenari non totalmente disinibiti, forse,

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