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In prima persona
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E-book165 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Il ministero rimase serio: “No, mi riferivo a un altro racconto, quello che abbiamo trovato sul computer”
“Quale racconto?”
“Vuole che legga?”

Cosa avrei dovuto rispondere al pubblico ministero? Che il padre di Sergio Morandi si vergognava del figlio morto suicida? Che la Morandi Editori avrebbe fatto di tutto, pur di trovare un capro espiatorio?
Pensare che l’Enri diceva: “Si scrive per odio o per amore”. Mi spiace che se ne sia andato, perché l’Enri era un saggio e aveva ragione: io ho sempre scritto per amore, per amore di Sara Livezzi. Volevo colpirla, attrarla, essere meglio del suo uomo: Sergio Morandi. Mi spiace anche per Sonia, la mia fidanzata. Avrei dovuto essere sincero, o almeno non avvelenare la nostra relazione.
Oh Sonia, tu hai fatto di tutto per me. Come convincere tuo padre a raccontare in diretta televisiva la mia storia. E diventare famoso, mio malgrado.
LinguaItaliano
Data di uscita21 lug 2014
ISBN9786050312676
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    Anteprima del libro

    In prima persona - Marine Détdaiz

    racconto

    Zero

    Baciò i capelli della bambina e lei schiuse le labbra, di riflesso. Avevano trascorso la giornata in giardino, a potare l’acero: la sera, la bimba si era addormentata prima della fine del film. Lui l’aveva presa delicatamente e depositata nel letto, con le braccia distese e i pugnetti chiusi.

    L’orologio proiettava dei numeri rossi sulla parete: erano le ventidue e trenta. Di nuovo, arrivò la stanchezza: sentì il peso della bambina, dei rami di acero, della notte e del freddo. Un peso sordo, grave, sul pensiero di tutto l’accaduto e di quanto doveva ancora succedere. Si preparò per la notte e si adagiò sul divano, di fianco al letto della bimba.

    Quando si risvegliò, lo stesso orologio indicava le cinque e la bimba dormiva ancora. Sgusciò dal letto in bagno e si gettò dell’acqua fredda sul viso, per togliersi il sonno. Sfilò i pantaloni del pigiama, con il loro tepore, e s’infilò quelli della tuta lavata di fresco. Tirò le calze al ginocchio e strinse le stringhe delle scarpe.

    In strada, fu accolto da una densa umidità: i cartoni accatastati per la raccolta dei rifiuti ne erano inzuppati. Un gruppetto di suore mattutine disturbò la sua solitudine, ma non ne fece un dramma: alzò il ginocchio e cominciò a correre.

    Si fermò quando giunse sul ponte che attraversava il Ticino. Grosse nutrie brucavano l’erba vicino all’acqua, incuranti dei rifiuti sparsi sulla sponda. L’acqua non era trasparente e non aveva colore, era un fluido inerte e senza vita che scorreva muto nella foschia del mattino. Aveva scelto quel posto perché, anni prima, una signora di Rozzano si era uccisa buttandosi dal ponte. I giornali avevano parlato di depressione, debiti di gioco, tradimento del marito, fondale basso e impatto fatale.

    Salì sul parapetto e urlò al vento del mattino: Addio, maledizione, addio!

    Poi, mise un piede nel vuoto.

    L’appuntato terminò la lettura e si rivolse al compagno: Oh, ‘un ce capisco un cazzo!

    Scolari! Rispetto per piacere! lo richiamò il Maresciallo, accennando con lo sguardo al corpo sospeso.

    Il cadavere di Sergio Morandi li osservava, con un ghigno forsennato, la lingua tumefatta e gli occhi strabuzzati e vividi. Indossava una camicia bianca, con le maniche perfettamente arrotolate fino ai gomiti. Aveva usato la cravatta per impiccarsi: l’aveva incastrata nella porta, come un cappio.

    Era stata la domestica nigeriana a ritrovarlo appeso, la stessa domestica che ora piangeva rumorosamente in salotto, sbracciandosi per spiegare il suo dolore.

    Sergio Morandi aveva preparato il suicidio nei minimi dettagli: la sua macchina da scrivere, una vecchia Olivetti, precisamente collocata al centro della scrivania, accanto a una pila di fogli e un bicchiere, scrupolosamente allineati. Aveva scelto la porta del bagno del suo ufficio per appendersi, in modo che chiunque entrasse lo vedesse in piedi.

    La scena ricordava una natura morta, e l’appuntato Scolari fantasticava sull’eventuale titolo: Il tavolo della morte oppure Il romanzo suicida. Guardando il volto dello scrittore, l’appuntato pensò che Sergio Morandi non era magro come appariva in televisione. Il gonfiore della morte, poi, lo aveva reso disteso e pacioso, ma l’appuntato Scolari preferì pensare che il Morandi avesse apprezzato la sua lettura. La pagina che aveva ritrovato nell’Olivetti era meglio della solita lettera d’addio, giudicò l’appuntato. La metà delle lettere ritrovate sono false pensò Una volta su due, se c’è un cadavere e una lettera d’addio, allora c’è anche un assassino

    Quel giorno, però, il suicidio era autentico. Sergio Morandi aveva lasciato qualcosa che lui solamente poteva scrivere: l’ultimo capitolo del suo romanzo inedito. Con un addio finale che pareva messo apposta.

    A me mi pare proprio suicidato concluse l'appuntato e cominciò a ciondolare per l'appartamento, curiosando tra le foto e i soprammobili, senza riguardi per il cadavere di Sergio Morandi e per il Maresciallo che lo teneva d'occhio.

    Il piano

    Prendo portafoglio, chiavi, ombrello e mi ritrovo con le mani troppo occupate per chiudere.

    Ci pensi tu-u? grido con tono melenso verso un punto oscuro del mio appartamento.

    La stronza manco si degna di rispondere.

    Accosto la porta agganciandola col manico dell’ombrello e mi lancio per le scale del palazzo, sperando di non incrociare l’ascensore in salita e maledire la scelta.

    La stronza non si è insospettita della fretta. Mi domando se non stia in casa mia soltanto perché non trova altro posto per farsi unghie e capelli.

    Fanculo, me la sono cercata.

    Arrivo in strada e mi accorgo che la pioggia è finita da un pezzo.

    A questo punto, l’ombrello è inutile e mi farà sembrare uno sfigato, uno di quei tipi precisini e previdenti che non sopportano le gocce d’acqua. Lo mollo nel primo cestino che trovo, pur sapendo che la stronza, al mio rientro, mi chiederà: Dove l’hai dimenticato? Non perdi la testa perché ce l’hai attaccata. Ripete sempre: Non perdi la testa perché ce l’hai attaccata. Lo diceva la mia maestra delle elementari, senza essere odiosa come la stronza. La stronza è odiosa pure nei pensieri, ostica da trascurare. Provo a distrarmi osservando le persone che incrocio sul marciapiede: pensionati con sportine e studenti in piena bigiata. Si dice che i Milanesi abbiano l’aspetto asfittico: in effetti, l’aria di Milano è uno schifo, basta qualche goccia di pioggia per rendersene conto. L’acqua lava l’aria dagli inquinanti, dai gas, dal PM10 e merda varia: per qualche ora la città è più respirabile. Sarà per questo che cammino inalando a pieni polmoni, snobbando i rinchiusi nelle auto in coda, come se Via Sardegna fosse l’Alta Via delle Dolomiti. Che gli automuniti si scannino pure per qualche metro, al verde dei semafori! Perché la gente ci tiene tanto a usare la macchina? Forse perché non tutti abitano in centro mi risponderebbe la stronza, facendomi pesare le sue inverosimili origini proletarie.

    Arrivo davanti alla libreria con un anticipo imbarazzante. Per fortuna ho abbandonato l’ombrello in tempo. I cingalesi di Piazza Piemonte scommettono su nuova pioggia e non  ritirano gli ombrellini. Venisse un acquazzone, saprei come ripararmi.

    Faccio una carrellata dei libri in vetrina, tanto per sembrare impegnato. Un’intera vetrata è dedicata al libro del momento, il nuovo capolavoro di Sergio Morandi: L’anello sul porfido. Copie impilate a mo’ di colonne per sorreggere il manifesto dello scrittore: il grande Sergio Morandi sarà presente in quella libreria, proprio lui, in carne e sorrisi, a elargire sapienza e firmare autografi.

    Passo a esaminare i clienti all’interno: Lei non si vede.

    Mi distraggono due ragazze vestite come zoccole, quindici anni, sedici al massimo. Si accostano al vetro. Quella con i capelli rasati, con mio sommo dolore, punta il dito verso L’anello sul porfido. Chiede: Questo l’hai letto?

    L’altra aspira la sigaretta e ci riflette sopra. Purtroppo risponde: Non è male

    E quello?

    Non male, non male

    Cazzo, quale gli regaliamo?

    L’altra aspira la sigaretta e ci riflette sopra.

    Come sono volgari i ragazzini di oggi. Volgari e indecisi. Intervengo, prima che la loro abulia li conduca tra le braccia  del best-seller del Morandi.

    CD?  propongo con un sorriso da ottuso. A volte dimentico che ho quasi quarant’anni: le ragazze mi fissano con quel disprezzo che si riserva agli adulti indiscreti e superflui.

    Quella rasata mi volta le spalle, l’altra spegne la sigaretta ed entrambe riparano in libreria.

    Ciao!

    La sua voce d’angelo mi solleva dalla vergogna per la figura di merda.

    Ciao le rispondo con voce ballerina.

    Lei si avvicina alla guancia per darmi un bacio, ma il collo mi tradisce e s’arrocca rigido: le sue labbra non giungono alla mia pelle. Sto impassibile a respirare il suo profumo: mi sembra lo stesso di quando ci frequentavamo.

    E’ sempre lo stesso profumo? chiedo.

    Non ho finito di pronunciare umo che già s’apre l’antologia del ripensamento. Primo: la voce ballerina ha dato alla domanda un tono di disapprovazione. Secondo: è da coglioni passare ai ricordi intimi dopo due Ciao. Terzo: non…

    Come? mi chiede Lei.

    Forse sono salvo. Presento un’altra domanda facendo finta di nulla: Dimmi, come stai?

    Bene! E tu? Sembri in forma

    Mah… Sì… Normale, diciamo

    Cazzo.

    Normale?

    Diciamo?

    Pure un Abbastanza bene sarebbe stato meglio di un Normale.

    Infatti, Lei replica al posto mio: Normale? Stai bene invece. Sei elegante, molto ‘corporate’ direi

    Al complimento rispondo tendendo il viso in un sorriso tutto muscolare, manco mostrassi gli incisivi al dentista.

    Come ‘corporate’? chiedo.

    Mmm… Professionale e maturo?

    Mah … Sì. Professionale e maturo

    Fanculo. Quarant’anni ed è come se ne avessi quindici. Mi merito la stronza a vita.

    Lei mi guarda perplessa: si sarà pentita di aver accettato il mio invito.

    Meglio reagire. Ripasso il mio piano, raccolgo tutto il coraggio e le indico l’ingresso della libreria.

    Recito senza incertezze: Vieni ti  faccio vedere una cosa e poi ci prendiamo un caffè al bar qui di fianco che lo fanno buono lo prendo lì ogni mattina oppure vuoi bere qualcosa se sei di fretta non ti preoccupare facciamo…

    Sono costretto a fermarmi per inspirare. Una goccia di sudore ghiacciato mi scivola dall’ascella lungo la manica della camicia.

    Lei ride.

    Fammi vedere questa cosa, dai! sollecita.

    Mi prende sottobraccio e mi conduce in libreria.

    La libreria mi fa bene.

    L’ambiente ristretto, i clienti silenziosi, i libri ben disposti. Elementi famigliari che mi rimettono a mio agio.

    Riesco a riprendere fiato e rilassarmi, arrivo anche a parlarle con la voce di una persona normale: Anche tu sei in forma. Com’è la vita?

    Bene, sempre quella. Cosa volevano le ragazze? bisbiglia Sara indicando le zoccole quindicenni. Le due stanno vagliando, rispettivamente, un DVD di Jimi Hendrix a Woodstock e uno di Marco Carta e amici vari.

    Mi hanno chiesto un consiglio: dovevano regalare un CD a un loro conoscente rispondo superbo.

    I ragazzini regalano ancora CD? mi chiede stupita, e io ricordo che è più bella quando inarca le sopracciglia. Lo è sempre stata.

    A quanto sembra… rispondo possibilista.

    Sara sorride e mi chiede impazientemente:  Allora? Cosa volevi mostrarmi?

    Aspetta, dovrebbe essere qui

    E’ un libro?

    Come si intitola?

    "La morte di Drizzt"

    Oddio! E chi è Dris?

    Drizzt, Drizzt. E’ un elfo scuro. E’ un libro fantasy, il sequel della saga di Salvatore

    Lei si scosta una ciocca bionda e non commenta: l’ho già annoiata. Così imparo a fare il misterioso.

    Intanto, scorro con occhi rapidi i libri posati tra gli

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